Che cosa differenzia le due vicende dell’Ilva e della Carbosulcis? Intanto sono diversi i numeri, anche se il dramma dei lavoratori è lo stesso. Ma mentre per Taranto si possono ipotizzare interventi che consentano di continuare la produzione, la miniera sarda non sembra avere un futuro, neanche come polo di ricerca e sperimentazione sul “carbone pulito“. Altri luoghi in Italia necessitano di una riconversione industriale e territoriale. Speriamo che le due emergenze attuali servano da lezione e il paese riesca a darsi una politica industriale capace di assicurare una crescita sostenibile.

“La vertenza del Sulcis abbia la stessa dignità di quella dell’Ilva di Taranto”, chiedono i minatori tramite i loro rappresentanti sindacali e politici. “Si va avanti a oltranza, ormai il Sulcis è in guerra. Il carbone è strategico, l’alluminio pure. Non si può pensare di chiudere le fabbriche senza colpo ferire”.
Parafrasando i minatori, si potrebbe affermare che anche l’acciaio è strategico.

I NUMERI DEL SULCIS E QUELLI DELL’ILVA
L’Ilva di Taranto è la più grande acciaieria d’Europa, da sola produce un terzo dei 28 milioni di tonnellate italiane di acciaio e dà lavoro attualmente a circa 11mila di persone. Nel 2011 eravamo l’undicesimo paese al mondo per produzione, siamo un paese esportatore, ma il nostro acciaio alimenta anche l’importante settore nazionale delle macchine per uso industriale.
I minatori di Nuraxi Figus sono quasi cinquecento, dall’unica miniera del nostro paese estraggono carbone di una qualità molto scadente per l’alto tenore di zolfo, che va ad alimentare la centrale elettrica Grazia Deledda di proprietà Enel. La centrale è, costituita da quattro gruppi: i due più vecchi a olio combustibile sono di fatto in riserva, quindi fermi, mentre sono in funzione un gruppo da 240 MW degli anni Ottanta e uno del 2006 da 350 MW. Si tratta di uno degli impianti meno efficienti presenti in Italia e, quindi, caratterizzato da emissioni specifiche di CO2 molto elevate. In Italia sono oggi in funzione tredici centrali, assai diverse per potenza installata e per tecnologia impiegata che bruciano il più conveniente carbone d’importazione.

Secondo i più recenti dati del Gse (relativi al 2011), il carbone ha contribuito alla produzione dell’energia elettrica immessa nel sistema nazionale per il 14,6 per cento del totale, quando il gas naturale ha contato per il 40 per cento e le fonti rinnovabili per il 36,7 per cento. (1) Il carbone è anche la fonte fossile più inquinante: per una produrre il 15 per cento di elettricità, genera oltre il 30 di tutte le emissioni di CO2 del sistema elettrico nazionale.
In sostanza, i numeri di Sulcis e Ilva sono diversi, anche se il dramma per i lavoratori è lo stesso. E a questo bisogna trovare una soluzione. Ma la soluzione riguarda probabilmente i minatori e non la miniera. Mentre la stessa cosa non può verosimilmente dirsi per Taranto.

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DUE STORIE ITALIANE

Il carbone sardo ha una lunga storia, ma già l’istituzione della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nel 1951 ne aveva reso poco economico l’utilizzo. Dal 1962 Enel, ritenendola anti-economica, aveva sostanzialmente bloccato l’estrazione: in risposta alle proteste dei minatori e al rischio di aggravio della situazione occupazionale, l’ente elettrico aveva ceduto proprietà e gestione delle miniere nel 1976 all’Egam e all’Ente minerario sardo, che avevano costituito Carbosulcis, passata successivamente a Eni. Di fatto, la produzione di carbone rimase ferma fino al 1988 e riprese solo grazie ai finanziamenti pubblici finalizzati a trovare uno sbocco di mercato al carbone. (2)
La soluzione sembrava essere la gassificazione (si brucia il minerale e si ottiene il combustibile) e la successiva produzione di energia elettrica. Eni, alle prese con la propria privatizzazione, mise Carbosulcis in vendita nel 1995 ma l’asta andò deserta. La prospettiva di chiusura definitiva delle miniere portò a una nuova ondata di dure lotte sindacali dei minatori con occupazioni e manifestazioni, finché, nel 1996, la Regione Sardegna prese in carico la proprietà di Carbosulcis per guidarne la transizione verso la proprietà privata. Vi è stata una seconda asta internazionale e ora, dopo che la vendita ai privati è slittata per ben due volte, non ci saranno ulteriori proroghe: entro dicembre (cioè fra quattro mesi) la Carbosulcis dovrà passare ai privati. Ma il problema, brutalmente posto, è: chi se la compra una società che ha chiuso il 2011 con una perdita di 25 milioni di euro, nonostante i 35 milioni di finanziamenti pubblici? Dal 1996 la Regione Sardegna ha speso 600 milioni di euro per mantenere le miniere della Carbosulcis, il cui carbone viene venduto a 84 euro a tonnellata contro i 35 di quello d’importazione cinese, e che alimenta la centrale Enel di Portovesme, che però funziona al 30 per cento della sua capacità produttiva.
L’impianto di Taranto è di proprietà dell’Ilva, prima società dell’acciaio con altri stabilimenti a Genova-Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi, Varzi e Patrica. L’Ilva nasce sulle ceneri della dismessa Italsider. La prima Ilva nasce per iniziativa di industriali del settentrione, per poi passare sotto il controllo pubblico con l’avvento dell’Iri. Negli anni Sessanta Ilva-Italsider diventa uno dei maggiori gruppi dell’industria di Stato, aprendo nuovi stabilimenti a Genova-Cornigliano, Taranto e Napoli-Bagnoli. Con la crisi del mercato dell’acciaio e dopo diverse traversie economico-finanziarie, nel 1983 rinasce come Nuova Italsider Acciaierie di Cornigliano per essere infine rilevata, con l’originario nome di Ilva, dal gruppo siderurgico Riva. Con gli anni Novanta inizia la laboriosa opera di dismissione degli impianti produttivi e una riconversione delle aree precedentemente occupate.
Lo stabilimento di Taranto è a ciclo integrale, vi avvengono cioè tutti i passaggi che dal minerale di ferro portano all’acciaio; la parte centrale sono i cinque altoforni alti più di 40 metri. Un altoforno ha una vita attiva di quindici anni, funziona continuamente e il suo spegnimento può causare guasti potenzialmente irreparabili in caso di riattivazione, la quale comunque richiede agli 8 ai 15 mesi.
A Taranto, lo stabilimento fa da contenitore alla città: occupa una superficie di oltre 15 chilometri quadrati, di cui oltre 10 nel comune della città pugliese, una superficie tripla di quella della città che lo ospita, e i due terzi del suo gigantesco porto. Con i suoi 250 chilometri di ferrovia interna e i giganteschi altiforni, l’Ilva è il primo contribuente del comune di Taranto e una volta dava da mangiare a 30mila persone, oggi ridotte a meno della metà. In passato, provvedeva anche alle manifestazioni culturali della città, aveva costruito il teatro, dava in beneficenza le olive raccolte dalle piante dei terreni dello stabilimento.
L’attività produttiva di acciaio dell’Ilva di Taranto ha però avuto anche paurose conseguenze: un aumento di mortalità per malattia, inquinamento e danni alla salute umana, animale e vegetale. Gli effetti delle emissioni nocive, che hanno portato al decreto di sequestro preventivo degli impianti a caldo emesso dal Gip Patrizia Todisco il 25 luglio scorso, sono il “frutto di decenni di inquinamento”, secondo i ricercatori dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Solo per il danno più grave che l’inquinamento può causare, quello sulla salute, i periti nominati dalla procura di Taranto hanno quantificato, nei sette anni considerati, un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie, e un totale di 26.999 ricoveri, con una media di 3.857. Secondo i periti nominati dalla procura, la situazione sanitaria a Taranto è molto critica, anzi unica in Italia. (3)

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(1) Non è inutile osservare che il fuel mix dell’elettricità prodotta da Enel, l’attuale market leader, è rappresentato dal gas per il 28,9 per cento, dalle fonti rinnovabili per il 20,7 per cento e dal carbone per il 48,7 per cento. Carbone che quindi è strategico per la società, proprietaria tra l’altro anche dell’impianto di Porto Tolle.
(2) Si stima che i contributi a fondo perduto delle Stato siano ammontati nel decennio 1985-95 a più di 900 miliardi di lire cui ne andrebbero aggiunti altri 250 messi direttamente dall’Eni.
(3) Per un’idea delle sostanze inquinanti emesse dall’impianto si può vedere: http://it.wikipedia.org/wiki/Ilva.

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