Lavoce.info

Tre miti sulla ricerca in America

Quello che colpisce di più del dibattito pubblico sulla ricerca e sull’università in Italia, e in Europa, è il continuo confronto con un modello americano di ricerca che non esiste. Vi sono tre miti, relativi alla ricerca negli Stati Uniti, che finiscono per ostacolare lo sviluppo di un sano dibattito sulla costruzione di un modello italiano (o europeo) di ricerca. Sfatarli può essere di grande aiuto. Vediamoli uno per uno

Quello che colpisce di più del dibattito pubblico sulla ricerca e sull’università in Italia, e per certi versi anche a livello Europeo, è il continuo confronto con un modello americano di ricerca che non esiste: una ricerca di eccellenza, finanziata dai privati, e portata avanti da ricercatori eccezionali. Un mito che nasce da una mancanza di informazioni essenziali e che ostacola lo sviluppo di un sano dibattito sulla costruzione di un modello italiano (o europeo) di ricerca. Questo intervento discute tre miti relativi alle ricerca in America, che se sfatati magari posso incentivare discussioni più meditate e comprensive.

Primo mito: la ricerca è essenzialmente finanziata da privati

Falso. La maggior parte dei fondi di ricerca sono pubblici. Nell’anno 2005 (Tabella 1), la spesa di ricerca universitaria ammontava a circa 45 miliardi di dollari, ed il governo federale contribuiva con circa 29 miliardi (64%), mentre il governo statale apportava altri 3 miliardi. Le imprese coprivano solo il 5% delle spese di ricerca. Il resto era coperto dalle Università stesse (fondi propri) e da Non-profit di vario tipo. Le imprese non contribuiva neanche a coprire i costi della ricerca applicata (il 25% del totale). Dai primi anni 80 ad oggi, i finanziamenti alla ricerca del settore privato sono effettivamente cresciuti ma comunque non coprono che il 5% del totale. Dal 2000 al 2005, al contrario, il governo federale ha aumentato i fondi di ricerca del 66% (da 17 a 29 miliardi di dollari).

TABELLA 1. Spese di R&S in Scienza ed Ingegneria nelle Università degli Stati Uniti: 2000–05 (Milioni di dollari)

Fonti di finanziamento e tipo di ricerca

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Totale

30,070

32,805

36,385

40,075

43,229

45,750

Fonti di finanziamento

Governo Federale

17,536

19,229

21,857

24,750

27,620

29,167

Stato e governi locali

2,200

2,320

2,505

2,645

2,877

2,940

Industria

2,156

2,218

2,191

2,162

2,129

2,292

Fondi propri dell’Istituzione

5,924

6,613

7,131

7,661

7,751

8,258

Altre fonti

2,254

2,425

2,700

2,857

2,852

3,093

 

 

 

 

Tipo di ricerca

Ricerca di base

22,454

24,382

27,304

29,986

32,515

34,384

Ricerca applicata

7,616

8,423

9,081

10,088

10,714

11,367

FONTE:

National Science Foundation, Division of Science Resources Statistics. 2007. Academic Research and Development Expenditures: Fiscal Year 2005, Survey of Research and Development Expenditures at Universities and Colleges, FY 2005. NSF 07-318. Ronda Britt, project officer. Arlington, VA.

Al di là dei dati aggregati, tutti i grandi breakthrough scientifici e tecnologici della ricerca americana sono stati finanziati con denaro pubblico. Un rapporto del National Research Council pubblicato nel 1999 conclude che il finanziamento federale ha reso possibili non solo i primi sviluppi dell’informatica, ma anche gli sviluppi più recenti come l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e, ovviamente, Internet. Il governo federale ha anche finanziato la mappatura del genoma umano, la ricerca sul nucleare, la ricerca sul riscaldamento globale del pianeta. Quando il governo federale non interviene, spesso il governo statale cerca di coprire i costi di ricerca (vedi la ricerca sulle cellule staminali per la quale lo stato di Massachussets ha di recente stanziato oltre un miliardo di dollari (lo stato del Massachussets ha circa 7 milioni di abitanti: meno della nostra Lombardia!).

Secondo mito: la ricerca è essenzialmente ricerca di eccellenza.

Falso. Certamente la ricerca di base è quella di cui tutti parlano, per cui gli stranieri espatriano in America, e per cui i ricercatori americani vincono Premi Nobel. Nel periodo 1901-2002, 270 ricercatori americani hanno vinto il Premio Nobel—un numero che è superiore alla somma (256) dei vincitori dei quattro paesi che seguono. Tuttavia, se si guarda la distribuzione dei Premi Nobel per capita, gli Stati Uniti sono solo undicesimi. In realtà il mondo della ricerca negli Stati Uniti è estremamente ramificato, ed include anche piccole università che spesso si occupano di ricerche importanti solo a livello locale. Senza di loro le università maggiori (che poi sono una minoranza) non potrebbero concentrare i loro sforzi sulla ricerca di base, per sua natura molto rischiosa e senza applicazioni immediate.

Terzo mito: avere ricercatori eccezionali è sufficiente.

Falso. La ricerca non vive solo di menti ed intuizioni. Esiste una società che la supporta in vario modo. Per esempio, i politici sono spesso in grado di capire ed apprezzare il valore politico ed economico che la ricerca porta con sé, e quindi si fanno promotori di iniziative spesso aliene ai politici europei. Un modo piuttosto semplice di favorire la ricerca è di avere leggi che garantiscano benefici fiscali all’instituzioni che fanno ricerca ed quelle che sovvenzionano la ricerca: così le università pubbliche e private sono generalmente esenti dal pagare le tasse sulla proprietà e sui redditi, e, fin dal 1981, le imprese che investono in ricerca posso ottenere una detrazione fiscale corrispondente a parte degli investimenti in ricerca e sviluppo (1).
In conclusione, è troppo facile rinunciare a costruire le premesse per fare ricerca in Italia nascondendosi dietro all’idea che gli americani producono una ricerca migliore perché sono i migliori e che l’Italia (o l’Europa) non potrà mai avere le stesse aspirazioni. Questo é falso. Tuttavia, é vero che per costruire le premesse per una ricerca seria sono necessari fondi pubblici, ed una classe politica attenta. Semplice no?

(1) Si vedano, a livello federale, ad esempio, U.S. Code, Credit for increasing research activities, 26 U.S.C. 41 (credito fiscale per ricerca e sperimentazione); U.S. Code, Clinical testing expenses for certain drugs for rare diseases or conditions, 26 U.S.C. 45C (credito per farmaci orfani); Tax Relief and Health Care Act of 2006, Public Law No: 109-432, (benefici fiscali per ricerca e sviluppo).

La risposta ai commenti

Voglio ringraziare per i commenti, tutti interessanti e spesso elogiativi del nostro contributo. I contributi su lavoce.info non eccedono le 1000 parole, e quindi potete immaginare come non ci sia stato possibile discutere tutto ciò che si doveva trattare sul tema. La ricerca in Italia è un tema che divide fortemente perché, come durante le partite della nazionale di calcio, tutti sono un po’ degli allenatori con la loro ricetta.
In questa replica voglio sottolineare le due idee di fondo del contributo, piuttosto che rispondere ai commenti. Fabrizio scriverà sul tema della spesa militare. Inoltre, in un contributo in futuro, tratteremo il tema della meritocrazia e della selezione (sollevato da GmB e Giuio Ariemma). Era inizialmente incluso nel primo contributo, ma necessita di una trattazione autonoma. Voglio fare solo un breve commento sul punto sollevato da Maurilio Milone sui finanziamenti privati. È vero che le università americane ricevono molte donazioni (la mia università per esempio sorge su 400 acri donati negli anni ’60 dal fondatore della Tupperware). È però vero che negli States la propensità alla filantropia sia molto più elevata che non in Europa (come notato da Tocqueville due secoli fa). Ciò non toglie che la ricerca di base non sia finanziata dai privati (un contributo dettagliato su come e perché i privati finanzino le università americane è necessario).
Le due idee di fondo sono le seguenti. Primo, nessun sistema è perfetto. Anche il sistema americano è imperfetto. Ne consegue che il fatto che in Italia (ed in Europa) il sistema non sia perfetto, non preclude la possibilità di ambire a migliorarlo ed a renderlo competitivo.
Il secondo punto è che l’ostacolo più grande alla riforma della ricerca è culturale e non economico (vedi il commenti di Bruno). Il termine “cultura” va intenso in senso sociologico, ovvero come espressione dei valori, norme ed aspirazioni di una certa comunità. Dire che la barriera al miglioramento della ricerca in Italia è culturale, significa dire che (1) la ricerca viene valutata poco collettivamente; (2) le norme formali (leggi) sono inadeguate e le normi informali (per esempio le raccomandazioni ed i fatti suggeriti dal commento di Valentina Raimondo) sono un bavaglio allo sviluppo; ed infine (3) l’Italia non aspira collettivamente ad avere una ricerca di eccellenza. In Italia, ci sono ovviamente eccezioni, che però sono micro-realtà od individui che operano in un ambiente culturale avverso. E pensare che i fondi per la ricerca ci sarebbero in Italia. Questo non capita negli Stati Uniti, da cui c’è molto da imparare per quanto riguarda il valore assegnato alla “cultura” scientifica (vedi il commento di Federico).
Nei commenti, alcuni hanno proposto dei cambiamenti normativi. Nel 2006-07, c’è stato un fiorire di proposte in questo settore. Penso che siano benvenute, e che vadano esaminate criticamente ed sostenute se meritevoli. Tuttavia, cambiare le norme serve a poco se la cultura non cambia. Sembra un po’ di leggere le pagine de “Il Gattopardo” di Tommasi di Lampendusa, che descrive un modo in cui tutto cambiava per poi restare invariato. Anche io ho le mie proposte. Ritengo però che, prima di cambiare il contesto normativo, sia necessario riflettere criticamente e senza apologie sullo stato della cultura scientifica in Italia, e chiedersi che posizione debba occupare la ricerca nell’immaginario culturale dell’Italia: prima o dopo Vallettopoli?

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Dopo Biden: il tempo delle proposte politiche
Leggi anche:  Una spending review riservata ai comuni

Precedente

Crisi dei subprime: cosa non funziona*

Successivo

Una crisi estensiva, ma benigna

19 commenti

  1. GmB

    Lavoro nella Ricerca e Sviluppo di una multinazionale delle telecomunicazioni. Ho spesso a che fare con ricercatori italiani e del nord Europa. Inoltre, come ovvio, ho accesso quotidiano alle pubblicazioni scientifiche a livello globale, per cui ho modo di farmi un’opinione della qualita’ della ricerca in Italia e altrove (almeno nel mio settore). Concordo: per una ricerca servono (soprattutto) fondi pubblici, un meccanismo di riconoscimento trasparente e una classe politica lungimirante. Complimenti e grazie

  2. Giulio Auriemma

    Quanto illustrato in questo articolo corrisponde esattamente alla mia esperienza personale. Il punto di forza della ricerca statunitense è proprio il finanziamento federale, gestito direttamente dalle agenzie federali sulla base del sistema di “peer-review”. Vorrei segnalare inoltre un articolo apparso il 3 agosto u.s. sulla rivista Science, a proposito della produttività scientifica comparata tra USA ed Europa.

  3. luigi zoppoli

    Piuttosto esaustivo il suo articolo e corettamente tranchant nella sua conclusione.
    D’altronde il dott. Pier Luigi Celli occupandosi di classe dirigente ne rileva l’assoluta insufficienza.
    Purtroppo non solo per quanto attiene alla ricerca scientifica

  4. Ugo Gragnolati

    Un breve commento sul secondo dei tre “miti” da Voi presi in considerazione: quello della ricerca di “eccellenza” negli Stati Uniti. Chiaramente ciò che sostenete è vero: per definizione l’eccellenza non può essere una qualità eccessivamente diffusa, diversamente diverebbe normalità. Così pure nella ricerca ci saranno ricercatori eccellenti, bravi, e meno bravi.

    Tuttavia, a mio avviso ciò che si cela dietro l’idea comunemente diffusa di “eccellenza” nella ricerca americana è in realtà la tendenziale “selezione” di chi svolge attività di ricerca. Sia in Italia che negli Stati Uniti esiste una selezione per l’ingresso ai corsi di dottorato; ma da quel momento in poi le cose cambiano nei due rispettivi sistemi: in Italia la capacità di svolgere ricerca sembra essere assai meno premiata, fino a giungere ad essere sostanzialmente irrilevante. Ciò è dimostrato dal fatto che il nostro Paese stipendia centinaia di professori universitari che non svolgono alcuna attività di ricerca (o molto limitata rispetto ai loro colleghi americani). In questo senso la ricerca americana è “eccellente” rispetto a quella nostrana: nel garantire che chi viene pagato per svolgere ricerca faccia effettivamente ricerca.

    Mi rendo conto che non sia un esempio travolgente di “eccellenza”, ma noi non riusciamo a fare nemmeno questo, putroppo!

  5. Giulio Gabbiani

    I miti sonoveri e contribuiscono, come gli autori sostengono, a ritardare il progresso della ricerca italiana. Tuttavia, come in parte sottolineato da Ugo Grignolati, l’America ed anche alcuni paesi europei, a differenza dell’Italia, controlla in modo efficace l’eccellenza e soprattutto la qualità dei risultati. Questo è ottenuto grazie al finanziamento sia pubblico che privato dei progetti in base ai risultati, cioè alle pubblicazioni effettuate. In più, la carriera degli universitari e dei ricercatori è basata sulle sovvenzioni ottenute, che, come detto sopra, si basa sulle pubblicazioni fatte.
    Questi criteri potrebbero, almeno teoricamente, essere facilmente applicati anche in Italia.

  6. Federico

    I dati portati a sostegno dell’articolo dicono il vero, ma non permettono di capire come stanno davvero le cose…
    Quello che mi preme affermare è che il governo federale degli stati uniti non si sogna neanche lontanamente di finanziare la ricerca come opera sociale, ma ha interessi politici ben più rilevanti.
    All’interno dei fondi federali della ricerca si cela la ricerca militare.
    Ora, spendendo i soldi per ricerca militare si ottengono due risultati:
    Si mantiene elevato il livello tecnologico del proprio esercito, il che sostiene il potere internazionale degli states dal punto di vista militare.
    Le innovazioni vengono rapidamente riadattate per gli scopi civili il che rende l’economia ricca di tecnologie sulle quali investire e di conseguenza dalle quali trarre profitto.
    Inoltre quello che è stato detto sui politici americani è vero: sono mediamente più colti dei nostri in ambito scientifico, il che è solo il riflesso di un maggiore orientamento scientifico gnerale della popolazione.
    Secondo me, e concludo, i problemi europei sono di due tipi:
    Primo: non abbiamo una ricerca militare paragonabile a quella degli USA, perchè essendo frammentata da paese a paese gode di favori politici locali e risulta difficile selezionare i progetti più promettenti
    Secondo: In europa la cultura è intesa mediamente in termini UMANISTICI, come se lo studio della scienza non renda colti, ma solo scienziati.

  7. Kent Morwath

    Sarebbe interessante vedere gli stessi dati “depurati” degli ingentissimi fondi che negli USA sono assegnati per la ricerca militare, sicuramente ben superiori a quelli dell’Italia e probabilmente dell’intera UE. Tra i casi citati (Internet, nucleare) sono prodotti proprio di ricerca militare. Inoltre mi pare che l’analisi si fermi alle università: dalla mia esperienza la ricerca fatta direttamente dalle aziende negli USA è elevata, e trova riscontro in realtà europee come la Germania ma molto meno in Italia – ricordo una decina di anni fa un articolo come una grossa azienda in Germania – Bayer, Bosch, non ricordo registrasse in un anno tanti brevetti quanto l’intera industria italiana.

    • La redazione

      Il commento solleva un’altro aspetto interessante della ricerca negli Stati Uniti: Il ruolo della spesa militare. Per evitare di cadere nei luoghi comuni, é ancora una volta utile andare a vedere come si distribuisce la spesa del governo federale. La tabella 70 della ricerca della National Science Foundation riporta la distribuzione dei fondi di ricerca federale tra i vari dipartimenti del governo: Dipartimento della Difesa (DOD = Department of Defense), Dipartimento dell’Energia (DOE = Department of Energy), Dipartimento di Sanitá (HHS = Department of Health and Human Services), la NASA (National Aeronautics and Space Administration, la NSF (National Science Foundation); e il Dipartimento dell’Agricoltura (USDA = U.S. Department of Agriculture). Nella categoria Others sono raggruppati altri dipartimenti, come il Dipartimento dei Trasporti, Homeland Security, etc.

      La spesa militare é associata sostanzialmente alle spese del Dipartimento della Difesa (e ad una porzione delle spese del Dipartimento dell’Energia, che si occupa di Nucleare). Nel 2005, Il DOD spendeva il 9% del totale dei fondi di ricerca, mentre il dipartimento dell’Energia il 4%. La parte del leone nel finanziamento della ricerca accademica negli Stati Uniti, spetta al Dipartimento di Sanitá (HHS) che, attraverso il National Institute of Health (NIH) finanzia attivitá di ricerca nelle “life sciences” (Medicina, Biologia, etc.) e spende il 56% del totale dei fondi di ricerca (Tab. 1). La spesa militare quindi é importante, peró non arriva al 15% del totale. Molto piú importante é la spesa nelle life sciences. Sará un caso che il settore delle biotecnologie si sia sviluppato negli Stati Uniti?

      Tabella 1.

      Ripartizione dei fondi di ricerca federali per Dipartimento (2005)

      DOD………..9%
      DOE………3.6%
      HHS……..54.7%
      NASA……..3.9%
      NSF………12.2%
      USDA……..2.8%
      Others…..11.5%

      Fonte: National Science Foundation, Division of Science Resources Statistics. 2007. Academic Research and Development Expenditures: Fiscal Year 2005, Survey of Research and Development Expenditures at Universities and Colleges, FY 2005. (http://www.nsf.gov/statistics/nsf07318/) NSF 07-318. Ronda Britt, project officer. Arlington, VA.

  8. Bruno

    Articolo interessante, ma forse bisogna prendere in considerazione anche altre variabili o aspetti del discorso pubblico-privato: quanti raccordi ci sono tra le nostre università e il mondo produttivo? Ho esperienza di una piccola università nel centro-Italia, dove questo rapporto è quasi inesistente e di qualche università nel Belgio dove c’è, anche da parte delle forze politiche e culturali una forte spinta sinergetica, che mi sembra esistere in Italia soli in alcuni rinomati atenei…

  9. Giovanni Scotto

    Vorrei ricordare ai lettori che attualmente in Italia le universita’ pagano anche l’IRAP , imposta regionale sulle attivita’ produttive – il che comporta, per le persone pagate “a progetto” su fondi di ricerca terzi, o per i docenti a contratto, una ulteriore cospicua decurtazione. L’universita’ paga questa imposta come se fosse un’impresa che produce reddito.

  10. Valentina Raimondo

    Salve a tutti, sono una ragazza di 25 anni il cui sogno è diventare ricercatrice…anche se questa meta si fa giorno per giorno più lontana. Concordo con l’articolo, ma mi sento di aggiungere che il problema sulla qualità e sulla quantità della ricerca fatta in Italia non è solo un problema di soldi. Nonostante sia meno esperta di chiunque di voi scrive, posso dirvi che, dopo un anno di esperienza di lavoro come tutor presso l’Ateneo fiorentino, ho visto cose e mi sono capitate cose che mai avrei creduto! non c’è spazio per poterle descrivere ma credo che una buona e “vera” inchiesta sull’università italiana sarebbe utile per portare alla luce tutto ciò che rischia di mandare in malora ancor di più non solo la ricerca ma la stessa formazione universitaria.
    un saluto a tutti
    Complimenti e grazie per tenerci sempre informati.
    Valentina

  11. Milone Maurilio

    “Le imprese coprivano solo il 5% delle spese di ricerca. Il resto era coperto dalle Università stesse (fondi propri) e da Non-profit di vario tipo.”
    Nulla si dice, però, riguardo la composizione dei fondi propri. Non ho consultato nessuna fonte, ma credo che una prevalenza di finanziamenti privati, seppur non direttamente rivolti alla ricerca, non supporti lo “smascheramento” del mito.
    Insomma, in sostanza si tratterebbe comunque di denaro che non proviene dalle casse di Stato.

  12. Claudia Biancotti

    Gli autori usano questo argomento
    “Il resto era coperto dalle Università stesse (fondi propri)”
    a sostegno dell’idea che il ruolo dei finanziamenti privati alla ricerca in USA è minore di quanto non sembri.
    Quello che si dimenticano di dire è che le Università sono, di norma, private anch’esse; ci sono le università di Stato che fanno eccezione, ma non costituiscono la maggioranza, nè sono di norma i centri di più grande produttività.
    I “fondi propri” di Harvard e Stanford non sono i “fondi propri” delle nostre università, ovvero non sono soldi dello Stato attribuiti all’università X. Sono fondi privati (spesso grandi lasciti), di norma vincolati a usi specifici da accordi privati. Sono amministrati sulla base di logiche di mercato.
    Credo che un dibattito riguardo al livello ottimale di presenza pubblica nel sistema universitario debba prendere le mosse non già da informazioni false, spero tali per ignoranza e non per malafede, ma da un riconoscimento di qual è il punto vero del contendere.
    C’è un trade-off tra libertà e solidarietà, la collocazione di ciascuno discende da scelte di tipo politico, si va a votare proprio per questo. La distinzione, se parliamo per grosse categorie, è di tipo etico e come tale va trattata.
    Se invece parliamo di aggiustamenti di dettaglio (ad esempio: vogliamo i fondi pubblici, ma come li vogliamo allocare tra diversi soggetti? Oppure: vogliamo i fondi privati, ma in che settori possiamo e vogliamo fare un’eccezione?) va bene il discorso tecnico, sempre che i numeri siano veri. A condizione, di nuovo, che si ammetta chiaramente quello che stiamo facendo: accettiamo un certo principio politico, e raffiniamo i dettagli.

    • La redazione

      Nella voci Fondi Propri e Altre Fonti, sono riportati i fondi spesi direttamente dall´Universitá e provenienti da fonti diverse: trasferimenti da stati e municipalitá (per le universitá pubbliche), Grant di ricerca senza vincoli di utilizzazione ottenuti da imprese, fondazioni e privati, le tuition pagate dagli studenti, Interessi e ricavi finanziari ottenuti dall’investimento dell’endowment e gli introiti ottenuti con le licenze delle innovazioni brevettate dalle universitá stesse. La ricerca della National Science Foundation non ci permette di distinguere all’interno di queste voci la quota proveniente dai privati, peró é ragionevole pensare che la gran parte di questi fondi sia “privata”. Queste voci coprono il 25% del totale delle spese di ricerca accademica.

      Questi dati, comunque, erano giá riassunti nella tabella 1 (per cui non si capisce perché veniamo tacciati di ignoranza o malafede!), dalla quale si evince che l’impegno pubblico (governo federale e statale) é pari al 70% del totale. Non c’é dubbio che l’impegno del settore privato (imprese, fondazioni e privati) sia importante per la ricerca accademica, peró é certamente falso che la ricerca accademica sia finanziata solo dalle imprese (un luogo comune molto diffuso in Italia).

      Sono d’accordo sul fatto che sia importante aprire il dibattito sul livello ottimale di spesa pubblica nelle Universitá in Italia, e chiaramente l’obiettivo dell’intervento non era quello di dare una soluzione al problema, ma semplicemente fornire alcuni dati (verificabili da chiunque) sulla situazione negli Stati Uniti nel campo della ricerca (non facciamo nessun riferimento alla didattica, ad esempio). Per migliorare la qualitá del dibattito politico sul tema, crediamo sia meglio partire dai dati che dalle polemiche ideologiche.

      Per saperne di piú:
      National Science Foundation, Division of Science Resources Statistics. 2007. Academic Research and Development Expenditures: Fiscal Year 2005, Survey of Research and Development Expenditures at Universities and Colleges, FY 2005.(http://www.nsf.gov/statistics/nsf07318/) NSF 07-318. Ronda Britt, project officer. Arlington, VA.
      National Science Board. 2006. Science and Engineering Indicators 2006. (http://www.nsf.gov/statistics/seind06/) Two volumes. Arlington, VA: National Science Foundation (Volume 1, NSB 06-61; volume 2, NSB 06-01A).

  13. Giuseppe Lipari

    Sono professore associato in Ingegneria Informatica in Italia. Vorrei segnalare un altro dei miti sulle Universita’ USA, che riguarda il mondo del lavoro. Secondo tale mito, “il ricercatore/professore sarebbe assunto sempre a tempo determinato, e questo contribuirebbe a metterlo sotto pressione e quindi aumentare la sua produttivita’”.

    Invece, negli USA i professori che hanno la “tenure” sono a tempo indeterminato, e non possono essere licenziati dalle Universita’, se non per fatti molto gravi. Sono a tutti gli effetti assunti a vita.

    Non tutti i professori sono “tenure”. Inoltre, il processo di selezione e’ molto lungo e duro, specialmente nelle Universita’ maggiori. Se l’Universita’ vuole espandersi, assume un giovane ricercatore come “assistant professor” con la dicitura “tenure track”. Questa etichetta segnala che il giovane ricercatore ha la possibilita’ concreta di diventare “tenure” dopo un certo numero di anni e dopo aver passato una serie di ostacoli durissimi. L’Universita’ e’ obbligata a stanziare TUTTI i fondi per la “tenure” al momento un cui il giovane e’ assunto. Quindi, se un assistant in “tenure track” non diventa tenure e’ soltanto un problema di standard qualitativi. Naturalmente, prima di mettersi sul groppone un cretino A VITA, l’Universita’ ci pensa bene.

    Un professore americano mi ha confessato che di solito gli assistant lavorano come matti (anche 20 ore al giorno!), poi una volta ottenuta la tenure, o sono cosi’ drogati di lavoro che continuano a lavorare 80 ore la settimana, oppure si “siedono” e si godono la tenure per il resto della vita con il piano di far lavorare i propri sottoposti non-tenure.

    Commento personale: il sistema funziona perche’ e’ molto competitivo a tutti i livelli. In particolare, le classifiche periodiche nazionali fra Universita’ le spingono a migliorare continuamente i propri standard qualitativi.
    Inoltre, godono di un ambiente industriale privato e pubblico (soprattutto militare) molto incline alla ricerca.

  14. Silvano Presciuttini

    Sono stato ospite di una struttura periferica di un istituto dell’NIH (il gigantiesco istituto federale della ricerca biomedica USA) per un lungo periodo. Ero stato invitato dai due ricercatori leader del gruppo, che chiamerò J&A. Nel corso del tempo, mi sono fatto un’idea di come funziona il finaziamento della ricerca all’NIH.
    J&A non hanno il problema di dover scrivere domande di finanziamento per le proprie ricerche: hanno dei fondi di dotazione molto generosi. Il mio stipendio è stato pagato direttamente sui loro fondi. Di anno in anno questo fondo viene rifinanziato, soggetto solo alle fluttuazioni del bilancio federale (i repubblicani comprimono le spese, i democratici le allargano). Hanno addirittura delle carte di credito istituzionali con cui pagano le minute spese. Devono peraltro combattere con una burocrazia elefantiaca, che lì come come da noi, non li aiuta a risolvere i problemi ma si limita a dire “questo non si può fare”. Essendo impiegati federali, J&A godono di molti privilegi, simili a quelli dei nostri impiegati statali di una volta: illicenziabilità, possibilità di pensionamento precoce, vari tipi di benefits.
    Come fa quindi l’NIH, data questa situazione che sembra favorire l’inefficienza più totale, a mantenere lo standard di eccellenza che lo caratterizza?
    Le varie unità di ricerca dll’NIH sono soggette ad un controllo quinquennale, in cui una commissione esterna di valutatori di estrazione scientifica decide, dopo una vista in loco (“site visit”) di un paio di giorni se l’unità va mantenuta o va sciolta. Io ho patecipato ad una di queste visite, perchè J&A mi hanno chiesto di essere presente per “difendere di persona” l’investimento che era stato fatto su di me. Pare che circa il 10% di queste visite si risolva nella chiusura della struttura. E in questo caso, chiedo, cosa succede ai ricercatori? Beh, si devono trovare un’altra sede che li accetti.
    Tutto proprio come da noi…

  15. Renzo Rubele

    Nell’articolo viene preso in considerazione solo il finanziamento alla ricerca universitaria. Il cosiddetto “mito” sul fatto che la ricerca sia essenzialmente finanziata da privati e’ in effetti una realta’ se si considera il complesso delle attivita’ di Ricerca e Sviluppo, laddove gli indicatori generalmente accettati e resi pubblici nel contesto internazionale segnalano una frazione di 2/3 per il complesso delle fonti di finanziamento imputabili al settore privato negli Stati Uniti. Per ogni Università attiva nella ricerca vi sono parecchie industrie e imprese di servizi che dispongono di laboratori e personale attivo nella ricerca, e le interazioni con la ricerca universitaria sono ampie e ben praticate.
    Per quanto riguarda la “ricerca di eccellenza”, penso che nessuno abbia mai sostenuto che tutta la ricerca USA sia di eccellenza, anzi vi e’ sempre l’accento sulla diversificazione del profilo delle varie istituzioni, incluso quelle universitarie. Si e’ invece sostenuto che e’ possibile una ricerca di eccellenza proprio perche’ l’ambiente e gli incentivi del sistema provvedono a creare le condizioni per l’emergere di risultati di qualità in maniera strutturale e continua.
    Circa l’importanza dei ricercatori eccezionali non penso che possano esservi delle vere diversità di opinioni: tutti sono d’accordo nel rimarcare l’importanza delle condizioni generali “al contorno”, incluso quelle “di valori” e politiche, per la buona conduzione di qualunque impresa scientifica.

  16. Roberto Russo

    Il mito che la ricerca in america sia finanziata dai privati come ogni mito (o credenza popolare) ha una sua base di verità.
    la verità è che la grandi università, quelle che sfornano i premi Nobel ricevono una quantità enorme di donazioni ceh gli permettono di fare la differenza in tutti i settori.
    La invito a visitare la pagina dell’università di Harvad
    http://vpf-web.harvard.edu/annualfinancial/
    dove trova il bilancio dell’università degli ultimi anni
    la sola università di Harvard riceve circa 600 milioni di dollari
    all’anno in donazioni e la cifra è circa costante negliultimi 5 anni.
    Il budget che il ministero ha stanziato quest’anno per i progetti PRIN (una delle piu importanti fonti di finaziamenti per la ricerca universitaria) è di circa 90milioni di euro che dovrebbe essere aumentata, ma non raggiungera i 200 milioni di euro ed è per tutte le università italiana. un terzo di quello
    che Harward riceve in donazione dai privati!
    La cosa è similie per le altre grandi e famose università americane che grazie a queste donazioni possono liberare una parte importante del loro bilancio alla ricerca.

  17. Aram Megighian

    Sono perfettamente daccordo con l’analisi. Credo che la costituzione dello European research Council, associata ad un aumento dei fondi Europei (cioè centrali) per la ricerca, avvicinerà il modello europeo a quello americano descritto, togliendo quella componente “politica” (gruppi di ricerca grossi, legati a persone “addentrate”) che spesso riusciva ad affermarsi negli anni passati. L’ERC sarà molto simile ai grant NIH con un alto rejection rate (attorno al 90% circa) che garantirà competizione. Tuttavia vale la pena anche di ricordare che tali sistemi ipercompetitivi hanno aumentato le frodi scientifiche (ed in America si sta correndo ai ripari)

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén