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Gli italiani e le pensioni

Il “dibattito” in corso sulla riforma delle pensioni sembra preludere a esiti che accresceranno il disordine già imperante. I temi che si affastellano meriterebbero, ciascuno, un’accurata analisi per poi trovare collocazione in un disegno organico di riordino che tenga conto delle interazioni fra i singoli interventi. E quelli riguardanti la fase transitoria andrebbero coordinati con gli altri, di più lungo periodo, inerenti il perfezionamento del sistema contributivo. Invece, la scena è irrimediabilmente dominata dagli interessi immediati.

È stato autorevolmente detto che l’Italia dovrebbe copiare uno qualsiasi dei sistemi elettorali europei. Non importa quale: sempre meglio dei pasticci che sarà capace di combinare progettandone uno proprio. La raccomandazione può essere traslata in altri campi, pensioni comprese.
Il “dibattito” in corso sembra preludere a esiti che accresceranno il disordine già imperante. I temi che si affastellano meriterebbero, ciascuno, un’accurata analisi per poi trovare collocazione in un disegno organico di riordino che tenga conto delle interazioni fra i singoli interventi. E quelli riguardanti la fase transitoria andrebbero coordinati con gli altri, di più lungo periodo, inerenti il perfezionamento del sistema “contributivo” (che l’Italia, dove ebbe i natali, dovrebbe imparare a chiamare con l’acronimo Ndc – Notional Defined Contribution – usato nel resto del mondo). Invece, la scena è irrimediabilmente dominata dagli interessi immediati con la complicazione delle strumentalizzazioni tipiche di un paese instabile, condannato a vivere una sorta di campagna elettorale permanente.

Alla discussione sull’età manca un “punto di partenza”

Protagonista assoluto è il superamento dello scalone. Vale la pena ricordare che il requisito anagrafico minimo di 57 anni, scelto nel 1995 per i lavoratori (in tutto o in parte) “retributivi”, coincise non per caso col limite inferiore della fascia d’età (57-65 anni) entro cui i lavoratori “contributivi” furono ammessi al pensionamento. La coincidenza doveva impedire che, nella lunga fase transitoria in cui i lavoratori retributivi e quelli contributivi sarebbero andati in pensione assieme, i primi potessero farlo a un’età minima diversa da quella consentita ai secondi. Proprio per questo la coincidenza dovrebbe essere preservata nel senso che la nuova età minima dei lavoratori retributivi dovrebbe essere allineata (anche per gradi) a quella preliminarmente da individuare per i contributivi. Che c’entrano, allora, le “quote” che non prefigurano alcuna età minima di pensionamento? E perché nessuno sta proponendo la nuova fascia d’età pensionabile per i lavoratori contributivi che dovrebbe costituire il punto di partenza di ogni ragionamento?

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Per i lavori usuranti la soluzione non può essere l’età

Altro tema caldo è quello dei lavoratori “usurati” che manterrebbero il diritto ai 57 anni. A che varrà tale diritto quando la pensione sarà calcolata con la formula contributiva e, per lasciare il lavoro prima, occorrerà pagare il prezzo di un coefficiente di trasformazione più piccolo? A regime, la soluzione va quindi cercata non tanto in età di pensionamento minori quanto in coefficienti maggiori. Nel frattempo, cos’altro escogitare per le pensioni ancora calcolate (in tutto o in parte) con la formula retributiva? Al quesito non esistono risposte facili in un contesto in cui si è già deciso che lo scalone dev’essere superato con gli scalini e/o le quote, anziché con correttivi degli importi di pensione che avrebbero opportunamente anticipato le logiche contributive, specialmente se ottenuti rapportando il coefficiente di trasformazione di ciascuna età a quello di un’età “canonica”. (1) Nel caso fosse stata scelta questa via, per i lavoratori usurati il rapporto avrebbe potuto recare, al numeratore, il loro coefficiente relativo all’età prescelta (fermo restando, al denominatore, il coefficiente del lavoratore “normale” all’età canonica). Ecco un esempio di come un disegno organico di riordino dovrebbe tener conto delle interazioni fra i singoli interventi evitando di procedere per compartimenti stagni.

Il super-Inps non è sufficiente

Di moda è anche il “super-Inps” che va bene ma per ragioni affatto diverse da quelle immaginate. In realtà, l’unificazione degli enti non serve tanto, o solo, a ottenere quei risparmi (sui costi di amministrazione) con cui si sogna di compensare, in parte, l’addolcimento dello scalone. È, invece, il presupposto per la unificazione delle gestioni previdenziali che, insieme alla unificazione delle aliquote, è un irrinunciabile “portato” della riforma contributiva. In un sistema Ndc frammentato gli equilibri delle singole gestioni non possono essere garantiti dal rendimento unico costituito dalla crescita dei redditi imponibili (da lavoro dipendente e autonomo) che il legislatore del 1995 volle irragionevolmente approssimare con la crescita del Pil. Piuttosto, gli equilibri dovrebbero essere affidati a rendimenti differenziati in ragione delle diverse evoluzioni delle basi imponibili. (2) Ma non può essere questa una soluzione socialmente accettabile.

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(1)
S. Gronchi, Un’ipotesi di Correzione e Completamento della Riforma delle Pensioni del 1995, ministero del Tesoro – Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, Nota n. 10 del 1997.
(2) S. Gronchi, “Sostenibilità Finanziaria e Indicizzazione: un Commento alla Riforma del Sistema Pensionistico”, Economia Italiana, numero 1, 1996.

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Sommario 13 luglio 2007

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Dossier: cronaca di un fallimento annunciato

  1. fer

    Ma nessuno pensa di rivedere il sistema della reversibilità?
    perchè se un pensionato si sposa, la vedovo ha diritto alla reversibilità senza aver affatto contribuito alla raggiongimento della pensione, essendosi appunto sposata un pensionato?
    al posto della reversibilità, non sarebbe invece possibile attribuire, fin dal momento della maturazione anno x anno, una parte definita per legge del proprio contributo corrisposto alla moglie, così che costei abbia di diritto una sorta di contribuzione figurativa maturata?

    • La redazione

      Il mio articolo si occupa di misure di breve periodo (scalone, lavori usuranti, superInps) e non di modello contributivo (nel cuiambito immagino lei intenda calare la sua proposta). Nell’articolo che ho pubblicato su lavoce.info il 21 giugno, intitolato ‘Lo scalone si può barattare’, accenno, invece, alle misure di correzione e perfezionamento del modello contributivo, affrontando anche la questione della reversibilità. La inviterei pertanto a leggere la soluzone ivi proposta, un po’ diversa (ma non troppo) dalla sua.

  2. enrico

    mi sembra di capire che uno dei motivi di opposizione all’innalzamento dell’eta’ pensionabile siano i cosiddetti lavori usuranti. capisco il principio di “equita’” e in parte lo condivido. pero’ da quello che capisco nel dibattito (confuso) la definizione di lavoro usurante e’ qualitativa. domando: sarebbe sensato usare l’aspettativa di vita disaggregata per tipologia di lavoro, eventualmente controllando per il reddito? se effettivamente si scoprisse che l’operaio che sta alle presse vive in media X anni meno di un impiegato di banca, allora avremmo un criterio quantitativo e, direi oggettivo per stabilire qual’e’ un lavoro usurante, e su qeusta base calcolare anche i coefficienti di trasformazione. nel caso alcune categorie potrebbero anche vedere innalzata l’eta’ pensionabile. si raggiungerebbe anche una maggiore equita’: se vi e’ davvero differenza nell’aspettativa di vita tra persone che hanno svolto professioni diverse e si applicano gli stessi limiti per tutti, si stanno implictamente sussidiando i lavori “non usuranti”. mi sembra un calcolo tecnicamente fattibile, mi chiedo se sia una proposta sensata, nel caso mi chiedo come mai nessun sindacato lo proponga.

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