La riforma costituzionale lascia inalterato il meccanismo di finanziamento delle autonomie locali e il sistema dei rapporti finanziari tra differenti livelli di governo fissato nel 2001. Eppure per l’intera legislatura si è bloccata la concreta attuazione del federalismo fiscale. Anzi, negli ultimi anni, con tetti di spesa e vincoli vari si sono inasprite le limitazioni all’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali. Il Governo preferisce affrontare questi problemi con interventi a breve termine, non concordati con gli altri soggetti istituzionali coinvolti.

Il termine devolution ha goduto negli ultimi tempi di un’immeritata popolarità. Al di là del battage mediatico, la riforma costituzionale promossa dal centro-destra contiene un cocktail di interventi che incidono in profondità sugli assetti istituzionali del paese, ma riserva in realtà al federalismo soltanto un ruolo relativamente marginale. (1)

Le competenze di Stato e Regioni

La riforma costituzionale modifica, ma certamente non stravolge, l’articolo 117, che stabilisce l’attribuzione delle competenze legislative sulle varie materie tra Parlamento nazionale e Regioni. Al di là di alcuni condivisibili interventi di manutenzione al testo vigente, (2) trasforma in competenze esclusive regionali due materie cariche di significati perequativi e di identità nazionale come sanità e istruzione (oltre alla polizia amministrativa). Invero, per la sanità rimangono allo Stato le decisioni legislative sulle “norme generali sulla tutela della salute”, mentre le Regioni definiranno l’”assistenza e organizzazione sanitaria”. Così come, per l’istruzione, si mantiene l’esclusività statale del Titolo V vigente in tema di norme generali, ma diventano esclusive regionali l’”organizzazione scolastica, la gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche” e la “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione”. Dunque, lo Stato fisserà sui servizi offerti gli standard da garantire in misura omogenea su tutto il territorio nazionale. È al di sopra di questi che potranno differenziarsi qualità e quantità dei servizi offerti tra Regioni, certamente con il rischio di approfondire i divari territoriali già esistenti, ma forse anche con qualche occasione di miglioramento nei margini di efficienza e di adattamento alle specificità territoriali.

Il federalismo fiscale

La nuova riforma costituzionale lascia invece del tutto inalterato il disegno del federalismo fiscale in senso stretto (articolo 119), cioè il meccanismo di finanziamento delle autonomie locali (tributi propri e compartecipazioni) e il sistema dei rapporti finanziari tra differenti livelli di governo (trasferimenti perequativi). E qui sta il punto. Se la “riforma della riforma” conferma l’involucro costituzionale del federalismo fiscale pensato nel 2001 dal centro-sinistra, risulta allora assai arduo comprendere le ragioni di quell’inerzia con cui Governo e Parlamento ne hanno di fatto bloccato per l’intera legislatura la concreta attuazione. Il sistema delle autonomie locali da lungo tempo attende la legge generale di coordinamento della finanza pubblica, prevista dalla Costituzione, che dovrebbe tracciare le linee fondamentali dell’articolazione del sistema tributario tra livelli di governo, del sistema perequativo e di un nuovo patto di stabilità interno rispettoso dell’autonomia degli enti territoriali. Al contrario, negli ultimi anni, come gia sottolineato su queste colonne, al di là degli annunci di nuovi slanci federalisti, con tetti di spesa, vincoli sul personale, sugli investimenti, sullo sforzo fiscale si sono inasprite le limitazioni all’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali. E la certezza e programmabilità delle loro risorse ne è uscita fortemente compromessa. Questa sorta di “amministrazione controllata” del sistema delle relazioni finanziarie tra Stato, Regioni e comuni ha portato a una situazione di grave sofferenza istituzionale, in cui il principio della “leale collaborazione” tra livelli di governo richiamato dalla Costituzione sembra sempre più in crisi.

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Una serie di emblematici episodi

Di questo scenario preoccupante sono efficaci esempi alcuni recenti episodi.
Innanzitutto, la mesta chiusura della vicenda dell’Alta commissione sul federalismo fiscale. Incaricata in pompa magna dal Governo di formulare le soluzioni per attuare il nuovo modello di federalismo fiscale, l’Alta commissione ha concluso, dopo ben due anni e mezzo, i propri lavori nel settembre scorso. Ma in tutto questo tempo il Governo non si è mai premurato di far proprio il documento di indirizzo approvato da Regioni ed enti locali nel 2003 che avrebbe dato fondamento giuridico agli sforzi progettuali della commissione. Ovviamente, il rapporto conclusivo dell’Alta commissione è stato presentato nel più totale disinteresse del Governo.
C’è poi la vicenda dell’attribuzione alla Sicilia del gettito delle imposte sulle imprese relativamente alle produzioni realizzate in quel territorio. Una decisione assunta dal Governo in modo del tutto estemporaneo, al di fuori di qualsiasi quadro generale di coordinamento e che, ovviamente, ha già innescato analoghe rivendicazioni da parte di altre Regioni a statuto speciale.
Ancora, la manovra finanziaria per il 2006 ripropone un nuovo, aspro conflitto tra Stato, Regioni e enti locali. In particolare, l’ennesima riformulazione del patto di stabilità interno riafferma e rafforza i tetti sulla spesa corrente, e non sui saldi come sarebbe rispettoso dell’autonomia finanziaria di Regioni e comuni. E tutto ciò senza aprire un confronto con le amministrazioni locali, ma semplicemente con qualche comma inserito nella Finanziaria 2006. Si tratta di misure a tappeto, dal fiato corto, che distorcono pesantemente le scelte finanziarie degli enti territoriali penalizzando quelle virtuose, e che generano negli anni successivi evidenti effetti di rimbalzo.
La sentenza 417 della Corte costituzionale del 14 novembre bolla come indebita invasione da parte dello Stato dell’area riservata all’autonomia locale alcuni vincoli di spesa puntuali previsti dal decreto taglia-spese (decreto legge 168/2004). Per la Corte è l’occasione di ribadire i principi già sottolineati in precedenza per cui “le norme che fissano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli enti locali non costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”.
Infine, in luglio, la Conferenza delle Regioni ha approvato due distinti documenti. Il primo è un tentativo di mettere una pezza sul passato recente: le Regioni si accordano sui modi per giungere all’auspicato sblocco delle ingenti risorse (oltre 12 miliardi di euro) che la mancata applicazione del decreto 56/2000 negli scorsi anni ha immobilizzato presso la Ragioneria generale dello Stato causando gravissime sofferenze di cassa per tutte le Regioni.
Il secondo accordo, che qui più ci interessa, riguarda invece i problemi più generali di ridisegno del sistema del federalismo fiscale. Le Regioni sottolineano l’urgenza di porre mano già dal 2006 all’attuazione del sistema di finanziamento/perequazione previsto dall’articolo 119 della Costituzione. E chiedono di giungere alla definizione del nuovo assetto seguendo un processo decisionale condiviso tra Governo e Regioni, che parta innanzitutto dall’accoglimento da parte del Governo dell’accordo sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale del 2003. A questi richiami il Governo ha risposto in modo unilaterale con la legge finanziaria. In particolare, i commi 222 – 227, oltre a un sostanziale riconoscimento del contenuto dell’accordo regionale sul pregresso, prevedono di fissare nel 2006 la dimensione del fondo perequativo regionale determinando in via definitiva le aliquote di compartecipazione che dovrebbero alimentarlo, in coerenza con la logica del decreto 56/2000. Si tratta di un passaggio apparentemente innocente, ma che palesa la propensione del Governo ad affrontare questi problemi a colpi di interventi a breve termine, non concordati con gli altri soggetti istituzionali coinvolti.

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(1) La riforma introduce premierato forte, Senato federale, bicameralismo asimmetrico, indebolimento dei poteri del Presidente della Repubblica, riforma della Corte costituzionale.
(2) Per esempio, la ricentralizzazione di materie oggi inappropriatamente collocate tra quelle concorrenti Stato-Regioni, come la produzione strategica e il trasporto dell’energia.

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