Si può discutere sulla scelta di conferire alla Banca d’Italia un ruolo di regista e non di arbitro nel processo di concentrazione bancaria. Ma i dati mostrano che la forte potestà di coordinamento è stata utilizzata anche per tenere sotto controllo il potere di mercato delle nuove banche, evitando danni a consumatori e imprese. Tuttavia, resta scarsa la concorrenza all’interno del settore, con una ridotta mobilità della domanda, legata anche agli elevati costi di chiusura del rapporto. Ai quali si potrebbe iniziare a ovviare con alcuni semplici accorgimenti.

Non intendo partecipare, fuori tempo massimo, alla vivace polemica sulla separazione delle “due vigilanze” (stabilità e concorrenza) che oggi fanno capo alla Banca d’Italia. Mi sembra che i pro e i contro (la presenza di oggettivi punti di conflitto tra le due prospettive, ma anche di economie di scopo suscettibili di migliorare la qualità dei “prodotti”) siano stati riepilogati da penne più affilate della mia. Per il resto, gli accenti astiosi e ingenerosi di altri commentatori mi invogliano a restare, pigramente, a bordo campo.
Mi pare poi che focalizzare un aspetto specifico del problema finisca per distogliere l’attenzione dai meccanismi, alcuni davvero semplici, che possono rendere più efficace l’azione di tutte le Autorità di vigilanza. Penso a una forte ed effettiva collegialità, all’obbligo di motivare le decisioni creando un precedente per il futuro, alla fissazione di limiti al passaggio di personale dirigente “dal vigilante al vigilato”.
Vorrei invece ripercorrere alcuni dati di fatto per provare a rispondere a interrogativi assai concreti: le fusioni bancarie hanno danneggiato i clienti? Imprese e risparmiatori hanno effettivamente beneficiato di una maggior concorrenza?

Le fusioni

Le fusioni bancarie vengono sovente messe sotto accusa. Esiste una fitta aneddotica negativa sulle grandi banche che “tradiscono” il territorio, ed è sufficiente mezz’ora di tavola rotonda con artigiani e imprenditori per farne una generosa scorta. La tesi dell’accusa è semplice: le nuove banche hanno approfittato di quote di mercato più elevate per aumentare i prezzi e diminuire il servizio.
Eppure, se guardiamo ai dati emersi da alcuni studi recenti, le banche che hanno partecipato in misura più marcata alle aggregazioni non sembrano praticare un pricing più aggressivo della media. (1)
Al contrario, se si considerano alcuni prodotti facilmente confrontabili, come i conti correnti di raccolta o i prestiti a breve termine alle imprese, risulta che parte delle economie di scala realizzate dopo la fusione vengono traslate (più o meno velocemente) sul cliente finale. Nel caso degli impieghi, poi, le banche “fuse” appaiono doppiamente virtuose: riducono il prezzo medio del credito rispetto al resto del sistema e mostrano una migliore capacità di diversificare i tassi in funzione della rischiosità dei clienti.
In definitiva, si può discutere sulla scelta di conferire alla Banca d’Italia un ruolo di regista e non di arbitro nel processo di concentrazione. Ma i dati ora ricordati impongono di aggiungere che questa forte potestà di coordinamento è stata utilizzata anche per tenere sotto controllo il potere di mercato delle nuove banche, evitando danni a consumatori e imprese.

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Sul mercato dei prestiti alle imprese, il “mark-up” a breve termine (cioè il “ricarico” che le banche applicano rispetto al costo del denaro) è rimasto grosso modo invariato negli ultimi anni, passando dal 2,5 per cento medio del decennio Novanta al 2,4 per cento dei primi anni Duemila (vedi grafico). Tuttavia, l’erogazione del credito è cambiata dal punto di vista qualitativo: la filiera produttiva dei fidi è stata ridisegnata e, soprattutto nel caso dei prestiti a Pmi, resa meno labour-intensive con l’aiuto di sistemi di valutazione semi-automatici (anche in vista del recente accordo di Basilea 2). Simili innovazioni, se consentono un risparmio di costi di esercizio, tuttavia richiedono consistenti investimenti: è presto, dunque, perché possano tradursi in riduzioni di prezzo.

 

I tassi

Se guardiamo ai tassi passivi, i conti correnti appaiono oggi meno “cari” che in passato: il minor costo rispetto all’interbancario dei fondi raccolti da clientela (“mark-down”) si è infatti dimezzato, passando dal 4 per cento degli anni Novanta al 1,9 per cento di questi anni (vedi ancora il grafico). Tale dinamica, tuttavia, più che dall’incremento della concorrenza, consegue dalla discesa dei saggi di mercato, secondo un meccanismo fisiologico, statisticamente dimostrabile e, soprattutto, reversibile. Del resto, per risparmiare il 4 per cento rispetto a un interbancario inferiore al 3 per cento, le banche dovrebbero oggi riconoscere, sui conti correnti, un tasso negativo: troppo, persino per i depositanti italiani, ormai avvezzi a rendimenti simili al residuo di sodio di una buona acqua oligominerale.
La lente dei tassi, peraltro, appare sempre meno adeguata a catturare una fotografia fedele delle condizioni praticate alla clientela. Negli ultimi quindici anni, le banche hanno infatti radicalmente modificato le modalità di fatturazione dei servizi di liquidità, custodia e pagamento connessi ai conti correnti: ciò che prima veniva indirettamente pagato dal mark-down, è oggi fatturato a parte, attraverso un sensibile incremento delle commissioni praticate per la gestione e movimentazione del conto.
In proposito non esistono statistiche aggregate, e gli stessi bilanci delle singole banche offrono un dettaglio piuttosto modesto. Non v’è dubbio, tuttavia, che recentemente la clientela retail abbia subito rincari anche consistenti, e che le offerte presenti sul mercato (rese opache dal meccanismo dei “pacchetti” e sovente modificate unilateralmente pochi mesi dopo l’accensione del conto) non suggeriscano la volontà di competere accanitamente.

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Un contributo semplice

Il mercato retail, in effetti, appare prigioniero di una ridotta mobilità della domanda, legata anche agli elevati costi di chiusura del rapporto: non è un caso se l’unico new entrant che ha conquistato clienti a ritmi elevati (Ingdirect) propone un prodotto che non richiede la chiusura del precedente conto corrente. Ai costi espliciti si aggiungono gli oneri legati al trasferimento di accrediti e addebiti domiciliati sul conto, con lentezze e disguidi tali da scoraggiare anche Clint Eastwood in Fuga da Alcatraz.
In proposito, forse i tempi sarebbero maturi per rendere “portabile” il numero di conto corrente, come è stato fatto con il cellulare. Sarebbe un contributo semplice e tangibile alla concorrenza, di cui la Banca d’Italia, nelle vesti di Autorità antitrust, potrebbe voler approfondire la fattibilità. E non sarebbe fantascienza se l’Abi, che negli ultimi anni ha davvero fatto molto per condurre i propri associati verso l’innovazione e la trasparenza, sposasse l’idea.


(1) Ad esempio, quelli di Panetta, Schivardi, Focarelli citati da www.finmonitor.it

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