La campagna pubblicitaria per la sottoscrizione di azioni di imprese in via di “privatizzazione” dovrebbe durare al massimo sessanta giorni, secondo i dettami di Testo unico della finanza e regolamento Consob. Per evitare che una comunicazione pubblicitaria troppo prolungata possa ripercuotersi sull’autonomia delle scelte d’investimento dei potenziali sottoscrittori. Ma è una norma troppo spesso aggirata, senza nessun intervento censorio di chi è chiamato a controllare. Ed è discutibile anche l’utilizzo dello stesso temine “privatizzazione”.

Con l’offerta della prima tranche delle azioni di Terna è, ripreso il processo di privatizzazioni (con quale slancio, è tutto da verificare). Una buona occasione per alcune considerazioni sugli aspetti “poco convincenti” che caratterizzano questa operazione, così come quelle precedenti.

Cosa significa “privatizzazione”

In primo luogo, sull’utilizzo del termine “privatizzazione” occorre fare qualche precisazione.
Per gli economisti, questo termine assume la valenza di cessione del controllo (ai privati) di un’impresa (precedentemente in mano pubblica). Anche il senso comune sembra allinearsi su questa definizione così come traspare dalla lettura di un qualsiasi dizionario.
La questione si complica, sia pure solo apparentemente, da un punto di vista più prettamente giuridico. La dottrina infatti, distingue tra “privatizzazione formale” e “sostanziale”: la prima è l’adozione di una forma giuridica di carattere privatistico (trasformazione in società per azioni) in luogo di una di stampo pubblicistico.

La seconda è il passaggio del controllo da un soggetto pubblico a soggetti privati.
In tale contesto, quindi, la privatizzazione formale deve essere vista come strumentale a quella sostanziale .
Troppo spesso, invece, il termine è stato utilizzato per operazioni che esulano da tale contesto, per la presenza di clausole statutarie, poteri eccezionali attribuiti allo Stato o per percentuale di azioni che esso continuava a detenere anche dopo la presunta privatizzazione. E infatti la cessione di Terna vede il permanere di una golden share in capo all’esecutivo (così come consentito dalla nuova disciplina dei poteri speciali dello Stato contenuta nella Legge finanziaria 2004.).

Perché è rilevante l’uso – distorto – del termine “privatizzazione”? La risposta è ovvia. Perché con esso si evocano una serie di considerazioni che possono generare confusione nel pubblico e, in ultima analisi,a condizionarne le scelte d’investimento. In particolare, se un’impresa esce dal controllo pubblico, come ci insegnano i cultori del neo-liberismo, sarà condotta secondo canoni più consoni al mercato e quindi in modo più efficiente e redditizio. Ma la presenza di una golden share limita fortemente il carattere “privato” dell’impresa.
Tuttavia, l’abuso di linguaggio non rappresenta la più eclatante (e ripetuta) violazione delle norme che viene perpetrata in occasione delle operazioni di “privatizzazione”.

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Campagne indebite

L’articolo 101 del Testo unico della finanza, infatti, dispone che “prima della pubblicazione del prospetto è vietato qualsiasi annuncio pubblicitario riguardante sollecitazioni all’investimento”.
Ciò è di non poco rilievo là ove si consideri che la Consob (articolo 13, comma 3, del Regolamento 11971) ha disposto che il periodo di adesione deve iniziare entro sessanta giorni dalla pubblicazione del prospetto. Ne consegue che di sessanta giorni al massimo potrà essere la campagna pubblicitaria a supporto dell’operazione. La norma sembrerebbe essere tassativa e lasciare poco spazio alle interpretazioni. Invece, le cose si complicano grazie anche alla bravura e all’immaginazione dei pubblicitari.
Si ricorre infatti a un comodo sotterfugio che ha beneficiato, duole dirlo, del silente assenso di chi dovrebbe vigilare. Le campagne pubblicitarie sono divise in due tronconi e partono ben prima dell’avvio “ufficiale” dell’operazione di collocamento. Filo conduttore comune sono i testimonial utilizzati, il tipo di ambientazione, la musica di sottofondo, gli argomenti trattati e la ripetizione di eventuali “tormentoni”. L’elemento “distintivo” è invece rappresentato dall’aggiunta nella seconda fase (i cui spot riprendono le tematiche narrative della prima o, ancor più esplicitamente, sono costituititi dai medesimi fotogrammi, eventualmente solo in parte integrati) dell’avvertenza che deve essere letto il prospetto informativo giacché, finalmente, si rammenta che si tratta di una sollecitazione all’investimento.

Il buon senso, oltre che qualsiasi esperto di comunicazione, ci suggerisce che, in uno scenario come questo, è fuorviante (oserei dire falso) asserire che esistano “due” campagne pubblicitarie. La campagna è pianificata e orchestrata come un unicum e i suoi effetti complessivi (in termini di capacità di convincimento della “clientela”) muovono dal momento in cui inizia la prima fase.
Tutto ciò è ancor più evidente se la prima fase, quella che alcuni definiscono di mera pubblicità “istituzionale”, attiene un’impresa che opera in regime di monopolio, che non abbisogna di pubblicità in quanto, anche senza conoscerne il nome, la ragione sociale, essa viene utilizzata dai suoi clienti. È ovviamente questo il caso di Terna, ma è stato il caso dell’Enel e, in un’ottica appena allargata, quello della Società Autostrade, di Telecom e di molte municipalizzate.

Se invece si sostiene che le campagne pubblicitarie sono due, la prima, mancando di espliciti riferimenti alla sollecitazione, non rientra nei divieti di cui all’articolo 101 del Tuf. Ma questa è un’interpretazione capziosa e troppo ossequiosa dei desideri del Tesoro di supportare, il più possibile, per motivi di immagine oltre che di cassa, le operazioni di classamento.
Oltre che infrangere un divieto posto a preservare la correttezza informativa, il supporto pubblicitario aggira un’altra norma (l’articolo 13 del Regolamento 11971) tesa a evitare l’eccessiva pressione che una campagna pubblicitaria eccessivamente lunga potrebbe produrre a discapito dell’autonomia delle scelte d’investimento dei potenziali sottoscrittori.

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Anche l’analisi lessicale della norma, come l’ermeneutica del diritto insegna, supporta la lettura secondo cui ci troviamo innanzi a una violazione delle disposizioni di legge: il legislatore ha disposto che sono vietati gli annunci pubblicitari “riguardanti” la sollecitazione all’investimento e, invece, non ha usato la più restrittiva formula secondo cui sarebbero vietata la pubblicità “della sollecitazione all’investimento”. Ciò anche perché, in senso stretto, è difficile parlare di sollecitazione all’investimento prima del momento della sua “costituzione” ovvero, prima del deposito del relativo prospetto. Ne discende che rientrano (o almeno che dovrebbero rientrare) nel divieto non solo le pubblicità che, espressamente, fanno riferimento a una sollecitazione ma anche tutte quelle che pur non menzionandola espressamente, sono altresì finalizzate a supportarla.
Un’ultima annotazione sulla mancanza di correttezza degli annunci pubblicitari relativi all’offerta di azioni della Terna. Non risulta che sia stato rispettato l’articolo 12 del regolamento Consob. Infatti, prima della pubblicazione del prospetto, l’emittente che diffonda notizie attinenti a sollecitazioni all’investimento (e in tali “notizie” sembra logico che rientrino quelle relative al posizionamento di mercato dell’emittente), è tenuto a fare “(…) espresso riferimento alla circostanza che sarà pubblicato il prospetto informativo (…)”. Anche in questo caso, chi doveva dire si è distratto, in compagnia di chi doveva controllare.

Ci si augura, almeno, di non rivivere alcune caratteristiche del primo collocamento dell’Enel. All’epoca, era stato sorprendente ritrovarsi dentro la bolletta una brochure pubblicitaria, con la quale si sollecitava l’adesione al collocamento. Si trattava, con buona pace del Garante della privacy, di materiale non richiesto, le cui spese di spedizione (in questo caso, forse, il soggetto interessato avrebbe dovuto essere l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato), oltre che quelle di produzione, venivano, ovviamente, sostenute da coloro che lo ricevevano, forzatamente, assieme alla bolletta. E se lo facesse un privato?

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