La lezione è servita? A tre anni dal default Parmalat, mentre sono ancora in corso le indagini e i processi per accertare le responsabilità, ricostruiamo la vicenda e ci interroghiamo sulla capacità di reazione del nostro sistema. La legge sul risparmio contiene luci ed ombre, ma occorre agire soprattutto sui controlli preventivi per evitare che quanto è successo si ripeta. C’è ancora molto da fare, poi, sul piano della tutela penale della trasparenza e veridicità dell’informazione societaria. Così come bisogna trovare strumenti di più facile e rapido accesso alla giustizia dei risparmiatori (la class action). E le regole sulla crisi di imprese devono essere razionalizzate e sottratte al controllo della pubblica amministrazione. Ma le norme non bastano. Ci vogliono incentivi microeconomici, che spingano i protagonisti del mercato finanziario a produrre efficienti sistemi di governance e a controllare i conflitti di interesse.

Nel Maelstrom della frode finanziaria, di Marco Onado

Dai drammatici giorni del dissesto Parmalat l’attenzione si è concentrata soprattutto sui temi della tutela dei risparmiatori e del rilancio produttivo del gruppo. È bene però ricordare che il dissesto – uno dei più gravi della storia economica italiana che pure è dolorosamente ricca di fatti criminosi – ha cause finanziarie profonde che mettono in evidenza alcuni vizi strutturali del capitalismo privato italiano e di molte banche, compresa qualcuna di grande tradizione internazionale e altrettanta disinvoltura nei confronti delle operazioni più spericolate.
Nel terzo anniversario del dissesto è dunque utile compiere un’operazione didascalica per ricordare le cifre fondamentali del clamoroso crack. È troppo semplice attribuire tutto alle frodi: queste sono state lo strumento per coprire una situazione sempre più squilibrata e ovviamente hanno dovuto diventare sempre più grandi e sempre più sofisticate. Come ogni bugia chiama bugie più grosse, così la frode finanziaria trascina l’impresa in un vortice da cui è impossibile sfuggire: un incubo analogo a quello descritto da Edgar Allan Poe nel racconto “Una discesa nel Maelstrom”.
Il mio contributo ha dunque solo finalità didascaliche e si rivolge a quanti, in primo luogo studenti, intendono documentarsi e riflettere su questo importante fatto. I dati sono tratti soprattutto dalla relazione del commissario straordinario, Enrico Bondi, e da quella del consulente (Stefania Chiaruttini, consulente tecnico d’ufficio, o Ctu) di uno dei pubblici ministeri al lavoro sul caso. Il Maelstrom di Parmalat può essere riassunto in sette passaggi ciascuno dei quali verrà documentato con le cifre fondamentali.

1) Parmalat è sempre stata un’azienda finanziariamente fragile, vittima di una contraddizione insanabile in capo al suo azionista di controllo, Calisto Tanzi, il quale concepiva piani di crescita sempre più ambiziosi, ma nello stesso tempo era totalmente refrattario all’idea di immettere capitali propri nell’azienda.

Dal negozio di villaggio a una multinazionale presente in 139 paesi: queste le cifre della crescita di Parmalat dal 1962 (circa 100mila euro) al 2003 (oltre 7,5 miliardi), sintetizzate dal grafico che segue. Il che significa tassi di crescita annui del 44 per cento nel primo ventennio e del 21 nel secondo.


La crescita del fatturato è determinata soprattutto dall’estensione della base produttiva realizzata con acquisizioni in tutti i continenti. Nel complesso, dal 1990 al 2003, il gruppo effettuerà investimenti per 5,4 miliardi di euro, di cui 4 per acquisizioni.
In una espansione così vistosa non poteva mancare qualche errore di carattere tattico e strategico. Sul primo versante, alcune acquisizioni in paesi stranieri si riveleranno prive di prospettive commerciali adeguate, ma sono errori tutto sommato marginali, inevitabili in una dinamica così intensa (per di più diretta da una sola persona). Il commissario straordinario Enrico Bondi, nella sua opera di risanamento, procederà ad alcuni tagli del core business, ma si tratta di potature di una pianta complessivamente sana. Più gravi sono gli errori strategici, che riflettono vizi antichi degli industriali italiani, sempre pronti a trovare sbocchi in settori che assicurano consenso e appoggi politici (Tv, calcio) ma divorano risorse. Anche questo però non spiega la fragilità finanziaria di fondo e tanto meno le frodi.
Lo squilibrio strutturale è dimostrato dalla figura seguente, che indica gli investimenti dal 1990 al 2003 e (nei riquadri) i valori dell’indebitamento complessivo alle varie date.


Il grafico dimostra come la febbre delle acquisizioni abbia fatto esplodere il fabbisogno finanziario (bisogna naturalmente tener conto anche delle esigenze di capitale circolante per soddisfare le esigenze di produzione e vendita su un impero produttivo sempre più vasto) e di conseguenza l’indebitamento. Dal 1990 al 2003, i debiti crescono del 42 per cento all’anno. Il motivo è uno solo: tutta questa crescita è basata solo sui debiti. Niente male per un’azienda che alla fine degli anni Ottanta aveva attraversato la sua prima crisi finanziaria. E questo ci porta alla seconda sequenza del nostro film dell’orrore.

2) La quotazione in Borsa viene utilizzata solo per risolvere i problemi finanziari dell’azionista di controllo.

L’eccesso di indebitamento accumulato nei primi venti anni porta a un piano di risanamento curato dalle banche (e favorito dal governo di allora e in particolare da Ciriaco De Mita, allora potente segretario della Dc) e alla quotazione in Borsa.
Leggiamo quello che scrive un autorevole giornalista finanziario sulla situazione di Tanzi negli anni Ottanta. “La lunga cavalcata dell’ambizioso ragioniere di Collecchio sembrava già molto vicina al capolinea. Gia allora, venti anni fa, la nave Parmalat faticava a tenere il mare. Stava a galla grazie all’appoggio garantito dalle banche. Ma a quel tempo, molto più di oggi, il sistema creditizio dipendeva quasi per intero dai partiti. Ovvero in massima parte dalla Democrazia cristiana, che a sua volta assegnava le poltrone sulla base degli equilibri fra le varie correnti interne. Tanzi, che era di casa nei palazzi democristiani, riuscì così a ottenere il sostegno finanziario di cui aveva assoluto bisogno. Per sopravvivere l’imprenditore emiliano si fece stringere al collo un guinzaglio da cui non riuscì mai più a liberarsi”. (1)
Nel 1989 un gruppo di banche (tutte vicine alla Dc) organizza il pool per il prestito che porta nuove risorse al gruppo in difficoltà e pone le premesse per lo sbarco in Borsa, che però viene realizzato con tre marchingegni finanziari:

i) la quotazione viene realizzata conferendo Parmalat a una società finanziaria già quotata, praticamente una scatola vuota. In questo modo si evita il collocamento pubblico e la redazione di un prospetto informativo per risparmiatori;
ii) la conseguenza è che la società quotata (subito ridenominata Parmalat Finanziaria) ha come unico asset una società operativa, dunque è la più classica delle “scatole cinesi”.
iii) La quotazione prevede un aumento di capitale per 600 miliardi, ma nelle casse societarie ne arrivano circa 300 miliardi, perché la società operativa viene ceduta da Tanzi a un prezzo che gli consente esattamente di intascare con la mano sinistra i mezzi che fornisce all’impresa con la mano destra in occasione dell’aumento di capitale.

Con questa tripla capriola, il gioco è fatto. La crisi finanziaria è superata (almeno in apparenza) e Parmalat Finanziaria è controllata al 51 per cento da una società (Coloniale) della famiglia Tanzi, di cui Calisto detiene comunque il 51,8 per cento. Come afferma il Ctu (pag. 49): “L’operazione (…) consente alla famiglia Tanzi, sostanzialmente senza esborsi di denaro, ma con i soli 300 miliardi raccolti sul mercato: i) di reperire il denaro necessario alla ricapitalizzazione di Parmalat; ii) di acquistare Parmalat ponendola sotto il controllo della società quotata, che poi muterà la sua denominazione in Parmalat finanziaria; iii) di mantenere il controllo della società quotata stessa”.
Lungi dal placare le ambizioni dell’imprenditore emiliano, questo nuovo assetto è la premessa per un’ulteriore espansione senza freni sempre basata sull’indebitamento. Dal 1990 al 1994 l’indebitamento quintuplica (tasso di crescita annuo del 53 per cento). Ma il tasso di crescita quasi raddoppia nel quadriennio successivo che porta il debito a 7,7 miliardi alla fine del 1998. Cosa è successo in questo periodo?
Semplicemente Tanzi è sceso ulteriormente nel vortice del Maelstrom, cioè al livello in cui secondo la ricostruzione del Ctu (pag. 59) “entrano in scena una serie di istituti di credito inernazionali che seguono l’espansione del gruppo nella vesta di advisor nell’ambito delle operazioni di acquisizione e/o di lead manager di emissioni obbligazionarie”. Sono queste banche (pag. 61) che concepiscono “una serie di operazioni di finanziamento con formule e clausole del tutto innovative” e spingono il gruppo “a porre in essere una serie di operazioni di vera e propria finanza strutturata”.
Di fatto dunque è chiara la terza sequenza del nostro film.

3) La quotazione in Borsa è il trampolino di lancio per l’esplosione dei debiti, non per la raccolta di capitale di rischio.

Dal 1990 al 2003, le operazioni sul capitale portano alle casse di Parmalat solo 416 milioni di euro, cioè il 7,7 per cento degli investimenti realizzati, il 3 per cento della crescita complessiva del debito.
Secondo la ricostruzione del commissario straordinario Enrico Bondi, la gestione ha fornito risorse per 1 miliardo circa. (2)
Il che significa che l’indebitamento è cresciuto di ben 13,2 miliardi.
Il motivo è uno solo: ogni aumento di capitale avrebbe costretto Tanzi a mettere mano al portafoglio se voleva mantenere da solo la maggioranza assoluta del gruppo. Di fatto, la leva azionaria concessa dal gioco delle scatole cinesi gli avrebbe consentito di sborsare solo il 25 per cento delle nuove risorse, ma anche questo era giudicato evidentemente eccessivo. Perché tirare fuori un solo euro, quando ci sono tante banche là fuori pronte a organizzare operazioni sempre più sofisticate e complesse?
Nei tempi della contestazione operaia una mano ignota aveva scritto sui muri di Mirafiori: “mi fate passare otto ore al giorno in questo inferno e pretendete anche che lavori?”. Il motto di Tanzi suona più o meno così: “sono un imprenditore pieno di idee e di capacità realizzative e pretendete anche che ci metta i soldi?”
Di fatto però i soldi saranno non solo quelli delle banche, ma soprattutto quelli dei privati risparmiatori, perché dalla metà degli anni Novanta l’indebitamento si sposta sempre di più verso il mercato obbligazionario, come vedremo fra poco.

4) Il valore dell’attivo è stato gonfiato con una serie di manipolazioni contabili, che risalgono almeno all’inizio degli anni Novanta.

Un indebitamento che cresce esponenzialmente non è compatibile con un business dai ritorni tutto sommati modesti, come quelli del settore del latte. Per far quadrare i conti, Parmalat ha fatto ricorso a tutti i trucchi possibili. Alcuni, semplici e che sembrano tratti da un film di Totò e Peppino, consentivano di usare una stessa fattura per ottenere due finanziamenti. Dice infatti Bondi (pag. 5): “uno stesso documento veniva finanziato più volte; tale finanza, impropriamente ottenuta, ha contribuito anch’essa a mantenere in vita artificialmente il gruppo”.
L’attività di falsificazione contabile diventa frenetica, a partire dalla fine degli anni Novanta, perché il buco da coprire è sempre più grosso e il vortice trascina in abissi sempre più profondi. Leggiamo in Malagutti (pag. 143): “Era Tonna [il direttore finanziario] che decideva le modalità tecniche con cui venivano occultate le perdite. In estrema sintesi il sistema funzionava nel modo seguente. Le società industriali iscrivevano all’attivo di bilancio crediti (in realtà inesigibili) che venivano girati a società off-shore del gruppo Parmalat. Di conseguenza, queste finanziarie vedevano aumentare i loro debiti, che risultavano compensati in modo molto semplice, quasi banale: inventando di sana pianta delle poste attive. Ovvero, conti bancari, titoli di credito, bond e quant’altro la fervida immaginazione dei falsari di Collecchhio riusciva ad inventare”.
Abyssus vocat abyssum, avrebbe detto Poe. E infatti, Parmalat si inventa anche il modo di occultare i debiti. Come? Leggiamo ancora Malagutti (pag. 146): “Ricorrendo al vecchio trucco dei cosiddetti back to back. In pratica, una finanziaria estera del gruppo di Collecchio apriva un deposito presso una banca. Quest’ultimo però serviva soltanto a garantire un prestito di uguale entità elargito dallo stesso istituto a un’altra società della galassia Parmalat. In altre parole, il deposito era vincolato, ma il vincolo non veniva segnalato in bilancio”.
L’elenco potrebbe continuare, ma vale seguire il consiglio di Malagutti (pag. 148): “l’elenco delle tecniche di falsificazione contabile potrebbe proseguire ancora a lungo, ma non aggiungerebbe molto al nostro racconto. Meglio fermarsi allora, e citare un semplice dato evidenziato nell’analisi Price Waterhouse Coopers: al 30 settembre 2003 i debiti veri del gruppo Parmalat erano pari a 14,3 miliardi, più del doppio rispetto ai 6,4 indicati nella relazione alla stessa data presentata dalla società, l’ultima firmata da Tanzi”.

5) Il vortice della finanza e delle falsificazioni ha fatto sì che quasi metà delle risorse finanziarie venisse assorbita da interessi e commissioni.

La relazione di Bondi contiene una tabella istruttiva sull’impiego dei 14,2 miliardi di euro complessivamente ottenuti dal gruppo nel periodo 1990-2003. Il grafico che segue indica appunto come è stata distribuita questa gigantesca torta.


Gli investimenti in capitale fisico sono solo l’11 per cento del totale; insieme alle acquisizioni arrivano al 38 per cento. Quasi il 40 per cento è rappresentato dal pagamento di interessi: in valore assoluto si tratta di 2,8 miliardi pagati al sistema bancario e 2,5 pagati agli obbligazionisti. Vedremo però che questi ultimi si troveranno al momento del dissesto con una quota ben superiore dell’indebitamento totale.
Chiosa Bondi (pag. 4): “In definitiva il gruppo si è dimostrato un vero e proprio divoratore di cassa perché cresciuto per linee esterne non redditizie, perché oberato da distrazioni imponenti e perché invischiato, per tentare di occultare lo stato di insolvenza, in operazioni finanziarie di grandi dimensioni e sempre più costose”. Insomma, una produzione di debiti a mezzo di debiti che ha arricchito solo il sistema finanziario internazionale.
Merita poi di essere sottolineato che le uscite non documentate rappresentano il 16 per cento del totale. Si tratta di ben 2,3 miliardi di euro, che pudicamente Bondi definisce “distrazioni” come se fossero dovute solo al fatto che Tanzi si era dimenticato di prendere le pillole per la memoria e si era trovato in tasca qualche spicciolo non suo. In realtà sono i fondi che sistematicamente sono stati sottratti anno dopo anno alla società e agli azionisti di minoranza.

6) Novembre 2003: si scopre che il re è nudo.

A partire dal 2002, il mercato era sempre più nervoso sulla situazione finanziaria di Parmalat: non si capiva perché una società con un indebitamento così elevato avesse una liquidità così ingente. Il nervosismo cresce quando vari indizi dimostrano la difficoltà del gruppo a fare fronte agli impegni di rimborso dei bond in essere e a liquidare i presunti investimenti a breve. Alla fine, l’epilogo scontato: il 18 dicembre Bank of America comunica che il deposito per 4,9 miliardi di dollari che una società del gruppo (ovviamente ubicata alle Cayman Islands) pretendeva di avere presso la filiale di New York della banca, semplicemente non esisteva e il documento esibito da Parmalat era un falso. Una fotocopia, per giunta maldestra: Totò e Peppino avrebbero fatto senz’altro di meglio.
La società viene posta in amministrazione straordinaria e in poche settimane di duro lavoro Enrico Bondi comunica cifre da brivido. Il valore “vero” dell’attivo ammonta a poco più di 2,3 miliardi di euro; il capitale circolante è negativo: quello che resta è praticamente assorbito da crediti privilegiati, a cominciare da quello dei lavoratori. Dedotti i debiti, ne risulta un patrimonio netto negativo per oltre 13 miliardi, come dimostra la figura seguente.


L’importo delle obbligazioni in essere sfiora i 7 miliardi (una parte soltanto delle quali detenuta da banche per effetto di operazioni di private placement) mentre l’esposizione del sistema bancario (in gran parte banche internazionali) è di poco superiore ai tre miliardi. Dunque il peso prevalente del dissesto è stato spostato dal sistema bancario internazionale a investitori privati e anche istituzionali.

7) Il piano di ristrutturazione comporta gravi sacrifici per tutti gli investitori. Nonostante il rilancio produttivo, coloro che hanno sottoscritto obbligazioni Parmalat sono ancora ben lontani dal recuperare il capitale.

Gli azionisti di minoranza hanno quindi perso tutto. Ai creditori (privati risparmiatori e banche) Bondi propone un piano di ristrutturazione “lacrime e sangue”, in pratica un grande scambio fra debiti e azioni che prevede un abbattimento drastico del valore di recupero (mediamente un quinto del valore del credito). L’approvazione del piano da parte dei creditori consente la quotazione in Borsa nel 2005 e da allora una ripresa significativa dei corsi. Il valore del titolo, da qualche tempo superiori ai 3 euro rispetto a 1 euro di prima quotazione, significa che le percentuali di recupero sono più che triplicate, ma sono ancora ben lontane dal valore dell’investimento iniziale.
Fra qualche anno forse la storia del risparmiatore Parmalat si concluderà come quella del marinaio di Poe che narrava la sua avventura: “Una barca mi trasse in salvo – esausto per la fatica e (cessato il pericolo) incapace di parlare al ricordo degli orrori passati. Quelli che mi avevano preso a bordo erano miei vecchi amici, compagni di tutti i giorni, eppure stentarono a riconoscermi, come se fossi stato uno che tornava dal mondo degli spiriti. I miei capelli che erano stati di un nero corvino, erano bianchi come li vede lei ora. Dicono anche che tutta l’espressione del mio viso era mutata. Raccontai loro la mia storia – ma non mi credettero. Ora l’ho raccontata a lei – ma non mi aspetto che le dia più credito di quanto non gliene abbiano dato gli allegri pescatori di Lofoden”.

Leggi anche:  Bce ancora in cerca di un assetto operativo

(1) Vittorio Malagutti, Buconero SpA. Dentro il crac Parmalat, Bari-Roma, Laterza, 2004, pp. 77-78.
(2) Parmalat Finanziaria SpA in amministrazione straordinaria, Prime sette pagine della Relazione del Commissario straordinario sulle cause di insolvenza di Parmalat Finanziaria SpA e società controllate oggetto della proposta di concordato del 21 giugno 2004. (si tratta dell’unica parte del documento pubblicata sul sito della società).

Tre anni dopo Parmalat, di Francesco Vella

Il 18 dicembre 2003 Bank of America dichiarava inesistente la liquidità della Bonlat, attestata da un estratto conto grossolanamente falsificato. Da quel momento scoppiava il più grande default nella recente storia della finanza. Sono tuttora in corso indagini e processi per il definitivo accertamento delle responsabilità, ma a tre anni di distanza, e guardando al futuro, almeno a una prima domanda si può tentare di rispondere: la lezione è servita?
Nella ormai lunga storia della finanza i grandi eventi di patologia hanno avuto dolorosissime conseguenze per le tasche dei risparmiatori, ma sono sempre serviti a risvegliare legislatori troppo sonnolenti che avevano riposto eccessivo affidamento nelle capacità di autodisciplina delle forze di mercato. E, al risveglio, il vero dilemma che hanno dovuto affrontare è stato quello di realizzare efficaci interventi preventivi e repressivi per evitare il ripetersi delle crisi e ridare fiducia ai risparmiatori, senza però cadere in tentazioni draconiane di regole pervasive, troppo onerose per gli operatori, e alla fine anche inutili.

Il bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno

Da noi si può dire che la lezione sia servita solo a metà. Il dopo Parmalat è stato caratterizzato da una lenta e faticosa rincorsa per arrivare alla scadenza elettorale con una legge sulla tutela del risparmio, risultata alla fine talmente confusa e contraddittoria da costringere il nuovo governo a una immediata correzione. Per i risparmiatori, dalla parte mezza piena del bicchiere ci sono ora maggiori tutele sul piano della trasparenza, della prevenzione dei conflitti di interesse, dei presidi per una migliore governance. Dalla parte mezza vuota, la mancata riorganizzazione degli assetti di vigilanza, una serie di fondi, che dovrebbero servire al loro ristoro, dei quali si sono perse le tracce e nessuno sa come debbano funzionare, e l’assenza di seri ed equilibrati strumenti per una più agevole e rapido accesso alla giustizia.
E che sul piano della ricostituzione di un clima di fiducia i risultati non siano brillanti lo testimonia il sondaggio presentato dall’Acri il 31 ottobre, giornata, appunto, del risparmio. (1) Secondo il sondaggio gli italiani continuano ad avere un elevata propensione al risparmio, ma sono ancora molti (il 71 per cento) coloro che richiedono maggiori controlli e (51 per cento) che ritengono le attuali tutele del tutto insufficienti. Ma quel sondaggio ci dice anche, da un lato, che soltanto il 23 per cento ha quantomeno sentito parlare della legge sul risparmio, dall’altro che, sebbene la stragrande maggioranza si dichiari poco esperta in argomenti finanziari, una buona percentuale decide da sola i propri investimenti, non disdegnando (il 20 per cento) quelli più rischiosi.

Regole ed educazione

Possono sembrare dati contraddittori, ma in realtà sono illuminanti perché testimoniano l’importanza anche in questo campo di una maggiore diffusione della conoscenza. Presidiare con le regole il terreno della protezione dei risparmiatori è fondamentale perché ci vogliono notizie veritiere (e sanzioni effettive per chi non le dà) e intermediari che si comportino con correttezza per consentire scelte informate. Ma chi sceglie deve sapere quello che fa e comportarsi con consapevolezza, con una cultura del risparmio che da noi ancora manca.
Un recente saggio (2) individua in un’ora il tempo medio intercorrente dalla decisone di investire in strumenti finanziari a quello dell’effettuazione dell’ordine di acquisto, contro un tempo medio di tre settimane (per una spesa spesso decisamente inferiore, e dopo aver visitato numerose concessionarie) quando si acquista un’autovettura. Nessuno, ovviamente, deve pretendere che gli scandali finanziari trasformino i risparmiatori in provetti analisti che possono tranquillamente fare a meno di un rigoroso sistema di tutele e di accertamento delle responsabilità, ma i dati del sondaggio dimostrano come il tema della educazione all’investimento è altrettanto importante di un efficace apparato di protezione.
Ci sono state alcune, meritorie, iniziative in questa direzione, ma è una strada ancora tutta da percorrere. Immaginate una bella “Pubblicità progresso” in televisione e sui giornali nella quale si spiega banalmente che quando si investe in una obbligazione con tasso di interesse molto alto, magari di uno Stato estero, si rischia molto di più, oppure si dice cos’è il rating, oppure si elencano i propri diritti quando si acquistano titoli? Non sarebbe, certo, una garanzia assoluta contro i rischi di truffa, ma sicuramente renderebbe più accorti e consapevoli i risparmiatori. E non è poco.

Potrebbe ripetersi?

Ma le truffe si possono evitare? Il filo conduttore che ha caratterizzato la vicenda Parmalat è stato, come è fin troppo noto, il conclamato fallimento di tutta la catena dei controlli di mercato, interni ed esterni. Nella legge sul risparmio vi sono alcuni interventi che dovrebbero favorire una maggiore indipendenza e professionalità dei controllori e prevenire i conflitti di interesse, ad esempio nella attività dei revisori, che spesso portano a chiudere uno, se non tutti e due, gli occhi.
Rimane il problema di come attivare strumenti di vigilanza pubblica in grado di verificare tempestivamente situazioni di allarme e realizzare adeguati interventi preventivi.
È un problema complesso che investe diversi e delicati profili, da una miglior coordinamento tra le Autorità, a una maggiore rapidità nell’accesso alle informazioni e nella circolazione delle comunicazioni, alla elaborazione, preannunciata dalla Consob nella sua ultima relazione, di indici di rischio in grado di avere un reale effetto segnaletico. (3)
Certo sono tutte misure, è l’antico dilemma del quale prima si parlava, che devono evitare di tradursi in eccessivi e ingiustificati costi per le imprese. Ma, è inutile nasconderselo, tre anni fa abbiamo scoperto che ci possono essere comportamenti delittuosi talmente gravi nei cui confronti anche le regole più severe e la minaccia delle sanzioni più dure possono fare poco: la cosa più importante è accorgersene il prima possibile e, soprattutto, prima che i buoi siano scappati dalla stalla.

(1) Sul sito www.acri.it
(2)
F. Ferro Luzzi; “Le ali. Prime riflessioni sulla gabbia ove le associazioni dei consumatori hanno rinchiuso i propri associati”, in Age, Analisi giuridica dell’Economia, n. 1, 2006, p. 143.
(3) Relazione Consob per l’anno 2005, p. 18

Quella schizofrenia ancora irrisolta, di Luigi Foffani

A tre anni di distanza dallo scandalo Parmalat si può tentare di tracciare un primo provvisorio bilancio sulla più recente politica criminale in materia economica. Il caso Parmalat, come si ricorderà, fu solo l’ultimo di una lunga catena di clamorosi episodi di criminalità economica che hanno contrassegnato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, l’inizio del nuovo secolo, a partire dal più colossale di tutti, lo scandalo Enron.

La politica criminale in materia economica dopo gli scandali

Le reazioni legislative furono altrettanto clamorose, ma decisamente contraddittorie: mentre negli Stati Uniti, con il Sarbanes-Oxley Act del 30 luglio 2002, emanato a pochi mesi di distanza dal crack Enron, furono introdotte sanzioni severissime per colpire false informazioni e frodi nella gestione delle società commerciali, in Italia, pressoché contemporaneamente, veniva introdotta una riforma dei reati societari, il decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, caratterizzata da una straordinaria indulgenza per la criminalità economica, con un affievolimento della reazione penale nei confronti delle falsità nei bilanci e nelle comunicazioni sociali spinta sino al limite della depenalizzazione di fatto. Riduzione generalizzata dei livelli sanzionatori, accorciamento dei termini di prescrizione, ulteriormente accentuato, a pochi anni di distanza, dalla riforma introdotta con la legge ex-Cirielli (1), ampio ricorso alla procedibilità a querela, postergazione dell’intervento penale all’effettiva verificazione di un danno patrimoniale per i soci e i creditori e, soprattutto, l’inserimento di soglie di punibilità quantitative per le false comunicazioni sociali, sono solo alcune delle più significative novità di una riforma che si muoveva tutta nel segno di una accentuata “patrimonializzazione” e “privatizzazione” della tutela penale, con tendenziale emarginazione delle esigenze di protezione degli interessi generali del mercato e dei risparmiatori.
In questo clima paradossale esplose lo scandalo Parmalat, che rese finalmente evidente, a un’opinione pubblica giustamente allarmata dalla gravità delle conseguenze degli illeciti societari, l’”insostenibile leggerezza” della politica di contrasto alla criminalità economica seguita dal legislatore italiano degli ultimi anni. A poco valeva sottolineare – come frequentemente si è udito affermare in quei giorni, a cominciare dall’allora capo del governo – che la riforma dei reati societari non poteva essere tacciata di responsabilità alcuna nell’esplosione dello scandalo Parmalat, in quanto la radice del dissesto rimontava a patologie gestorie verificatesi in anni sicuramente antecedenti.
Il punto, evidentemente, era ben altro, e cioè che la riforma rendeva straordinariamente più difficile perseguire penalmente gli autori di quelli e di consimili reati, tanto sul piano sostanziale – per la quantità e la complessità dei requisiti introdotti dal legislatore per la punibilità di tali illeciti – quanto sul piano processuale, per aver trasformato l’esercizio dell’azione penale e il conseguente accertamento giudiziario in una sorta di disperata corsa a ostacoli contro una prescrizione sempre più incombente e inesorabile.

Il tormentato iter parlamentare della legge per la tutela del risparmio

Parmalat segnò dunque un punto di svolta, reso manifesto dai primi cenni di risposta legislativa, concretizzatasi nell’iniziale disegno di legge governativo per la tutela del risparmio, presentato nel febbraio 2004. (2) Sotto il profilo sanzionatorio risaltava l’accantonamento della linea “morbida” nei confronti degli illeciti societari, sostituita da un orientamento che potrebbe definirsi di “populismo penalistico”. Cavallo di battaglia della nuova politica di rigore avrebbe dovuto essere l’introduzione di un delitto di “nocumento al risparmio“, contrassegnato da una pena draconiana (reclusione da tre a dodici anni) e da contorni normativi assolutamente indefiniti: una autentica mostruosità giuridica, peraltro puramente simbolica e concretamente inapplicabile (oltre che palesemente incostituzionale), che nascondeva dietro l’apparente mano dura nei confronti della criminalità economica la reale volontà di non toccare la nuova disciplina del falso in bilancio e degli altri reati societari, che difatti da questo primo progetto governativo non venivano minimamente sfiorati.
Si trattava tuttavia di una iniziativa politicamente debole e di corto respiro, ben presto sovrastata, nel successivo e tormentato iter parlamentare della riforma, dal tentativo di costruire una soluzione politica bipartisan al problema di fornire nuove tutele giuridico-istituzionali agli interessi dei risparmiatori-investitori. Il nodo del falso in bilancio giunse ben presto al pettine e fu proprio su questo scoglio – oltre che sui ben noti problemi riguardanti la nomina e i poteri del governatore della Banca d’Italia – che si arenò definitivamente il testo unificato della legge per la tutela del risparmio votato dalla Camera nel maggio 2004, che avrebbe comportato una significativa “riforma della riforma”. (3) Il consenso inizialmente raggiunto in sede di commissioni parlamentari riunite venne difatti ben presto travolto dalla constatazione, assolutamente ineccepibile dal punto di vista dei fautori della riforma dei reati societari del 2002, che una svolta così radicale e clamorosa sarebbe equivalsa ad una sorta di implicita ammissione, da parte del legislatore, che l’unico scopo perseguito con la precedente normativa fosse quello di cancellare con un “colpo di spugna” (provocando l’effetto di una sorta di amnistia occulta) i procedimenti penali per i falsi in bilancio commessi in epoca anteriore al 2002 e non ancora giudicati con sentenza definitiva.

La legge per la tutela del risparmio e le questioni aperte

Si è giunti così, giusto un anno fa, al varo definitivo della legge per la tutela del risparmio (legge 28 dicembre 2005, n. 262), approvata dalla sola maggioranza.
Dal punto di vista penalistico, la montagna ha partorito un topolino: nessuna significativa riforma sostanziale, se non un generico e indiscriminato (ma fondamentalmente inutile) aumento delle pene previste per gli illeciti penali e amministrativi dei testi unici bancario e finanziario; conferma, nelle sue linee fondamentali, dell’assetto normativo uscito dalla riforma dei reati societari del 2002, con nulla più che un modesto maquillage delle norme chiave sul falso in bilancio, che si traduce in un insignificante aumento della pena massima prevista per la contravvenzione di false comunicazioni sociali ex articolo 2621 c.c. (da un anno e mezzo a due anni di arresto) e nella previsione di nuove sanzioni amministrative (peraltro in gran parte inapplicabili) per l’omonimo delitto di cui all’articolo 2622 c.c.; la novità della prevista introduzione della fattispecie di “nocumento al risparmio” viene nettamente ridimensionata e trasformata in una mera circostanza aggravante di quest’ultimo delitto.
I nodi fondamentali della schizofrenica politica penale in materia economica perseguita nel corso della XIV legislatura rimangono dunque assolutamente irrisolti e come tali si presentano in questo scorcio iniziale della nuova legislatura.
Vedremo dunque ben presto se la lezione del caso Parmalat avrà finalmente prodotto i suoi frutti anche sul terreno penale: sul piano giudiziario sono in corso procedimenti che non hanno forse eguali in Italia nella storia della criminalità economica, per il numero dei soggetti coinvolti (70mila costituzioni di parte civile ammesse in giudizio), nonché per il clamore provocato e le aspettative suscitate nell’opinione pubblica. Per la prima volta, le sanzioni potrebbero coinvolgere non solo le persone fisiche degli amministratori, dirigenti e sindaci delle società coinvolte in questo colossale dissesto, ma anche le società in quanto tali, in virtù della nuova disciplina della responsabilità “amministrativa” da reato delle persone giuridiche introdotta nel giugno 2001 (decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231) e finora non ancora applicata in maniera significativa dalla giurisprudenza.
Ma la risposta più importante è senza dubbio quella che dovrà fornire il legislatore, al fine di dare finalmente al nostro paese una disciplina penale societaria ed economica ispirata a serietà ed equilibrio e al passo con le più avanzate esperienze europee. In particolare, la richiesta di sanzioni “adeguate, efficaci e proporzionate” contro le falsità nei bilanci e nelle comunicazioni sociali, nell’interesse dei soci e dei terzi, è già stata solennemente enunciata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, con una fondamentale sentenza del 3 maggio 2005 (4), che – ben lungi dal salvare nella sostanza le scelte operate dal legislatore italiano del 2002 – afferma al più alto livello della giurisprudenza europea una serie di esigenze di tutela rilevanti per l’ordinamento comunitario – in materia di trasparenza e veridicità dell’informazione societaria – alla quale il nostro legislatore è chiamato finalmente a dare adeguata e tempestiva soddisfazione.


(1)
L. 5 dicembre 2005, n. 251.
(2) Atti Camera, 16 febbraio 2004, n. 4705.
(3) Commissione riunite VI (Finanze) e X (Attività produttive, commercio e turismo), seduta del 5 maggio 2004.
(4) CGCE, Grande Sezione, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri.

Class action in salsa italiana, di Federico M. Mucciarelli

La crisi del gruppo Parmalat ha arrecato ingenti danni a innumerevoli investitori, molti dei quali hanno intentato azioni “collettive” negli Stati Uniti d’America. Quali possibilità hanno, invece, gli investitori danneggiati di fare valere i loro diritti in Italia?

Le proposte di legge

Da quasi un mese la Commissione giustizia della Camera è alle prese con alcuni progetti di legge, uno dei quali è di iniziativa del governo, sull’introduzione della cosiddetta “class action”. Nella scorsa legislatura la Camera ne approvò uno analogo dopo un lungo dibattito, ma il Senato non fece in tempo a esaminarlo.
Il problema è noto: immaginiamo che un’impresa danneggi un numero considerevole di soggetti con lo stesso comportamento e che questo danno sia complessivamente ingente, ma singolarmente minimo; i danneggiati, in pratica, non hanno alcun incentivo o interesse ad agire, confrontando i rischi e le spese connessi al processo, con il possibile risarcimento del danno.

La versione americana

L’esperienza più importante e famosa in tema di class action è quella statunitense: ogni danneggiato può agire e chiedere l’introduzione di un’azione di “classe” al giudice, che è chiamato a decidere in primo luogo sulla sua ammissibilità, e solo successivamente a decidere sul merito. La sentenza di condanna, peraltro, non vincola i danneggiati che dichiarano di non volersene avvalere. La class action “all’americana” mostra però un pericoloso lato oscuro. L’intero meccanismo è guidato dagli avvocati, i quali sono rimunerati con una percentuale del valore complessivo del risarcimento ottenuto con una sentenza favorevole o una transazione: il risultato è un proliferare di azioni collettive, le quali per lo più non sfociano in una sentenza di merito, ma in una transazione.
Quindi, il problema delle azioni collettive potrebbe essere sintetizzato così: da un lato si pone l’obiettivo di incentivare le azioni di risarcimento, dall’altro, sorge il pericolo di unmoltiplicarsi di azioni pretestuose o infondate. (1)

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Vista dall’Italia

Torniamo in Italia e ai progetti in cantiere. Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco. Il progetto del governo, così come alcuni degli altri proposti, si fonda su una logica differente da quella tipica delle class action americane: la legittimazione ad agire è attribuita solamente alle associazioni dei consumatori, alle associazioni dei professionisti e alle camere di commercio, ma non ai singoli danneggiati.
Nel progetto del governo, il giudice emette una sentenza di condanna “generica” e ogni singolo danneggiato dovrà poi agire individualmente per ottenere il risarcimento del proprio danno. Pertanto, dal momento che la legittimazione ad agire non spetta ai singoli danneggiati, non di vera class action si tratta.
Da un punto di vista politico, la scelta è alquanto singolare. Nella scorsa legislatura, infatti, i due partiti maggiori della coalizione ora al governo hanno presentato proposte di class action assai simili al modello statunitense. (2)

I limiti imposti dal diritto italiano

Il governo, inoltre, pare non cogliere l’occasione propizia determinata da un suo stesso coraggioso provvedimento, ossia l’eliminazione dall’ordinamento italiano del divieto del patto di quota/lite: d’ora innanzi gli avvocati potranno determinare il loro compenso in percentuale sui frutti della causa vinta o transatta, così come avviene nel sistema americano.
Resta aperto il problema di rendere ogni meccanismo processuale nuovo compatibile con l’articolo 24 della Costituzione, che riconosce a ogni cittadino il diritto individuale ad agire per fare valere i propri diritti, diritto che non può essere “espropriato” da alcun giudice senza l’assenso del danneggiato. Il meccanismo americano, in base al quale la sentenza o la transazione sono efficaci verso chiunque non abbia dichiarato di volere uscire dalla “classe”, sarebbe incostituzionale in Italia.
C’è, infine, il nodo politico più significativo: come evitare il proliferare di cause pretestuose? Il pericolo è fondato, ma la soluzione proposta non lo risolve, poiché rischia di trasformare le nuove e acerbe associazioni dei consumatori in strutture finalizzate esclusivamente alla ricerca di azioni collettive.
Non ci sono ragioni reali, quindi, per non tentare un passo più coraggioso e introdurre una vera e propria class action, consentendo ai danneggiati di raggrupparsi in classi e ai giudici di emanare una sentenza vincolante per tutti i partecipanti (in maniera tale che l’impresa danneggiante non soffra i rischi dell’incertezza).
Per rispettare il vincolo costituzionale la soluzione è semplice: basta attribuire alla sentenza (o alla transazione) forza vincolante solo verso chi vi abbia espressamente aderito.
Il timore che questa innovazione generi un eccesso di litigiosità, infine, potrebbe scemare introducendo una clausola di “scadenza”, come previsto di recente dal diritto tedesco sulle cause collettive in materia finanziaria (3): si potrebbe indicare un periodo di cinque o dieci anni, allo scadere del quale la legge cessa di essere efficace, cosicché le forze politiche siano in grado di valutarne l’efficacia e di introdurre eventuali modifiche.

(1) Eisenberg – Miller, in 1 Journal of empirical legal studies (2004) p. 27 ss.
(2) AC 4639, Onn. Fassino et al., art. 30 e AC 4747, Onn. Letta et al.,art. 3.
(3) KapMuG, entrato in vigore il 1/11/2005, sul quale v. Merkt, in Giur. Comm., 2006.

Crisi d’impresa, crisi di regole, di Lorenzo Stanghellini

Il dissesto di Parmalat, di cui da qualche settimana si parlava in modo sempre più insistente, divenne manifesto il 18 dicembre 2003, quando Bank of America rese noto che l’immensa massa di liquidità, che la società diceva di avere lì depositata, non esisteva. L’assoggettamento del gruppo a una procedura d’insolvenza era ormai solo questione di giorni.
La procedura cui Parmalat era predestinata (l’amministrazione straordinaria detta Prodi-bis) prevedeva che l’attività d’impresa venisse provvisoriamente continuata da uno o più commissari straordinari (che non sono dei manager), in attesa di trovare un compratore per le aziende, le partecipazioni e gli altri beni del gruppo Parmalat. I creditori sarebbero stati soddisfatti con il denaro così ricavato. (1)
In quelle ore concitate emerse la consapevolezza che il caso Parmalat era troppo grande per queste regole, non sbagliate, ma certo poco coraggiose. Occorreva rassicurare il mercato nazionale e internazionale, creditori, fornitori e consumatori, sul fatto che Parmalat sarebbe rimasta in vita senza interruzioni dell’attività, sotto la guida di un manager di elevata reputazione. Per questo, il 23 dicembre il governo emanò un decreto-legge che, nella sostanza, consentiva di saltare la fase di osservazione in vista di una ristrutturazione, e con l’occasione rafforzava il controllo ministeriale sulla procedura. Il decreto non costituiva di per sé un aiuto di Stato, né ne prevedeva la futura concessione. (2)

Una legge-fotografia, ma con spunti interessanti

Nei mesi successivi, anche con il contributo dell’opposizione di sinistra, il Parlamento adeguò più volte la normativa speciale per Parmalat, fino a dar vita a una sorta di legge-fotografia: ciò che era astrattamente possibile secondo gli organi della procedura diventava prontamente legge dello Stato.
Questa creatura, benché partorita in brutte circostanze e perciò disorganica, presentava una serie di spunti interessanti:
(a) per la prima volta nel nostro sistema, si consentiva al commissario straordinario di effettuare una ristrutturazione finanziaria, e non solo una ristrutturazione industriale. L’implicazione fondamentale di questa novità fu che la vendita dei beni di Parmalat non era più l’unica possibilità, in quanto diventava possibile trasferire l’azienda e il resto del patrimonio direttamente ai creditori, allo scopo di recuperare per loro (non per gli azionisti) un valore più alto;
(b) ancora per la prima volta, si consentiva al commissario di fare ai creditori un’offerta differenziata, secondo le loro caratteristiche specifiche: diveniva infatti possibile suddividerli in varie “classi”, con caratteristiche e interessi omogenei, costruendo per loro una sorta di vestito su misura e massimizzando così il risultato complessivo.

Sulla base della nuova legge, Parmalat ha proposto un concordato ai suoi creditori, che nell’ottobre 2005 li ha trasformati in azionisti (liberi di vendere, monetizzando un valore delle azioni superiore alle attese). (3)
Nel frattempo veniva riformata, in due tranche, fra il marzo 2005 e il gennaio 2006, la normativa prevista per il resto delle imprese. La riforma operava una decisa modernizzazione, consistente anche nell’applicare a tutte le imprese in crisi alcune delle novità scaturite dall’esperienza Parmalat. (4)

È tutto oro quel che luccica?

Le regole sulla crisi d’impresa sono importantissime per il sistema economico: governano la transizione del controllo sull’impresa dagli azionisti ai creditori e assicurano, per quanto possibile, la soddisfazione dei creditori. Ciò genera costi più bassi del credito e investimenti più ampi e, in definitiva, produce una maggiore ricchezza e competitività del paese. (5)
Se l’esperienza di Parmalat è stata importantissima per lo sviluppo della normativa, e questo è forse l’unico aspetto positivo della vicenda, ci sono valide ragioni per ritenere che essa non possa e non debba essere mai ripetuta. Infatti, 1) l’efficienza della procedura si è accompagnata all’attribuzione di grandi poteri al ministro, e dunque a una diminuzione di trasparenza e di controlli sugli atti compiuti dagli organi della procedura; 2) poco (o nessun) potere è stato lasciato ai creditori di Parmalat, se non quello di approvare un pacchetto (il concordato) “prendere o lasciare”. Sono stati trattati come i pazienti che subiscono un’operazione: possono decidere se farla o non farla, ma non dare consigli al chirurgo in sala operatoria, e debbono solo sperare che sia bravo. In questo caso è stato così – la vicenda è stata gestita molto bene sotto vari profili e i risultati sono stati ottimi. Ma certo non si tratta di un modello che vorremmo vedere riprodotto, e che in altri casi non ha funzionato (vedi Volareweb); 3) la nuova normativa, anche dopo le recenti riforme, continua a riservare alla crisi delle grandi imprese (200 dipendenti e oltre) un trattamento preferenziale e, soprattutto, meno trasparente e rispettoso dei meccanismi di mercato.
In più, con la riforma del 2006 si è ampliata a dismisura la categoria dei piccoli imprenditori non soggetti alla legge fallimentare: si è così lasciata priva di qualsiasi tutela circa la metà delle imprese italiane, che non possono più fallire, ma nemmeno salvarsi e ristrutturarsi. (6)
Una scelta molto grave.
Efficienza e trasparenza non sono risorse scarse. Non occorreva razionarle. Traiamo dunque dall’esperienza di Parmalat i tanti spunti che ci ha fornito, ma adesso archiviamola per sempre, come caso unico che tale deve restare. Occorre ora razionalizzare la normativa e applicarla, anche se con i dovuti adattamenti, a tutti: grandi, medi e piccoli imprenditori. Ma ci sono poche speranze che tutto ciò accada, perché la classe politica sembra ormai contenta così.

(1) Regolata dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 270. Esisteva in astratto la possibilità di evitare la vendita delle aziende mediante una ristrutturazione (basata su accordi con i singoli creditori), ma la gravità del dissesto (con oltre 10 miliardi di euro di sbilancio) e l’altissimo numero di creditori la rendeva del tutto inverosimile.
(2) Decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347. Per un commento si veda: Cos’è il “decreto Parmalat”, https://www.lavoce.info/articoli/pagina846.html
(3) Sulla struttura del piano Parmalat si veda: Se Parmalat dà il buon esempio, https://www.lavoce.info/articoli/pagina1134.html
(4) Decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, e decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5.
(5) Si veda Luigi A. Franzoni, Daniela Marchesi, Economia e politica economica del diritto, Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 235-259.
(6) Piccoli imprenditori sono ora quelli con un fatturato fino a 200mila euro annui e investimenti fino a 300mila euro. La nuova legge fallimentare, più efficiente per i creditori e meno punitiva per gli imprenditori, si applicherà così a circa il 51,9 per cento delle imprese incluse nel campione Cerved (fonte: Magda Bianco, Monica Marcucci, Bankruptcy reform in Italy: an efficiency evaluation, mimeo presentato alla Società italiana di Diritto ed economia, Roma, 20 ottobre 2006).

Un male oscuro chiamato conflitto di interessi, di Emilio Barucci e Marcello Messori

Gli scandali, che si stanno verificando da qualche anno nel mercato finanziario italiano, hanno messo in luce almeno tre criticità nella governance delle nostre società quotate: (a) l’inefficacia dei meccanismi di controllo endosocietari, (b) le carenze di “monitoraggio” da parte sia delle società di revisione e di rating che degli intermediari finanziari, (c) l’inefficacia della regolamentazione di Banca d’Italia e di Consob nei confronti di azioni scorrette da parte di gruppi bancari o altri intermediari. Questi tre aspetti hanno esaltato, in Italia, il ‘‘male oscuro’’ degli attuali mercati finanziari: un pervasivo conflitto di interessi.

Innovazioni normative e scandali finanziari

Lo scandalo Parmalat” si è verificato dopo l’introduzione di innovazioni normative, volte a irrobustire la governance delle società quotate.
Nel 1998, il Testo unico sulla finanza (Tuf) aveva rafforzato il ruolo degli azionisti di minoranza (rappresentanza nel collegio sindacale, abbassamento delle soglie proprietarie per l’esercizio della voice); e, nel 1999, il codice di autodisciplina delle società quotate aveva affermato l’autonomia statutaria e il carattere anche di controllo degli organi di gestione, rafforzando il ruolo degli amministratori indipendenti e dei comitati interni e prestando attenzione alla definizione delle deleghe e alla separazione tra le funzioni di presidente e di amministratore delegato.
L’interrogativo è: il fallimento nei vari livelli di controllo societario della Parmalat prova che queste innovazioni legislative sono state insufficienti oppure denuncia l’esistenza di un ineliminabile scarto fra assetti normativi e governo societario?
A favore della prima alternativa militano almeno tre limiti del nuovo diritto societario, approvato in Italia a cavallo fra gli scandali di Cirio e Parmalat: (1) la sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio che, in controtendenza con quanto avvenuto in tutti gli altri paesi avanzati colpiti da scandali finanziari, è stato derubricato a reato di danno (aprile 2002); (2) la definizione di forme di governance monistica e dualistica per le società quotate che non prevedono meccanismi di tutela degli investitori comparabili a quelli vigenti nella forma di governance tradizionale (per esempio, nel caso dualistico: indebolimento dell’assemblea degli azionisti e del ruolo degli azionisti di minoranza); (3) un’inadeguata protezione degli investitori nella governance delle società per azioni ‘aperte’ ma non quotate.

Norme e problemi di governance

Eppure, lo scandalo Parmalat pone in luce un ineliminabile scarto fra assetti normativi e governo societario. Sotto il profilo normativo, la corporate governance della società era attestata sulla best practice internazionale (in termini, per esempio, di numero di amministratori indipendenti, funzioni dei comitati interni, ricorso sistematico a primarie società di revisione e di rating). Dietro il rispetto formale delle norme e delle migliori regole di governance l’azionista di controllo, a lungo coincidente con il presidente e con l’effettivo gestore, esercitava però un potere assoluto sulla vita societaria tanto da nominare amici o subordinati nel ruolo di amministratori indipendenti, da togliere ogni efficacia al sistema dei controlli interni e da condizionare pesantemente i controlli esterni.
Senza sfociare in comportamenti paragonabili a quelli degli amministratori di Parmalat, i limiti sostanziali di governance appena descritti sono purtroppo tipici di molte società italiane sotto stretto controllo da parte dell’azionista di riferimento. In queste società gli amministratori indipendenti tendono a non essere davvero tali, il collegio sindacale è raramente composto da membri espressione degli azionisti di minoranza, i comitati interni includono spesso amministratori esecutivi e hanno funzioni marginali, la struttura retributiva degli amministratori non sembra rispondere a esigenze di governance, vi sono evidenze di insider trading da parte del management, l’attivismo degli azionisti di minoranza e degli investitori istituzionali è assai limitato, e così via.
Ne deriva che quella positiva (e prudente) tendenza a normare i principi generali e a dare spazio all’autoregolamentazione per le fattispecie di dettaglio, che ha caratterizzato il Tuf e parti del nuovo diritto societario, non si è accompagnata al conseguente e necessario disegno di efficaci incentivi microeconomici, capaci di spingere i protagonisti del nostro mercato finanziario a produrre efficienti sistemi di governance e a controllare i conflitti di interesse.

Le soluzioni recenti

La risposta agli scandali “alla Parmalat” è stata molto tardiva, si è limitata al piano normativo e non ha corretto i maggiori limiti del nuovo diritto societario. In particolare, la legge sul risparmio del 2005 ha compiuto una retromarcia rispetto alla normazione dei soli principi generali e all’autoregolamentazione degli investitori e degli attori del mercato per la costruzione di un’efficace governance. Così, oltre ad abbassare la soglia per la presentazione di azioni di responsabilità e a garantire alla minoranza il concorso nella formazione dell’ordine del giorno delle assemblee, ha introdotto una sorta di amministratore di ‘‘minoranza’’ (tramite l’obbligo, per le società per azioni quotate, di ricorrere al voto di lista con sbarramenti non superiori al 2,5 per cento) e ha previsto che la minoranza esprima il presidente del collegio sindacale. Il “decreto Pinza” del 2006 ha cancellato varie carenze della legge sul risparmio, specie riguardo all’utilizzo del voto segreto per la nomina degli amministratori e al sistema dei controlli; inoltre, ha razionalizzato, anche se non fissato in modo definitivo, la nuova divisione dei compiti fra Banca d’Italia, Antitrust e Consob.
I due interventi normativi hanno dunque cercato di correggere il malfunzionamento del sistema di governance, proprio al caso Parmalat, mediante il ricorso a norme di tipo imperativo a tutela della minoranza. La domanda è se, al di là dell’esigenza di riformare in modo radicale gli assetti della regolamentazione nei mercati finanziari, sia ancora opportuno procedere ad altre innovazioni e correzioni normative o non si tratti piuttosto di favorire il disegno di adeguati incentivi microeconomici capaci di tenere sotto controllo il pervasivo conflitto di interesse nei mercati finanziari.

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