Nei prossimi anni aumenterà la dimensione delle coorti dei grandi anziani e crescerà di conseguenza la domanda di cure e assistenza. Che ha nella famiglia la sua collocazione naturale. Ma il declino delle nascite ridurrà il numero di chi queste cure presta, quasi sempre le donne, fino a rendere insostenibile il carico. Occorre perciò ridefinire la divisione di genere dei ruoli. La sostenibilità economica futura delle politiche sociali passa infatti per un rilancio delle politiche di equità. Viviamo la questione anziana in dolorosa dissonanza tra il desiderio incomprimibile di livelli elementari di cura e la percezione che tali bisogni siano resi inaccessibili dall’inerzia demografica. L’età della disabilità È evidenza empirica accettata che l’età in cui la disabilità diventa invalidità cronica si sta spostando in avanti. Alcune indagini svolte alla fine degli anni Novanta hanno permesso di stimare che la quota di popolazione nel Nord-Ovest di Italia con autonomia funzionale compromessa è inferiore al 2 per cento a ottanta anni e non arriva al 10 per cento a novanta anni. Legami forti e deboli È nel nucleo familiare che l’accudimento trova la sua collocazione naturale. È tra gli uomini che quella perdita di reattività, che cresce ragionevolmente con l’età, si riscontra in misura non trascurabile (3-4 per cento) anche sotto i settanta anni, al momento dell’uscita dalla vita attiva (donde una marcata sovrapresenza di “giovani anziani” maschi nelle convivenze per anziani). Ma sono generalmente le figlie cinquantenni a essere gravate della cura degli anziani strappati al circuito di ricovero. Per saperne di più Fries J. (1980), Aging, Natural Death and the Compression of Morbidity, New England Journal of Medicine, 303, 130-135.
Cerchiamo allora di ridurre la dissonanza affidandoci a confortanti evidenze empiriche (l’ottantenne oggi è arzillo come il settantenne d’antan) e ragionevoli argomentazioni (è alla famiglia che spetta e va delegata la funzione di cura). Ma qualcosa non quadra.
Ma attenzione: dopo gli ottanta anni la curva di disabilità continua a crescere esponenzialmente, e per l’accresciuta longevità si affollano di più proprio le età estreme con più alti tassi di disabilità. Così gli ultra-ottantenni del 2030 avranno, sì, la stessa buona salute degli attuali ultra-settantacinquenni, ma saranno di più.
Se anche lo spostamento dell’età di buona salute di massa fosse più veloce dello spostamento della longevità, la dimensione delle coorti dei nuovi grandi anziani renderebbe di per sé più problematica la gestione collettiva del fenomeno.
La disabilità invalidante non colpisce uniformemente gli anziani. Tra quelli a reddito medio-basso la percentuale di non autonomia è cinque-sei volte superiore tra ottanta e ottantacinque anni (quattro volte dopo i novanta).
La questione anziana mantiene il suo statuto di questione sociale e impone di tornare a investire in un sistema di supporto domiciliare pubblico. L’elettorato è oggi più sensibile al tema, e si può forse trovare un consenso ampio su un contributo obbligatorio per finanziare la costituzione di un fondo unico per la non autosufficienza.
Ma la disabilità invalidante innesca una deriva verso l’assistenza strutturata proprio là dove manca un nucleo familiare che fornisca il lavoro di cura. Né è caricando interamente il compito sui familiari (anche con adeguati trasferimenti monetari) che si consente loro di far fronte alla situazione.
A parità di età e perdita di autonomia, solo il 20 per cento di chi è accudito da un convivente manifesta segni di perdita di reattività, anticamera della dipendenza totale. Tale quota sale al 47 per cento tra chi è solo, al 75 per cento tra chi è solo e non ha altri legami forti. Senza un gioco concertato di reciproco supporto tra famiglia, legami forti (parenti, amici) e legami “deboli” ma altrettanto strategici (vicinato, volontariato, servizio civile o pubblico di supporto) che radichino l’anziano nel suo spazio di vita, il rischio di naufragio è alto.
La domanda di care triplicherà nei prossimi quattro decenni, ma il declino delle nascite ridurrà le potenziali caregivers già dal 2020, così che il carico gravante su ogni donna si quadruplicherà, trasformando in un cappio il rapporto madre-figlia, cuore del modello mediterraneo di famiglia.
Né recinti pubblici, né privati o comunitari potranno chiudere questa falla, senza ridefinire la divisione di genere dei ruoli. E cambiamenti di tal fatta non si realizzano al semplice tocco di una bacchetta, ma per lenta sedimentazione di piccoli slittamenti nelle pratiche sociali.
Occorre rimboccarsi le maniche: la sostenibilità economica futura delle politiche sociali passa per un rilancio delle politiche di equità.
Guaita A. (2000), “La salute”, in Irer, Anziani: stato di salute e reti sociali, Guerini, Milano.
Micheli G.A. (a cura di) (2004), I continuanti. Interventi a mosaico in una società che invecchia, Franco Angeli, Milano.
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anna
leggo solo oggi l’articolo, sono d’accordo con la vostra analisi.. Io per esempio, ho un figlio disabile , una madre 84enne vedova ed un suocero 87enne; lavoro e non so più dove sbattere la testa. Grazie a tutti