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Mimare, ma non fare, le liberalizzazioni: elettricità e gas

La liberalizzazione dell’energia in Europa non è stato un successo. Dipendendo dalle importazioni, il mercato energetico è difficile, ma alcuni errori sono stati commessi. E’ facile prevedere che le imprese reagiranno alle loro debolezze negli acquisti di gas integrandosi, ma solo un mercato integrato potrebbe difendere anche i consumatori.

Almeno finora, la liberalizzazione dell’elettricità e del gas in Europa non è certo stato un successo. Si sono impiegati quasi dieci anni per passare da una prima risoluzione in questo senso (Consiglio CEE del settembre 1986) alla direttiva 92 (dicembre 1996), che stabiliva alcune prime regole per un mercato interno dell’elettricità. Altri sette sono serviti per una seconda direttiva nel giugno 2003 (atti similari hanno riguardato il gas naturale, nel 1998 e nel 2003), ma ad oggi il mercato unico è ben lungi dall’esistere: solo il 6% dell’elettricità europea attraversa le frontiere nazionali, e la quota più elevata per il gas riflette soltanto la geografia. Vi sono, non sorprendentemente, enormi differenze nei prezzi tra Paesi, e la presenza di produttori esteri nei mercati nazionali, con l’eccezione di Gran Bretagna ed Italia, è ancora modesta.
Questo sostanziale fallimento appare ancora più stridente perché avviato negli anni in cui partiva un’altra liberalizzazione, quella delle telecomunicazioni, che ha invece dato risultati enormemente positivi. Ma questo è il risultato della peculiare struttura dell’industria elettrica e del gas, delle difficoltà incontrate nel creare un gruppo di pressione favorevole alla liberalizzazione, nonché di alcuni cruciali errori di policy.

L’energia non è facile come le tlc…

L’industria elettrica europea è stata a lungo caratterizzata dalle distorsioni generate dal programma nucleare francese, che cercò – negli anni settanta – di creare campioni nazionali nella filiera elettronucleare. Come altri programmi di questo tipo, anch’esso fallì, e la Francia non riuscì mai a competere con USA, Giappone e Germania, ma produsse una capacità eccedentaria pari, a metà degli anni novanta, a circa 11.000 MW. Trattandosi di impianti nucleari, la corrispondente energia poteva essere venduta a costi marginali molto bassi. Nessuno degli altri Paesi fu dunque particolarmente in favore di misure mirate ad una rapida integrazione del mercato europeo, e gli sforzi della Commissione ebbero solo un tiepido supporto. L’industria del gas, invece, era dominata in ciascun Paese da campioni nazionali, ciascuno dei quali era titolare di preziosi contratti di lungo periodo con i Paesi produttori, che apparivano particolarmente strategici stante le previsioni – che risalgono agli anni Ottanta – di un rapido aumento nei consumi di gas in ciascun Paese.
In secondo luogo, i progetti di liberalizzazione dell’energia non sono mai stati considerati, dai politici europei, come un buon affare: mentre per le telecomunicazioni l’esperienza americana aveva mostrato come la rottura del monopolio conducesse a massicci investimenti e prezzi minori, e dunque potesse godere di ampio supporto tra i consumatori, ma anche tra i produttori di apparati, nulla di tutto ciò si prospettava per l’elettricità ed il gas. Le aziende di questi settori, che realizzarono enormi processi di investimento ed avevano decine o centinaia di migliaia di dipendenti, costituivano poi un formidabile gruppo di interesse.

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E qualche errore forse c’è stato

In terzo luogo, la Commissione avrebbe dovuto utilizzare con maggior decisione gli strumenti a sua disposizione, dispiegando una politica antitrust più aggressiva nei confronti di questi settori; in particolare, si sarebbe potuto far sì che il Consiglio utilizzasse – come venne fatto frequentemente nelle telecomunicazioni – lo strumento delle direttive ex articolo 94 del Trattato, che gli consente di emanare direttive per migliorare il funzionamento del mercato interno, senza dover ottenere il faticoso assenso del Parlamento. Così, a 20 anni dai primi disegni di liberalizzazione, i mercati dell’elettricità e del gas in Europa sono ancora, in larghissima misura, mercati nazionali, che vedono la presenza di un operatore dominante o di un ristretto oligopolio, con dinamiche di prezzo che indicano un esteso esercizio del potere di mercato.

Integrare i mercati per far crescere le imprese

Ma se ciascun grande operatore è re in casa sua, egli si rivela assai debole quando si presenta sui mercati internazionali in cerca di gas. Ecco quindi che i costi della mancata liberalizzazione si fanno evidenti: grazie alla perdurante frammentazione dei mercati nazionali, ed all’enorme crescita dei consumi, il potere di mercato di Russia, Algeria, e degli altri fornitori di gas si è fatto estremamente elevato: è forse per questo che, nelle indagini demoscopiche, da qualche tempo la politica energetica è una delle poche aree in cui i cittadini europei dicono di voler una più incisiva politica comune.
La probabilità che le istituzioni europee, dopo 20 anni di scarsi successi, riescano a trovare l’accordo su una materia così delicata non pare molto elevata. Più probabilmente, saranno le imprese ad organizzarsi, reagendo con ampi processi di concentrazione, anche internazionali, all’aumento del potere di mercato dei fornitori di gas. Questo forse riuscirà a proteggere i consumatori europei dall’esercizio del potere di mercato dei paesi che ci forniscono il gas, ma difficilmente li difenderà dal potere di mercato delle grandi imprese europee che producono e distribuiscono elettricità e gas.
Meglio ancora sarebbe stata la creazione di un vero mercato integrato, sia per la sicurezza, sia per promuovere la concorrenza. Ma anche su questo la strada sembra lunga…

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  1. Ticonzero

    La liberalizzazione dell’energia non è positiva. La struttura dell’industria di questo settore porterebbe a degli oligopoli che stritolerebbero i consumatori. Tra oligopolio privato e monopolio pubblico, meglio il secondo.

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