L’attività decisionale europea ha subito un drastico rallentamento dopo l’allargamento dell’Unione nel maggio 2004. Perché un’Europa più ampia richiede riforme istituzionali che le permettano di funzionare. Un compito affidato al Trattato di Nizza. Che tuttavia non funziona. E i vari tentativi di modificarlo dimostrano che i leader europei ne sono consapevoli, anche se rifiutano di ammettere esplicitamente il fallimento. Serve un nuovo Trattato per ridefinire le regole di voto in Consiglio e la composizione della Commissione.

Unione Europea ha bisogno di un nuovo Trattato. Dimostriamo la nostra tesi sulla base di due elementi di prova. Il primo si fonda sui dati: il rallentamento dell’attività decisionale in Europa dopo l’allargamento del maggio 2004. Il secondo si fonda su un argomento di “preferenze rivelate” applicato agli uomini e alle donne che più sono a contatto con la realtà del processo decisionale all’interno dell’Unione Europea, ovvero i leader degli Stati membri.

I fatti: la produzione legislativa nell’Unione Europea

In una recente pubblicazione, un gruppo di studiosi francesi ha documentato il drastico calo della produzione legislativa europea pre e post-allargamento. (1) Come si vede dal primo grafico, l’allargamento del maggio 2004 è stato accompagnato da un crollo improvviso del numero di leggi varate dall’Unione Europea. Naturalmente, l’allargamento non è il solo “sospettato”: nel 2004 ha si sono insediati un nuovo Parlamento europeo e una nuova Commissione. Tuttavia, nel 2005 il calo è stato molto più importante di quello avvenuto nel 1999 con l’avvicendamento precedente (vedi secondo grafico). Dati molto recenti ripresi da ricerche di studenti di dottorato mostrano che produzione legislativa nel 2006 è tornato su livelli vicini al pre-allargamento. (2) Tuttavia, il dato aggregato del 2006 nasconde il fatto che una quota significativamente più ampia della legislazione riguarda aree per le quali le decisioni nel Consiglio dei ministri sono prese a maggioranza e non all’unanimità. Le materie di legge soggette a voto a maggioranza – misure per il mercato unico e simili – sono però meno controverse, e lo spostamento rafforza dunque l’impressione che nell’Unione allargata il meccanismo decisionale abbia avuto particolari problemi ad affrontare le questioni controverse. I dati che emergono da sondaggi tra gli “insider” dell’Unione Europea (condotti dagli stessi studenti di dottorato) confermano la conclusione generale che raggiungere il consenso è divenuto molto più difficile dopo l’allargamento.

“Preferenze rivelate”

Contare il numero di leggi approvate non è un buon sistema per valutare l’impatto dell’allargamento sulla capacità decisionale dell’Unione Europea. Il problema di fondo è che non esiste una metrica precisa per misurare l’attività legislativa. Alcune direttive europee hanno effetti profondi, mentre altre sono estremamente tecnocratiche. Il fatto che non si possa misurare in modo preciso l’attività decisionale non significa però che non possa essere comunque stimata.
Alcune centinaia di persone sono direttamente coinvolte nel processo decisionale europeo. Ovviamente, sanno se l’allargamento ha ostacolato l’attività decisionale nell’Unione Europea. Ma come facciamo ad arrivare a questa “conoscenza privata”? Chiedere semplicemente ai diretti interessati non è un buon metodo perché gli insider hanno un interesse diretto a manipolare strategicamente le loro affermazioni, che non sono comunque verificabili.
Gli economisti aggirano tali problemi attraverso un argomento da “preferenze rivelate”. L’idea è che le scelte che le persone fanno in circostanze difficili rivelano i loro veri pensieri: una strategia che applicheremo alla domanda se sia necessario un nuovo Trattato per l’Europa. Il punto è che quasi tutte le persone che sanno realmente se l’allargamento richieda o meno una riforma dei processi decisionali all’interno dell’Unione Europea rispondono ai leader politici europei – il Consiglio d’Europa – cosicché anche i membri del Consiglio devono essere a conoscenza della verità. Possiamo dunque intravedere la verità guardando alle loro scelte nei momenti difficili.

Da Amsterdam a Nizza. E oltre

Nel giugno 1993 i leader dell’Europa a 12 sostennero che le nazioni dell’Europa Centrale e Orientale avrebbero dovuto diventare membri dell’Unione Europea. Tutti sapevano che le istituzioni europee avrebbero dovuto adattarsi e che questo avrebbe richiesto un nuovo Trattato per cambiare le regole.
Nell’Unione Europea, i Trattati sono preparati dalle cosiddette Conferenze intergovernative (Igc). Il Consiglio europeo impartì alla Igc tenuta nel 1996 il compito di preparare una riforma istituzionale legata all’allargamento, e in particolare per ciò che riguarda le regole di voto nel Consiglio dei ministri e la composizione della Commissione europea.
I negoziati della Igc96 si rivelarono difficili: produssero il Trattato di Amsterdam, ma non riuscirono a venire a capo delle riforme istituzionali. Alla fine, i membri dell’Unione Europea riconobbero di non essere d’accordo sulle riforme istituzionali definendo gli “Amsterdam Leftovers”: appunto, le regole di voto per il Consiglio (allocazione dei voti, e materie soggette a voto a maggioranza) e la composizione della Commissione (in particolare se ogni Stato membro dovesse avere un commissario). Tuttavia, dal punto di vista delle preferenze rivelate, questa difficoltà è utile: Negoziati difficili come quelli della Igc96 agiscono come una sorta di “selezione naturale” sui temi in agenda. Tutti i partecipanti capiscono subito quali sono le questioni urgenti e importanti e quali sono i “riempitivi”, gli interventi sulle preoccupazioni del momento o che servono a guadagnare l’appoggio di governi irresoluti. I duri negoziati e il duro lavoro degli uomini e delle donne che erano nella posizione migliore per conoscere la verità, ridussero la lista delle riforme istituzionali “da fare” ai “lasciti di Amsterdam”.
Il tentativo successivo si ebbe con la Igc del 2000 e che portò al Trattato di Nizza. Il suo primo obiettivo era il varo di riforme che avrebbero dovuto mantenere la legittimità democratica dell’Unione e la sua capacità di agire nonostante l’allargamento, con una speciale attenzione al voto nel Consiglio e alla composizione della Commissione.
Il Trattato di Nizza non è stato capace di riformare adeguatamente le regole decisionali dell’Unione Europea. (3)
Il fallimento, tuttavia, non era qualcosa che i leader europei potessero ammettere e, come parte integrante dell’accordo finale, il Consiglio dovette proclamare solennemente che le riforme del Trattato di Nizza erano sufficienti. Il presidente francese Chirac promise al Parlamento europeo che le riforme di Nizza sarebbero bastate a garantire il funzionamento effettivo dell’Europa e la sua legittimità anche dopo l’allargamento del club da 15 a 27. Da notare, che le riforme del Trattato di Nizza non dovevano entrare in vigore fino all’effettivo allargamento che avvenne nel maggio 2004.
Le mancanze delle riforme del Trattato di Nizza – specialmente sulle regole di voto del Consiglio – non era immediatamente evidenti. Ma anche quando divennero ampiamente note, i leader europei non potevano ammettere esplicitamente il loro fallimento. I piccoli paesi membri dell’Unione che tanto potere avevano sacrificato al Trattato di Nizza, lo “vendettero” ai loro parlamenti come una dolorosa ma necessaria riforma, il prezzo dell’allargamento a Est.
Una nuova tattica era necessaria. Con la dichiarazione di Laeken del 2001, fu messa in piedi una “convenzione” e ai suoi membri fu assegnata una lista di 56 domande tra le quali si nascondeva la questione della riforma istituzionale. Una domanda era “Come possiamo migliorare l’efficienza dell’attività decisionale e il lavoro delle istituzioni in un’Unione con quasi trenta Stati membri?”. Naturalmente, quello avrebbe dovuto essere il compito del Trattato di Nizza.
La domanda è illuminante alla luce delle preferenze rivelate. I negoziati che portarono al Trattato di Nizza erano stati estremamente difficili, com’è naturale che sia in ogni cambiamento negli accordi sulla divisione del potere. Tuttavia, nel 2001 i leader europei chiesero alla Convenzione di riformare il Trattato di Nizza ancor prima che le riforme del Trattato di Nizza entrassero in vigore. Questo dimostra che coloro che erano nella migliori condizioni per saperlo, sapevano che le riforme del Trattato di Nizza erano un fallimento.
La Convenzione, presieduta dall’ex presidente francese Giscard d’Estaing, escogitò un diverso insieme di regole di voto per il Consiglio dei ministri: per essere approvata una legge avrebbe dovuto ricevere il “sì” del 50 per cento degli Stati membri, che però rappresentasse almeno il 60 per cento della popolazione.
La bozza di Trattato costituzionale redatta sotto la direzione di Giscard fu inserita in una Igc tenuta nel 2003 sotto la presidenza italiana. Come nel 1996 e nel 2000, le regole di voto si dimostrarono un terreno controverso e la bozza presentata dalla presidenza italiana al Consiglio europeo del dicembre 2003 fu respinta. Si noti tuttavia che nel corso degli stessi negoziati, agli Stati membri fu esplicitamente offerta la possibilità di mantenere le regole di voto decise a Nizza invece delle nuove previste dal Trattato costituzionale. E sebbene queste stesse nazioni avessero approvato all’unanimità le regole di Nizza nel dicembre 2000, le respinsero nel 2003, ancor prima di averle messe alla prova.
Il compromesso finale sul Trattato costituzionale manteneva le regole del Trattato di Nizza fino al novembre 2009 (per placare Portogallo e Spagna, che avrebbero perso molto potere con la Costituzione) e modificava leggermente lo schema a doppia maggioranza di Giscard. L’accordo fu accettato all’unanimità, anche se a malincuore, dai leader dei 25 Stati membri nel giugno 2004, ma fu poi respinto dagli elettori di Francia e Olanda.

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Regole da sistemare

Se utilizziamo la prospettiva delle preferenze rivelate, i tentativi di riforma del Trattato costituzionale ci dicono che i leader dell’Unione Europea sapevano che il Trattato di Nizza non poteva funzionare. Avrebbero potuto semplicemente rifiutare lo schema a doppia maggioranza di Giscard alla Igc 2003, mantenendo le riforme di Nizza, e accettare il resto della Costituzione. Non lo fecero. Ebbero la stessa scelta nel 2004 sotto la presidenza irlandese e il risultato fu lo stesso. Sfortunatamente, le regole di voto di Nizza sono quelle che governano oggi l’attività decisionale dell’Unione Europea. Un fatto che non si può cambiare, se non attraverso un nuovo Trattato.
Il duro confronto dell’ultimo decennio ha ridotto le riforme costituzionali davvero, ma davvero necessarie, a due: la riforma delle regole di voto in Consiglio e la composizione della Commissione. Il nuovo Trattato potrà pure toccare un ampio ventaglio di temi, in modo da costituire un pacchetto politicamente bilanciato, ma quando arriverà alla riforma istituzionale, avrà poca scelta: dovrà mettere a posto le regole di voto nel Consiglio dei ministri.


(1)
R. Dehousse, F. Deloche-Gaudex e Dumamel, 2007, “Elagissement: Commnet l’Europe s’adpte”, Science Po, Parigi.
(2) S. Hagemann e Julia De Clerck-Sachsse, “Old rules, new game: Decision making in the council of ministers after the 2004 enlargement,” CEPS Special Report, March 2007.
(3) Per una discussione più approfondita vedi R. Baldwin e M. Widgren, 2007, “Does the EU need a new Treaty?” Cepr Policy Insight, No. 2. Disponibile su www.vox-eu.org.

Graduate Institute, Geneva Switzerland; Turku School of Economics, Turku Finland, May 2007

Versione inglese

The EU needs a new Treaty. We make the case based on two strands of evidence. The first is based on data – the slow down in EU decision making since the May 2004 enlargement. The second is based on ‘revealed preference’ reasoning concerning the men and women who are most in touch with the realities of EU decision-making – the leaders of EU member states.

The facts: Flow of EU law making

A recent publication by a team of French scholars documents the sharp drop in the flow of EU legislation pre- and post-enlargement. As the top panel of the diagram shows, the May 2004 enlargement was accompanied by a sudden slump in the number of EU laws adopted. Of course enlargement is not the only suspect – 2004 saw a new European Parliament and Commission being installed. However, drop off was much larger in 2005 than the one that occurred after the previous Parliament-Commission switch-over in 1999 (see bottom panel). Very recent figures from research published by two doctoral students show that the flow of legislation in 2006 recovered to something close to its pre-enlargement level. However this aggregate 2006 figure hides the fact that a significantly larger share of the legislation concerns areas where decision making in the Council of Ministers is by majority voting rather than unanimity. Since the types of laws that are subject to majority voting – Single Market measures and the like – tend to be less controversial, this shift heightens the impression mentioned above that decision-making in the enlarged EU has had particular problems addressing controversial issues. Evidence from surveys of EU insiders (undertaken by the same doctoral students) confirms the general conclusion that reaching consensus has become much harder since the enlargement.

Revealed preference evidence

Counting the number of laws passed is a poor way to evaluate the impact of enlargement on the EU’s decision making capacity. The basic problem is that there is no natural metric-stick for law making. Some EU Directives have sweeping effect, while others are highly technocratic. The un-quantifiability of decision making output does not mean that it cannot be gauged.
A few hundred people are directly involved in EU decision making. Surely they know whether enlargement has hampered EU decision making. But how do we get at this ‘private knowledge’. Merely asking isn’t good enough since insiders have an interest in strategically manipulating their unverifiable statements.
Economists get around such problems with ‘revealed preference’ reasoning. The idea is that the choices that people make in difficult situations reveals their true thoughts, a strategy we shall apply the question of Europe’s need for a new Treaty. The key is that almost all people who really know whether enlargement requires a reform of EU decision-making procedures report to Europe’s political leaders – the European Council – so the Council members must know the truth. We can find glimpses of the truth by looking at their choices in difficult situations.
In June 1993, EU12 leaders said that the Central and Eastern European nations would eventually become EU members. Everyone knew that EU institutions had to adapt and that this would require a Treaty to change the rules. In the EU, Treaty’s are drawn up in so-called InterGovernmental Conferences, IGCs for short. The European Council instructed the IGC held in 1996 to consider the institution reform linked to enlargement, namely Council of Ministers’ voting rules and the composition of the European Commission.
The IGC96 negotiations proved difficult. It produced the Amsterdam Treaty, but failed to resolve institutional reform issues. In the end, EU members agreed to disagree on the institutional reforms by defining the “Amsterdam Leftovers”, namely Council of Ministers voting rules (vote allocation and areas subject to majority voting), and Commission composition (in particular whether every member should have a Commissioner). From the revealed preference perspective, however, the difficulty is useful. Hard-fought negotiations like the IGC96 act as a sort of ‘natural selection’ on agenda items. Very soon all participants realise which issues are urgent and obvious and which issues are ‘filler’ – things that address the concern du jour, or help buy the political support of wavering governments. Hard bargaining and hard thinking by the men and women who are best placed to know the truth whittled down the list of ‘must do’ institutional reforms to the Amsterdam Leftovers.

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The next attempt was in the IGC held in 2000 that lead to the Nice Treaty, the prime goal of which was to implement reforms that would maintain the Union’s democratic legitimacy and its ability to act in the face of enlargement, especially as concerns Council voting and Commission composition.

As we have documented extensively elsewhere, the Nice Treaty’s failed to adequately reform EU decision making rules. This failure, however, was not something EU leaders could admit. As part of the final deal, the Council had to solemnly declare that the reforms in the Nice Treaty where sufficient. Then French President Chirac promised the European Parliament that the Nice reforms would be enough to allow the EU to function effectively and legitimately even after enlarging the club from 15 to 27. Importantly, the Nice Treaty reforms were not to come into effect until enlargement actually happened in May 2004.
The flaw in the Nice Treaty reforms – especially the Council voting rules – where not immediately apparent. And even when flaw became widely recognised, EU leaders could not explicitly admit their failure. The small EU members, who sacrificed much power in the Nice Treaty deal, sold Nice to their parliaments as a painful but necessary reform – the price of Eastern enlargement.
A new tactic was needed. With the 2001 Laeken Declaration, they set up a ‘convention’ and gave the conventioneers a list of 56 questions among which was hidden the issue of institution reform. One question was: “how we can improve the efficiency of decision-making and the workings of the institutions in a Union of some thirty Member States.” That, of course, was supposed to be the job of Nice Treaty.
This question is incredibly useful from a revealed-preference perspective. The negotiations that lead to the Nice Treaty reforms were extremely difficult – as any change in a power sharing arrangement must be. Yet, in 2001 EU leaders asked the Convention to reform the Nice-Treaty reforms even before the Nice-Treaty reforms had been implement (they weren’t set to take effect before the enlargement in 2004). This shows us that the men and women best placed to know believed that the Nice Treaty reforms were a failure.
The Convention, chaired by Former French President Giscard d’Estaing, came up with a quite different set of voting rules for the Council of Ministers. Getting a law passed would require yes votes from 50% of member states that represented at least 60% of the population.
The Constitutional Treaty drafted by the under Giscard’s direction was feed into an IGC held in 2003 under the Italian Presidency. As in 1996 and 2000, the voting rules proved contentious and the draft presented by the Italian Presidency to the European Council in December 2003 was rejected. Importantly, during the Italian negotiations, member states were explicitly given the option of retaining the Nice voting rules instead the new ones in the draft Constitutional Treaty. Although the same nations had agreed to the Nice rules unanimously in December 2000, they rejected them in 2003 – before they had even been tried.
The final compromise in the Constitutional Treaty retained the Nice Treaty rules up to November 2009 (to assuage Poland and Spain who were to lose so much power under the Constitution) and it modified Giscard’s double majority scheme modestly. The deal was grudgingly accepted unanimously by EU25 leaders in June 2004, but rejected by French and Dutch voters.
Using the revealed preference perspective, the Constitutional Treaty’s reforms tell us that EU leaders believed that the Nice Treaty rules could not work. They could have simply refused Giscard’s double-majority scheme in the IGC2003, stuck with the Nice reforms, and taken the rest of the Constitution. They did not. They were given the same choice under the 2004 Irish Presidency and the outcome was the same.
Unfortunately, the Nice voting rules are the ones governing EU decision-making today. This fact cannot be changed without a new treaty. Hard bargaining over the last decade has narrowed the really, really necessary institutional reforms to just two – reform of the Council voting rules and reform of the Commission’s composition. While the new treaty may touch on a variety of issues in order to provide a politically balanced package, there is little choice when it comes to institutional reform. It must fix the Council of Ministers voting rules.

1) R. Dehousse, F. Deloche-Gaudex and Dumamel, 2007, “Elagissement: Commnet l’Europe s’adpte”, Science Po, Paris.
2) S. Hagemann & Julia De Clerck-Sachsse, “Old rules, new game: Decision making in the council of ministers after the 2004 enlargement,” CEPS Special Report, March 2007.
3) See R. Baldwin and M. Widgren, 2007, “Does the EU need a new Treaty?” CEPR Policy Insight, No. 2. Available free on www.vox-eu.org.

 

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