Consiglio di amministrazione delle società quotate eletto sulla base di liste, con almeno uno dei posti coperto dalla minoranza. Lo prescrive il disegno di legge per la tutela del risparmio. Ma per gli azionisti potrebbe rivelarsi un danno, se rendesse le decisioni più difficili. Il risultato più probabile sarebbe la perdita di trasparenza del processo di nomina e potrebbe risultarne alla lunga compromesso il modello degli amministratori indipendenti, che anche nel nostro paese ha iniziato ad affermarsi, sulla spinta del Codice di autodisciplina. Luca Pacces commenta il contributo.

Una poltrona per la minoranza

L’articolo 1 del disegno di legge per la tutela del risparmio, approvato alla Camera e ora all’esame del Senato (n. 3328), impone alle società quotate di prevedere per statuto che i membri del consiglio di amministrazione siano eletti sulla base di liste e, inoltre, che almeno uno dei posti in consiglio sia coperto dalla lista di minoranza che ha ottenuto il maggior numero di voti.

Un’idea malintesa di democrazia

Questa norma ha trovato ampio consenso in Parlamento e nel paese sulla base di una malintesa equiparazione tra democrazia parlamentare e democrazia societaria. Però, non si sono forse valutate appieno le conseguenze avverse di tale impostazione, che può produrre danni rilevanti al nostro sistema di governo societario. Non a caso, una simile norma non è prevista nei paesi con mercati finanziari più sviluppati, né viene inclusa tra le modifiche raccomandate per il miglioramento della governance societaria dalle principali istituzioni internazionali – Ocse, Banca mondiale, Commissione europea – le quali pure negli ultimi anni non sono state parche di suggerimenti.
L’opportunità di simili norme è discutibile. Anzitutto, il disegno di legge offre già, all’articolo 2, un significativo rafforzamento del collegio sindacale, attribuendo alla Consob un ruolo attivo nella definizione delle modalità di nomina e dei limiti al cumulo degli incarichi, assegnando la presidenza del collegio sindacale al membro di minoranza, accrescendo i poteri dei sindaci. Tali modifiche, che rispondono a richieste degli investitori istituzionali, accrescono il ruolo di garanzia del collegio senza improprie interferenze sulla gestione.

Costa poco un posto in consiglio

L’articolo 1 fissa al 2,5 per cento del capitale la quota massima per la presentazione delle liste. Vale la pena di ricordare, al riguardo, che circa due terzi delle società quotate a Piazza Affari capitalizzano meno di 500 milioni di euro e circa un quarto meno di 80 milioni di euro. Nel primo caso, sarebbe dunque possibile acquistare un posto in consiglio con meno di 12,5 milioni di euro, nel secondo con non più di 2 milioni di euro. Il rischio che di tale opportunità (nota come greenmail) si avvalgano concorrenti o disturbatori della normale dialettica societaria è significativo. Invece che un vantaggio, gli azionisti ne potrebbero soffrire danni rilevanti, se ciò rendesse le decisioni più difficili o, peggio, obbligasse l’azionista di controllo a pagare impropri compensi per poter decidere. Ma, si argomenta, il sistema degli amministratori di minoranza in Italia esiste già, essendo stato introdotto nelle società privatizzate – tra le quali, Enel, Eni e Telecom – dalla legge sulla dismissione delle partecipazioni statali (legge n. 474 del 1994, articolo 4). E sembra aver ben funzionato, avendo condotto alla nomina di consiglieri di grandi capacità ed esperienza e a un miglioramento della governance delle società coinvolte.
Tuttavia, questo risultato è il frutto dell’attivismo di Assogestioni, che ha coordinato gli sforzi delle società di gestione del risparmio per la scelta dei candidati e la presentazione delle liste. Le persone prescelte hanno caratteristiche tali da poter essere qualificati come amministratori indipendenti più che come amministratori di minoranza.

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Gli effetti avversi sul funzionamento dei consigli di amministrazione

La generalizzazione del modello a tutte le società quotate, però, non funzionerebbe in questo modo. Infatti, come già oggi accade, nella maggioranza dei casi gli investitori istituzionali non sarebbero presenti a garantire candidature di qualità e indipendenza. L’amministratore di minoranza sarebbe sovente espressione degli interessi di una piccola parte dell’azionariato, non necessariamente coincidenti con la creazione di valore per tutti gli azionisti.
Il risultato più probabile sarebbe la perdita di trasparenza del processo di nomina degli amministratori, con la promozione di liste “amiche” da parte degli azionisti di controllo e, in prospettiva, l’evoluzione verso un sistema opaco di reti di partecipazioni e cross-directorship. Rischierebbe così di interrompersi la tendenza all’apertura dei consigli ad amministratori di qualità e indipendenza, sotto lo scrutinio del mercato. Il modello degli amministratori indipendenti, che anche nel nostro paese ha iniziato ad affermarsi sulla spinta del Codice di autodisciplina, potrebbe risultarne alla lunga compromesso.

Indipendenza e mercato

Ma, si obietta, l’istituto degli amministratori indipendenti nasce sui mercati anglosassoni, in un contesto di proprietà azionaria diffusa. Dove è concentrata, la nomina da parte dell’azionista di controllo già può compromettere l’indipendenza del nominato.
Questa obiezione è superficiale e, nella sostanza, infondata. Se nel nostro sistema i consiglieri indipendenti sono influenzabili da parte dell’azionista di controllo, in quello anglosassone sono soggetti alla forte influenza del management, come è emerso chiaramente negli scandali Enron e Worldcom. In entrambi i casi, gli antidoti esistono e risiedono in altri aspetti dei sistemi di governance: nella trasparenza del processo di nomina, con la piena pubblicità delle caratteristiche personali e professionali dei candidati; nel buon funzionamento dei consigli di amministrazione nei loro compiti di controllo della gestione, cosa che è anche nell’interesse dell’azionista di maggioranza; soprattutto, nello scrutinio severo del mercato, che deve saper riconoscere i candidati senza qualità e le nomine accomodanti. Questo è forse l’aspetto che più è mancato nel nostro mercato: intermediari, investitori, stampa specializzata, la stessa società di gestione del mercato non hanno denunciato tempestivamente evidenti violazioni dei principi di indipendenza in società quotate poi andate in dissesto. Invece di introdurre l’innovazione potenzialmente distruttiva degli amministratori di minoranza, si dovrebbe far funzionare meglio il modello degli amministratori indipendenti, che incomincia ad affermarsi e già funziona bene in molte società quotate. Muovendo in controtendenza rispetto ai mercati più avanzati, l’Italia rischia di cadere all’indietro, scoraggiando ancor più la quotazione e generando un modello di governo societario opaco e arretrato.

La Corporate Governance è un’opportunità, di Luca Pacces

Riusciremo in Italia a trasformare in opportunità i vincoli della corporate governance? Riusciremo a ridisegnare e rivalutare il ruolo del CDA e dei suoi consiglieri indipendenti, che è quello di vegliare sulla salute dell’impresa, e, in quanto tale, di garantire la fiducia degli “stakeholder”, e non solo degli investitori?In USA e in UK, ma anche nella maggior parte della Continental Europe; gli scandali sono serviti: in tempi brevissimi sono state emanate nuove regole, ma, prima ancora, i CDA si sono riprogettati, per offrire più solide garanzie di buon governo per la buona impresa. Questo è quanto ci aspettiamo anche in Italia, ed è quello che sta avvenendo, anche se molto lentamente e limitatamente a iniziative “illuministiche” di pochi. Quasi ogni giorno leggiamo articoli di illustri economisti che denunciano le lentezze e il disinteresse con cui procedono i lavori per la legge sulla tutela del risparmio. Ma noi vogliamo guardare e applaudire coloro che si sono mossi in anticipo, senza aspettare gli obblighi di legge, e guardando alla trasparenza e alla corporate governance come il modo, forse anche più sicuro e economico per aumentare il valore dell’impresa.La soluzione? Che le imprese globali decidano di seguire i codici e le regole di governance delle economie globali, che sono quelle aglo-americane. Non a caso constatiamo che le imprese italiane che lo hanno fatto sono oggi premiate con la fiducia degli investitori e con importanti miglioramenti sia nei risultati, sia, conseguentemente, delle quotazioni del titolo.Sarebbe certamente interessante e utile lanciare una attenta ricerca che abbia come obiettivo di identificare le imprese italiane che abbiano adottato la trasparenza e i codici anglo-americani di corporate governance, e confrontare i loro risultati con quelli delle imprese più “conservative”.Ma quali sono le regole di base per una buona corporate governance? Con riferimento al “Governance Lexicon” una ricerca di Spencer Stuart che pone a confronto le regole e i codici di Governance di 11 Paesi, proviamo a stralciare quelli che consideriamo i punti chiave.- Separazione dei ruoli tra Presidente e Amministratore Delegato;- Valutazione del Board- Maggioranza di Consiglieri Indipendenti nel Board, e relativa definizione – Costituzione e funzionamento dei comitatiTra i comitati, risulta quasi sconosciuto in Italia il comitato delle nomine, formalmente responsabile della selezione e nomina dei consiglieri indipendenti. Come risultato, i consiglieri indipendenti sono diventati la maggioranza nelle imprese angloamericane. E si tratta di consiglieri realmente indipendenti.Il comitato delle nomine è anche incaricato di gestire l’agenda della governance, di valutare la conformità dei consiglieri attuali e le performance del consiglio, di ridisegnare in modo rigoroso i processi di selezione dei consiglieri.Soprattutto nelle economie anglosassoni e per le imprese quotate (Fortune 500, FT’100), il comitato delle nomine è incaricato di valutare il Board attualmente in essere, identificare di quali competenze sia carente, e indicare le esigenze per il nuovo Board. Infine deve disegnare il processo di selezione.La valutazione del Board presenta un processo nuovo sempre più definito nella Continental Europe . Nelle imprese anglosassoni sta diventando pane quotidiano: rappresenta, infatti, un grande strumento di garanzia per gli investitori e per gli azionisti. Garantire che i consiglieri siano realmente indipendenti, che esista un processo di individuazione delle competenze di cui il consiglio ha bisogno, che esista un chiaro processo di informazione e di coinvolgimento dei consiglieri stessi, che il consiglio sia un organo di consulto e decisionale, e non un semplice ratificatore di decisioni già prese… Questi e altri sono i punti che devono essere considerati nel processo di valutazioneNel “nuovo” CDA, Il ruolo dei consiglieri indipendenti si mostra fondamentale. Ne consegue la necessità di sviluppare una professione finora riservata prevalentemente ai “professionisti” del consiglio di amministrazione (avvocati, commercialisti, professori, economisti, consulenti).Non vogliamo rinunciare a loro contributo, ma, guardare anche oltre. Nel mondo anglosassone, i CEO di grandi gruppi sono ricercati e richiesti di fare parte di un paio di Board (ovviamente non concorrenti) di livello internazionale. Lo scopo è di aggiornamento e di arricchimento professionale.Infine, l’età. Da noi è considerato un incarico da “fine carriera”, tipicamente per gli ultrasessantenni. In Usa e UK l’età media richiesta per i consiglieri indipendenti è di 50-55 anni. Anche questo è un gap che si riferisce a una differenza culturale importante, e su cui dovremmo lavorare.

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