Le riforme strutturali non possono più essere rinviate. Il Patto di stabilità e crescita puo’ essere un ostacolo alla loro realizzazione perché molte riforme, soprattutto quelle pensionistiche, costano nel breve periodo e pagano nel lungo. Secondo Boeri e Tabellini, nel rivedere il Patto e’ utile introdurre nuovi parametri oggettivi che tengano conto di questi benefici di lungo periodo, come il debito implicito dei sistemi pensionistici. Vito Tanzi, tuttavia, osserva tuttavia che nei paesi che hanno attuato importanti riforme negli ultimi anni il livello della spesa pubblica si è sempre ridotto. Perché spesso la spesa improduttiva è tale da consentire drastiche “cure dimagranti”. Segue la controreplica degli autori.

Le pensioni nel Patto, di Tito Boeri e Guido Tabellini

Alla riunione dell’Ecofin di Scheveningen, i ministri economici si sono limitati a mostrare le carte. Sono davvero molte le questioni aperte al tavolo della trattativa sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Si deve, infatti, trovare un difficile equilibrio tra due diversi obiettivi: da una parte, il Patto deve continuare a prevenire un’accumulazione eccessiva del debito, dall’altra, ai governi deve essere concesso un più ampio spazio di manovra per mettere in atto riforme strutturali e ridare competitività all’Europa.

Un ostacolo alle riforme

Così com’è, il Patto ha un problema fondamentale: è un ostacolo alle riforme. I leader europei stanno sprecando tutte le loro energie e il capitale politico per rispettare i parametri di bilancio, mentre non fanno niente per affrontare le vere sfide: l’invecchiamento della popolazione, il peso dell’elevata imposizione fiscale, la perdita di competitività. Le riforme strutturali, infatti, “pagano” nel lungo periodo, e “costano” nel breve. Il Patto è nato per proteggere i cittadini europei dalla miopia dei governi, ma ha finito per determinare comportamenti ancor più miopi. Un esempio tipico è quello delle riforme pensionistiche. Pensiamo a una riforma che riduca il peso del pilastro pubblico a ripartizione ed espanda gli schemi a piena capitalizzazione. Per incoraggiare l’avvio di schemi pensionistici privati, è necessario ridurre i contributi obbligatori al sistema pubblico. Allo stesso tempo, si devono però continuare a pagare le pensioni a chi è già pensionato. Questo significa meno risorse per le pensioni pubbliche e, quindi, un aumento temporaneo del deficit corrente. Ma con la diminuzione delle pensioni future si avrà poi un miglioramento della sostenibilità del sistema. Le regole attuali del Patto scoraggiano questo tipo di riforme: l’aumento temporaneo del deficit di bilancio è proibito, anche se accompagnato da miglioramenti di lungo periodo. I politici europei sono divenuti consapevoli del problema. In quest’ultima riunione dell’Ecofin, la Commissione ha chiesto una maggiore discrezionalità e ha espresso la volontà di dare più enfasi al debito (esplicito): i paesi con un più basso rapporto fra debito pubblico e Pil avranno maggiore libertà nella politica fiscale. I ministri economici hanno, inoltre, proposto che riforma delle pensioni e sostenibilità di lungo periodo rientrino nei criteri di valutazione dei paesi. Per superare gli ostacoli che il Patto pone alle riforme strutturali, alcuni paesi hanno chiesto che il Patto sia legato agli obiettivi di Lisbona, per dare maggiore flessibilità di bilancio ai paesi che li stanno realizzando. Alcune di queste innovazioni potrebbero rivelarsi utili. Ma c’è il rischio di dare troppa discrezionalità alla Commissione o al Consiglio.

Le regole del Patto

Il Patto è basato su regole e perché possano essere applicate è necessario che possano essere definite con una certa precisione ex ante. Altrimenti, le regole diventano inapplicabili.  Vediamo allora la proposta di legare il Patto agli obiettivi di Lisbona. Ci sono più di cento indicatori nella strategia di Lisbona: che succede se un paese fa progressi in una di queste direzioni, ma peggiora in un’altra? Se fosse la Commissione a decidere sulla rilevanza dei diversi indicatori, interferirebbe così nei processi politici nazionali, imponendo priorità in aree che non sono di sua competenza e nelle quali non ha nessuna legittimazione politica. Se invece questa discrezionalità incontrollata fosse lasciata al Consiglio, e non alla Commissione, è facile prevedere che la “pressione dei pari grado” per ristabilire l’equilibrio di bilancio finirebbe presto per trasformarsi in una “protezione dei pari”. È possibile utilizzare il Patto a favore e non contro le riforme strutturali senza rendere le regole inapplicabili? Noi crediamo di sì. L’idea è individuare alcuni parametri ampi, ma precisi dal punto di vista operativo, e applicare a questi indicatori la stessa idea suggerita dalla Commissione per il debito pubblico: i paesi che fanno progressi su questi indicatori possono avere maggiore libertà d’azione sul deficit di bilancio. Un indicatore che risponde a questo criterio è il debito implicito dei sistemi pensionistici pubblici, cioè il valore attuale scontato delle prestazioni pensionistiche future, a legislazione vigente. Le prestazioni pensionistiche promesse ai lavoratori e ai pensionati sono più importanti dei deficit futuri dei sistemi previdenziali. I deficit possono essere ridotti con contributi più alti, ma non è nostra intenzione spingere i governi in questa direzione: i contributi per la sicurezza sociale sono già fin troppo alti in Europa e l’unico modo per riavviare la crescita senza compromettere il futuro, è attraverso una riforma delle pensioni che riduca il peso della componente previdenziale pubblica. Ovviamente, ogni stima del debito pensionistico implicito richiede cautele e assunzioni arbitrarie. Ma altrettanto arbitraria è l’attuale applicazione del Patto. Per esempio, sono convenzionali i criteri con cui si misurano i deficit di bilancio e si definisce che cosa è e che cosa non è un’entrata pubblica. Inoltre, la Commissione ha già fatto passi importanti nell’armonizzare le ipotesi utilizzate nelle proiezioni della spesa previdenziale nei diversi paesi. Ai fini del Patto, poi, il punto di riferimento dovrebbero essere le variazioni nello stock di debito pensionistico (date certe ipotesi economico/demografiche) piuttosto che il livello stesso. Le variazioni sono più semplici da confrontare dei livelli, perché è meno probabile che riflettano ipotesi arbitrarie.

Informare i cittadini

Ma c’è un motivo ancor più importante per concentrare l’attenzione sulle variazioni che avverranno da qui in poi nel debito pensionistico, a seguito di riforme previdenziali. Non c’è nessuna ragione perché l’Europa intervenga nei sistemi pensionistici dei singoli Stati membri. Dopotutto, qual è l’esternalità negativa per gli altri paesi europei se, per dire, la Spagna mantiene un sistema pensionistico generoso? Il problema è che la formulazione attuale del Patto è un ostacolo alle riforme. E d’ora in poi non deve essere più così. Una maggiore attenzione ai debiti pensionistici impliciti servirebbe anche per informare i cittadini. I sondaggi dicono che la maggior parte dei cittadini europei non è pienamente consapevole dell’entità della redistribuzione fra generazioni implicita nel funzionamento dei sistemi previdenziali pubblici. Molti ritengono che i loro contributi pensionistici vadano in un conto individuale, a capitalizzazione. Ignorano che invece stanno pagando le pensioni degli attuali pensionati. Questi sondaggi (www.frdb.org) rivelano anche che i cittadini più informati sono più favorevoli a riforme che riducano la generosità dei sistemi previdenziali. Stime ufficiali del debito pensionistico implicito aumenterebbero la trasparenza della redistribuzione tra generazioni dovuta ai sistemi a ripartizione. Così i governi verrebbero premiati da un più forte consenso politico per riforme che non possono essere ulteriormente rinviate.

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Versione originale

At their meeting in Scheveningen last weekend, Economic Ministers just laid their cards on the bargaining table.  Many controversial issues remain unsettled in the reform of the Stability and Growth Pact (SGP).  It must strike a difficult balance between two opposite goals. On the one hand, the Pact must retain bite against excessive debt accumulation. On the other hand, governments should be given more room of manoeuvre to enact structural reforms and restore Europe’s competitiveness. 

As it stands now, the SGP has a key problem: it is an obstacle to reforms. European leaders are wasting all their political energy and capital to meet demanding budget targets. But nothing is done to address the really vital challenges: the ageing population, the high tax burden, the declining competitiveness. The reason is that structural reforms tend to pay off in the long run and cost money in the short run. The SGP originally aimed to protect European citizens from the myopia of governments. It ends up forcing even more myopic political behavior.

A typical example is pension reform. Consider a reduction of the public, pay-as-you-go, pillar and an expansion of fully funded schemes. To encourage the takeoff of private pension schemes, compulsory contributions to the public system have to be reduced, while pensions continue to be paid to current retirees. This means less yearly revenues for state pensions and thus a temporary increase in the current deficit. But there is also a reduction in future pensions and thus sustainability improves. The current rules of the SGP discourage this kind of reform: the temporary increase in the budget deficit is prohibited, even if it is accompanied by a long run improvement.

European policymakers are becoming aware of this problem. At this last Ecofin meeting, the Commission asked for more discretion and wanted to put more emphasis on the (explicit) debt:  countries with a lower debt to GDP ratio will have more degrees of freedom in fiscal policy. Economic ministers suggested that pension reform and long run sustainability should also guide country evaluations. To overcome the bias of the SGP against structural reforms, some countries also insist that the SGP should be linked to the Lisbon agenda, giving more flexibility on the budget deficit to countries making progress towards the reform targets set at Lisbon.  

Some of these innovations would be useful. But they risk giving too much discretion to the Commission or to future Council decisions. The rules-based approach of the SGP requires operational criteria that can be defined ex-ante with some precision. Otherwise, the rules become unenforceable. Take the proposal to link the SGP to the Lisbon agenda. There are more than 100 indicators in the Lisbon strategy. What happens if a country makes progress in one dimension, while it gets more distant from Lisbon on another dimension? By deciding upon the relevance of the different indicators, the Commission would interfere with the national policymaking process, setting priorities in areas that are not its own business and where it would have no political legitimacy. And if so much unchecked discretion was left to the Council, rather than to the Commission, it is easy to see how “peer pressure” to restore budget balance would quickly turn into “peer protection”. 

Can the SGP be made to work in favour (rather than against) structural reforms, without abandoning the rules-based approach of the SGP? We think so. The key is to select some comprehensive but operationally precise indicators of structural reforms, and apply to them the same idea suggested by the Commission for public debt: countries that are making more progress on these indicators can get more leeway on the budget deficit. An obvious indicator that would meet this purpose is the implicit debt of public pension systems – i.e. the present discounted value of all future pension expenditures under existing legislation. Future pension outlays are more important than the future deficits of pension systems. Deficits can be reduced through higher contributions, but we don’t want to encourage governments to do that. Social security contributions are already way too high in Europe, and the only way to restore growth without compromising the future is through pension reform that reduces future outlays.

Of course, any estimate of the implicit pension debt requires caveats and arbitrary assumptions.  But so does the current implementation of the SGP, for instance in the conventions that define how to measure the budget deficit and what qualifies as government revenue and what doesn’t. Moreover, the Commission has already done relevant work to harmonize the assumptions needed to forecast public pension outlays and achieve cross-country comparability. Finally, for the purpose of the SGP, the benchmark should be variations in the stock of pension debt under given economic/demographic assumptions, rather than the level of the debt itself.  Variations are easier to compare across countries than levels, since they are less likely to reflect arbitrary assumptions.  There is also a more fundamental reason to focus on future variations in the stock of pension debt associated with pension reforms. There is no reason why the EU should interfere with pension liabilities of individual member states. After all, what is the negative externality on the rest of Europe if, say, Spain preserves a very generous pension system? The problem with the current SGP is that, as currently formulated, is an obstacle to reforms. From now onwards it should no longer be the case.

The extra focus on implicit pension debts would also help to inform individual citizens. Existing surveys reveal that most European citizens are not fully aware of the extent of the redistribution. Many even believe that their contributions accrue to an individual, capitalised, account, ignoring that they instead are paying the pension of the current pensioners. These surveys (www.frdb.org) also suggest that better informed citizens are more in favour of reforms that reduce the generosity of the system. Official estimates of the implicit pension debt would increase the transparency of the intergenerational redistribution in  pay-as-you-go systems. Thus, governments will be rewarded by this exercise also in terms of stronger political support to reforms which cannot be postponed any longer.

 

Riforme strutturali e spesa pubblica, un commento di Vito Tanzi

Nel loro interessante articolo del 14-09-2004, “Le Pensioni nel Patto”, Tito Boeri e Guido Tabellini affermano che il Patto di Stabilità e crescita “è un ostacolo alle riforme” perché le riforme strutturali “pagano” nel lungo periodo, ma “costano” nel breve.
Nei due anni che ho trascorso nel Governo, ho sentito ripetere spesso questo argomento.
Ma è vero? Qual è stata l’esperienza di paesi che hanno fatto importanti riforme strutturali in anni recenti?

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Il prima e il dopo della spesa pubblica

Per alcuni di questi paesi, la tabella che segue dà il livello della spesa pubblica prima dell’inizio delle riforme e nel 2002, l’ultimo anno per il quale ci sono dati definitivi. La spesa è espressa come percentuale del Pil.
Come si può vedere, tutti i paesi “grandi riformatori” degli ultimi anni hanno ridotto, alcuni in modo drastico, il livello della spesa. Nessun paese vero riformatore ha aumentato la spesa pubblica, neanche nel breve periodo.
Quali conclusioni si possono allora trarre? Primo, che è possibile attuare grandi riforme senza aumentare la spesa. Secondo, che gli alti livelli di spesa che caratterizzano molti paesi contengono anche una spesa improduttiva sufficiente a permettere una cura dimagrante. Terzo, che gli impedimenti alle riforme sono ostacoli politici o strutturali, come il mercato del lavoro. Ma il miglior ammortizzatore sociale è un mercato del lavoro flessibile.
Infine, vorrei aggiungere che i paesi che hanno fatto la cura dimagrante in spesa pubblica sono quelli con le economie più sane.

Tabella:

In conclusione, non diamo ai politici un’altra scusa per aumentare il debito pubblico e il disavanzo pubblico.

La controreplica degli autori

Ringraziamo Vito Tanzi per l’interesse mostrato nei confronti della nostra proposta. Ci preme rimarcare innanzitutto che la nostra tesi si riferiva alla sola spesa per pensioni e lo scambio proposto era “lasciamo salire il disavanzo nel caso di riforme che privatizzino una parte del sistema, se ci sono impegni di legge a tagliare la spesa futura per pensioni”.
Stimolati dalle sue osservazioni, abbiamo comunque guardato i dati (pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale) su spesa generale (non solo pensionistica), entrate e tasse delle amministrazioni centrali dello Stato nei paesi chiamati in causa da Tanzi. Come si vede dai grafici allegati (che, a differenza della tabella di Tanzi, guardano all’evoluzione delle serie di interesse anno per anno), in tutti i paesi tranne Irlanda, Nuova Zelanda e Olanda, le tasse sono rimaste costanti nel corso del tempo.  Questi paesi sono percio’ riusciti a chiudere il disavanzo sul lato della spesa, senza aumentare le imposte. Ma non sono riusciti a ridurre le imposte. Presumibilmente il disavanzo in questi paesi aveva messo pressione sui Governi per fare qualcosa, e i Governi hanno sfruttato l’emergenza per intervenire sul lato della spesa. In alcuni casi (Svezia ad esempio) il taglio alla spesa è stato preceduto (non seguito!) da tagli d’imposta.  Non è detto che ci sarebbero riusciti senza l’aumento iniziale del disavanzo.
Tanzi ha inequivocabilmente ragione su Nuova Zelanda, Irlanda e Olanda.  Ma la Nuova Zelanda non aveva governi di coalizione, quindi è una caso diverso. Irlanda e Olanda sono riusciti a fare riforme strutturali senza vedere inizialmente aumentare il disavanzo. Si tratta di soli due paesi. In ogni caso, concordiamo con Tanzi: il disavanzo non e’ condizione necessaria per fare riforme strutturali.
Tuttavia, sarebbe miope guardare solo al disavanzo dimenticandosi dei sistemi pensionistici. Oggi, in quasi tutti i paesi europei e in particolare in Italia, la spesa pensionistica e i contributi per finanziarla assorbono una quota eccessiva di PIL.
E’ dunque fondamentale ridurrla, e un modo politicamente meno difficile per farlo è consentire un opting out parziale dal sistema pubblico. Inoltre, non vorremmo trovarci con paesi (si pensi ai nuovi membri dell’Unione) che non riescono a costruire pilastri previdenziali a capitalizzazione perche’, nella fase di transizione, si trovano a dover rispettare vincoli stringenti sul disavanzo nel loro avvicinamento all’Euro. E’ un rischio che, francamente, non vorremmo correre. Ancora grazie per i commenti.

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