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Poca allegria nella finanza comunale

L’allargamento delle competenze e la crescita dei bisogni hanno aumentato il fabbisogno dei comuni senza un corrispondente aumento di entrate tributarie. Si cerca di farvi fronte alzando gli oneri di urbanizzazione e concessione e le tariffe dei servizi pubblici. Che divengono così motivo sufficiente per opporsi alla privatizzazione anche quando la concessione mediante gara prometterebbe forti riduzioni dei costi reali. E’ un fenomeno molto preoccupante per gli effetti che minaccia di produrre sul piano dell’efficienza e dell’equità.

Un grido di allarme su quello che da un po’ di tempo sta avvenendo nella finanza comunale. L’allargamento delle competenze con le leggi Bassanini e il federalismo nonché la crescita dei bisogni nell’ambito delle competenze tradizionali (si pensi, ad esempio, ai problemi di assistenza legati all’invecchiamento della popolazione e all’immigrazione) hanno aumentato il fabbisogno senza che vi sia stato un adeguato aumento di entrate tributarie. L’Ici, imposta comunale sugli immobili, ha svolto egregiamente la funzione di forte tributo autonomo, ma, per quanto potente, è una molla ormai scaricata: l’imponibile di per sé non cresce in linea con il reddito e le aliquote sono già elevate.

Oneri e tariffe

In questa situazione i comuni, qualunque sia il colore politico della giunta, sono spinti a trovare altre entrate. Essenzialmente due sono le fonti utilizzate: gli oneri di urbanizzazione e concessione e le tariffe dei servizi pubblici. In ambedue i casi, il fenomeno è molto preoccupante per gli effetti perversi che minaccia di produrre sul piano dell’efficienza e su quello dell’equità.
La spinta a dilatare i permessi di lottizzazione e di costruzione per fare cassa subito, mediante l’introito degli oneri, e per dilatare in prospettiva l’imponibile aggregato dell’Ici, incide su delicatissime scelte di espansione urbana e industriale che sono di fatto irreversibili e dovrebbero essere guidate unicamente da valutazioni sullo sviluppo economico e sulla qualità della vita nel lungo periodo. Qualche osservatore usa l’espressiva locuzione di “svendita del territorio” per indicare la vistosa accelerazione in atto nella concessione dei permessi.
Per quanto riguarda le tariffe sui servizi pubblici, poi, è ben vero che sono regolate in alcuni campi dalle Autorità o dal Cipe, ma la discrezionalità del gestore o del controllore locale è ancora ampia. E allora la tentazione di trarne profitti di monopolio diventa spesso irresistibile. È chiaro che tariffe rese o mantenute più elevate del necessario per le esigenze finanziarie dei comuni implicano un fattore ingiustificato di costo per le utenze produttive, con conseguente perdita di competitività delle nostre attività industriali e commerciali.

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L’ostilità allo Stato leggero

Ancora più gravi i danni sul fronte dell’efficienza di lungo periodo. La teoria economica è pressoché unanime nell’invocare un allargamento degli spazi di concorrenza nel mercato. Oppure, quando ciò risulti impossibile a causa della natura di monopolio naturale dell’attività (caso, ad esempio, dell’acquedotto e della fognature), l’affidamento dei servizi a concessionari scelti mediante gara, con l’operatore pubblico che al massimo chiede un ragionevole canone di concessione. È la prospettiva dello “Stato leggero” che non fa più il produttore, ma solo il regolatore e controllore e che si mantiene attraverso il prelievo tributario sulla generalità dei cittadini che sono i beneficiari di tali funzioni strettamente pubbliche e quindi ne devono essere anche i finanziatori.
L’ostilità dei comuni a tale prospettiva si spiega in buona parte con il potere politico che il controllo dell’apparato produttivo e delle assunzioni conferisce ai governi locali. Ma certamente essa viene esaltata dall’aspetto finanziario: le entrate tariffarie diventano per i comuni motivo sufficiente per opporsi a processi di privatizzazione anche in settori e in situazioni in cui la concessione mediante gara prometterebbe forti riduzioni dei costi reali.
Il carico parafiscale rappresentato da tariffe che incorporano rendite di monopolio solleva poi delicati problemi di equità. (1) A parte che non si può essere sempre sicuri di salvaguardare l’utenza debole attraverso tariffe agevolate, resta la questione che tale carico parafiscale sull’utente medio non risulta adottato con la trasparenza delle procedure fiscali. Né risulta soggetto a generali principi ispiratori, conosciuti e approvati, quali quelli della capacità contributiva e del beneficio che vigono in campo tributario.
La preoccupazione per questi fenomeni deve indurre a riflettere. Serve in primo luogo un opportuno intervento a livello regionale che rafforzi le ragioni dello sviluppo sostenibile nelle decisioni comunali di espansione urbana e industriale. In secondo luogo è necessario un adeguamento delle entrate tributarie comunali, con la concessione ai comuni di compartecipazioni o addizionali su imposte che crescano automaticamente almeno proporzionalmente rispetto al reddito. L’ultimo concerne la ricerca di regole generali e trasparenti nel campo della finanza tariffaria, in cui risulta eccessivo lo spazio lasciato alle valutazioni dei comuni che ne sono i diretti beneficiari.

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(1) In questo caso, le rendite di monopolio sono visibili, si suppone, attraverso le entrate comunali che esse alimentano. Ma il discorso non cambia nell’ipotesi che siano nascoste in un costo del lavoro tenuto anormalmente alto dalle interferenze politiche.

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Il Trapianto

  1. Roberto Napoletani

    Sono totalmente d’accordo con l’autore dell’articolo. Anzi, aggiungerei che la crisi economico-finanziaria dei bilanci locali è un fenomeno che occuperà i prossimi Governi per almeno un decennio.
    L’effetto del federalismo all’italiana, della sussidierietà e di alcune riforme sbagliate si farà sentire sempre più e porterà gli EE.LL. sull’orlo del fallimento.
    Vi è poi la questione del patto di stabilità e del limite per la contrazione dei mutui, di cui non si capisce il senso per i Comuni e le Province, dato il vincolo di approvare i bilanci in pareggio ed in equilibrio economico.
    Limitare il tetto delle spese (anche di in conto capitale) per chi ha l’obbligo di non andare in disavanzo ha senso solo se vuole deprimere l’economia locale e bloccare gli investimenti in opere pubbliche, invece necessarie ai cittadini.

  2. Marco Zanichelli

    Sarà sempre peggio. Da urbanista ho visto Comuni elaborare Prg a crescita zero per poi contrattare “privatamente” varianti specifiche con i proprietari terrieri, in cambio di una quota rilevante del terreno e della capacità edificatoria. Il Comune da pianificatore si sta trasformando in speculatore, svendendo quindi territorio e poteri. E da poche settimane, grazie alla legge Lupi/Mantini (assolutamente bipartisan) tutto ciò non si svolgerà più sottobanco, ma per regola.

  3. Giuseppe Gaggero

    Mi congratulo con l’autore per aver portato in evidenza un argomento che spesso non occupa le prime notizie: la finanza locale.
    In effetti, ritengo estremamente utile la conoscenza, da parte dei cittadini, dei dati riguardanti la finanza locale del territorio in cui vivono, includendo in tale analisi non soltanto gli enti locali ma altresì le aziende autonome, le circoscrizioni, gli enti e, in definitiva, gli organismi in cui spesso si corre il rischio di contare più persone iscritte al libro paga che non “seggiole” su cui sedersi.
    Sarebbe opportuno, per entrare nel merito delle privatizzazioni dei servizi, che venissero pubblicati i dati relativi agli stessi, allo scopo di fornire ai cittadini gli elementi per valutare la redditività delle gestioni pubbliche.
    Occorrerebbe introdurre anche in tale settore il concetto del benchmark, ossia del miglior operatore del settore, in quanto sarebbe interessante conoscere, ad esempio, il quantitativo di spazzatura smaltita procapite per ogni dipendente dell’azienda di smaltimento, pubblica o privata, così come altri servizi. Mi rendo conto che, così facendo, si può scoperchiare la pentola del clientelismo, ma se vogliamo portare avanti contemporaneamente un modello di democrazia ed un equilibrio dei conti pubblici, non possiamo non conoscere i dati essenziali nella valutazione del buon operato degli amministratori (e, quindi, della politica).

    Colgo questa occasione per rendere grazie ancora una volta alla struttura de “Lavoce.info” per il prezioso contributo alla conoscenza ed alla comprensione dei fatti.

  4. Maria Teresa Leone

    Gli enti locali sono il mio lavoro: sono perfettamente daccordo con l’analisi fatta. E’ assolutamente necessario rimarcare che “stato leggero” e federalismo “all’taliana” sono una contraddizione, non possono coesistere. Spero che la politica ne prenda atto, per evitare gli effetti perversi e fallimentari sulla finanza comunale.

  5. Roberto Napoletani

    Mi sembra, dalle notizie odierne (16.09.2005) che la proposta di finanziaria 2006 aggravi se è possibile il quadro della situazione delineata.
    Altro che federalismo e rispetto delle Autonomie Locali, qui si vuole chiudere gli Enti Locali, con buona pace dei cittadini che chiedono servizi, qualità della vita e sicurezza sociale.

  6. LELIO CUSIMANO

    Ho trovato nella nota molti punti condivisibili; mi pare tuttavia che si è persa l’occasione per mettere il dito su un’altra piaga: la comprovata “difficoltà” degli enti locali ad incassare le imposte accertate. Ici, Tarsu, Tosap segnano bassi valori di incasso. In Sicilia ad esempio manca all’appello, secondo il Formez, il 93% delle imposte comunali (già accertate) sui rifiuti urbani. Non sarebbe il caso di indagare se si tratta di inefficienze, di inadeguata organizzazione o di tecniche di acquisizione del consenso?

  7. Francesco Bizzotto

    Articolo e commenti sono belli. Mi chiedo se bastino queste denunce. Non credo. La PA, per non essere considerata palla al piede del Paese, deve uscire dai suoi schemi e provare a dire che Stato leggero (privatizzazione di servizi e sussidiarietà) e Federalismo possono coesistere! Servono tre cose. 1° un po’ di CONCORRENZA (per esempio lavorando sui molti Consorzi e scegliendo, premiando “il miglior operatore del settore” di un certo servizio). Penso ai Comuni della provincia di Milano, ciascuno con la sua Anagrafe, Vigilanza, Centro informatico, Ufficio tecnico e Sportello unico… In un fazzoletto di terra esistono centinaia di spesso opachi, insindacabili duplicati. E Concorrere implica un comune valore / obiettivo; è diverso dal Competere (pura efficienza e risultato). 2° la PA impari a farsi APPREZZARE (anzichè tollerare). Come? Formando in modo mirato, qualificando i Servizi e Comunicando (ponendo in comune con i cittadini la sua attività). E qui arriva il nodo politico. Ma prima va detto che se la PA non imparerà a farsi apprezzare non potrà aumentare le tariffe dei suoi Servizi (i suoi introiti). 3° Anche i partiti devono uscire dagli schemi: smettere di pensare di essere MONOPOLISTI della rappresentanza e trovare il modo di superare la plateale separazione tra società e politica. Come? Coinvolgere, ascoltare, chiamare a contribuire. E motivare le scelte. E convincersi: esiste una pluralità (e mobilità) di consenso politico in Europa che va esplorata e valorizzata; ed esistono pezzi di progettualità politica che non vanno sprecati ma ricondotti a unità (è la via per sfuggire al dominio della tecnica e dei furbizia). Insomma va riformata la politica e i partiti devono rinunciare al monopolio, per continuare a svolgere la loro importante missione. Associno la Società civile organizzata (non il professore o il tecnico) al far politica: le riservino il 10% di tutti i posti negli EE.pp.

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