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Ici, Chiesa e privilegi

L’esenzione Ici, come attualmente configurata, non appare legittima alla luce del divieto di aiuti di Stato. L’esperienza comunitaria è infatti rigorosa nel ritenere sufficiente il mero rafforzamento della posizione dell’impresa beneficiata rispetto all’inserimento sul mercato nazionale dei concorrenti comunitari. Ma è un problema destinato a impallidire rispetto alla questione delle agevolazioni Onlus. Un regime che detassa completamente il reddito d’impresa realizzato da soggetti che operano in settori di rilievo sociale.

L’animato, quanto confuso, dibattito che negli ultimi giorni si è acceso sul tema delle agevolazioni fiscali per gli enti non commerciali – e tra questi, quelli ecclesiastici – sollecita l’interesse ad affrontare la questione in termini il più possibile rigorosi dal punto di vista giuridico.

La norma oggetto di contestazione

L’oggetto del contendere è costituito dall’esenzione Ici, ex articolo 7 del decreto legislativo n. 504/92, a favore degli enti non commerciali (1), relativamente agli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, religiose o di culto.
In discussione, peraltro, non è tanto l’articolo 7 citato, quanto l’interpretazione autentica che ne è stata fornita, con il Collegato alla Finanziaria 2006 e con il decreto legge Bersani-Visco.
Prima di questi due interventi, la norma di esenzione era interpretata dalla giurisprudenza (2) in modo assai rigoroso: accanto ai prescritti requisiti, soggettivo e oggettivo, ne era stato inserito un terzo, che riservava l’esenzione alle sole attività di tipo non commerciale. Sicché, per poter usufruire dell’esenzione, occorreva che negli immobili non fosse esercitata in nessun modo attività d’impresa. Ebbene, è proprio per “correggere” questa lettura giurisprudenziale, che il legislatore è intervenuto: prima con il Collegato alla Finanziaria 2006, che ha “interpretato” l’articolo 7 rendendolo applicabile alle attività indicate “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”; poi, in sostituzione di questa interpretazione, con il Dl n. 223/06 (cosiddetto Bersani-Visco), che ha invece reso applicabile l’esenzione alle “attività che non abbiano natura esclusivamente commerciale”.
Senza entrare nel merito delle due soluzioni, resta acquisito un dato: certamente con la prima, ma chiaramente anche con la seconda “interpretazione”, l’agevolazione è stata estesa alle attività di tipo commerciale. Ma solo a quelle esercitate, nei settori indicati dall’articolo. 7, da enti non commerciali.

La questione comunitaria

È specificatamente su questo profilo che si gioca il tema della compatibilità comunitaria della previsione.
Ai sensi del Trattato dell’Unione Europea (articolo 87) sono vietate le agevolazioni fiscali che vadano ad avvantaggiare solo alcune tra le imprese che operano sul mercato, che si presentino, dunque, come agevolazioni selettive.
È però l’approccio “pragmatico” della Commissione europea e della Corte di giustizia a venir qui in considerazione. Perché, alla stregua di questo, la compatibilità degli aiuti va valutata, non già in ragione delle forme che assumono, bensì degli effetti che producono sulla posizione delle imprese. Ed ecco allora che, nella nozione di aiuto di Stato, va compreso anche quello concesso nella forma di una minore tassazione (cosiddetti aiuti fiscali), mentre, nella nozione di impresa, va ricondotto qualunque soggetto o ente che eserciti un’attività economica, che offra cioè beni o servizi su un determinato mercato. Risulta poi del tutto irrilevante lo status giuridico, l’assenza dello scopo di lucro soggettivo, così come valutazioni relative alla meritevolezza delle finalità perseguite.
Con un simile quadro di riferimento, diviene inevitabile interrogarsi circa la compatibilità dell’agevolazione Ici. E appare evidente che, se nell’originaria interpretazione avvallata dalla giurisprudenza, un problema di compatibilità non si poteva porre, dal momento che l’esenzione era riservata agli immobili non destinati all’attività d’impresa, a diversa conclusione si deve pervenire oggi, dopo l’interpretazione autentica fornita dal Dl n. 223/06.
Alla stregua di quest’ultima, infatti, l’agevolazione interessa sicuramente anche immobili utilizzati per attività di impresa. Peraltro, il requisito è stato strutturato in termini di non esclusività dell’utilizzo del bene e non di prevalenza: sicché, è sufficiente una, del tutto marginale, destinazione non d’impresa del bene per ritenerlo soddisfatto. Vale poi considerare che gli enti non commerciali possono pacificamente esercitare attività di impresa, purché questa non sia prevalente: e le attività “sociali”, che debbono essere esercitate negli immobili, possono certamente essere svolte in forma di impresa. Anzi, l’esperienza degli ultimi venti anni del cosiddetto terzo settore dimostra come l’impresa sia lo strumento privilegiato per le attività assistenziali, sanitarie, didattiche, eccetera.
L’agevolazione, inoltre, si presenta come selettiva, se si considera che sul “mercato sociale” operano altri soggetti (tra cui, imprese individuali ma anche società) che non possono accedere all’agevolazione in questione.

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I vantaggi degli enti ecclesiastici

Vi è poi un altro profilo da valutare, che interessa più direttamente gli enti ecclesiastici. L’ente ecclesiastico è considerato, fiscalmente, sempre e comunque non commerciale, in quanto sottratto a quel giudizio di prevalenza dell’attività non commerciale su quella commerciale, contemplata invece per tutti gli altri soggetti. (3) Non solo, allora, gli enti ecclesiastici possono esercitare attività d’impresa perseguendo finalità accessorie a quelle di religione e di culto (si pensi alla gestione di case di cura, strutture ospedaliere, attività editoriali e così via), ma è anche possibile che tali attività risultino in concreto “prevalenti”, senza che ciò comporti una riqualificazione degli enti stessi e la perdita dell’agevolazione.
La posizione degli enti ecclesiastici, di qualunque confessione, risulta pertanto di ulteriore privilegio all’interno della normativa agevolativa prevista per tutti gli enti privati non commerciali.

La questione delle Onlus

L’esenzione Ici, come attualmente configurata, non appare dunque legittima alla luce del divieto di aiuti di Stato. Si potrebbe invocare, a parziale giustificazione, la scarsa incidenza dell’agevolazione sul mercato comunitario (4), ma non sembra immediato. L’esperienza comunitaria è infatti rigorosa nel ritenere sufficiente il mero rafforzamento della posizione dell’impresa beneficiata rispetto all’inserimento sul mercato nazionale dei concorrenti comunitari. (5)
Ma, a ben vedere, il problema dell’esenzione Ici è destinato a impallidire rispetto a una questione che presto potrebbe interessare gli organi comunitari: le agevolazioni Onlus. Un regime, questo, che detassa completamente il reddito d’impresa realizzato da soggetti che operano in settori di rilievo sociale.
Pesanti sono quindi le nuvole che vengono da Bruxelles e che muovono verso la welfare society italiana. Ma sono nuvole cui non interessa la natura laica o religiosa dei soggetti su cui si abbatteranno, bensì solo la tutela del mercato e della parità concorrenziale. Valori forse aridi, sterili e prosaici, ma che l’Italia ha scelto di condividere con gli altri partner comunitari, al punto di accettare una limitazione della propria sovranità, secondo la formula dell’articolo 11 della Costituzione. E per la patria del diritto, dura lex sed lex.

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(1)
Stando alle dichiarazioni del portavoce della Commissione Europea riportate dalla stampa (mentre gli atti di richiesta di informazioni al governo italiano, così come di risposta da parte di quest’ultimo, non sono pubblici, allo stato attuale), le valutazioni della Commissione riguardano anche l’agevolazione dell’art. 6 del Dpr n. 601/73 (riduzione a metà dell’aliquota Ires) a enti non commerciali, con personalità giuridica, che operino in determinati settori di attività. Di questo aspetto non abbiamo voluto occuparci in questa sede, per esigenze di brevità, ma le questioni che si pongono presentano indubbie affinità con il tema affrontato.
(2) Cassazione n. 20776/05
(3) L’art. 149 del Tuir preclude all’Agenzia delle Entrate quello che è invece possibile in via ordinaria: indagare sulla effettiva natura, commerciale o meno, dell’attività dell’ente. Così, acquisita la qualifica di ente ecclesiastico (che per alcuni enti è presunta, mentre per altri è in funzione di un riscontro della natura religiosa e di culto delle finalità perseguite, non incompatibile peraltro con l’esercizio di attività diverse, anche commerciali), che per legge equivale alla non commercialità, quest’ultima non può essere messa in discussione.
(4) Argomentare, cioè, che una agevolazione concessa a un ente, che non ha come attività prevalente quella di impresa (dovendo questa essere marginale rispetto al fine principale non commerciale), relativamente a un immobile non destinato esclusivamente all’attività di impresa, abbia un impatto irrilevante in termini di “distorsione” del mercato.
(5) CG C-102/87, punto 19. In ogni caso, “la Commissione è tenuta a dimostrare non un’incidenza effettiva di questi aiuti sugli scambi tra gli Stati membri e sulla concorrenza, ma se i detti aiuti siano idonei a incidere su tali scambi” (CG C-298/00, punto 49).

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12 commenti

  1. Maurizio Maggini

    Suggerirei di allargare il discorso alle agevolazioni fiscali (Irpeg) di cui godono le Coop. Cosa ne dice l’Unione Europea??

    • La redazione

      È questo un tema che arriverà certamente ad occupare l’attenzione dei giornali. La Commissione europea è stata già investita della questione; con Ord. n. 3525 del 17 febbraio 2006, la Corte Cass., Sez. tributaria, ha richiesto alla Commissione dell’Unione europea se siano qualificabili come aiuti di Stato le misure di agevolazione fiscale disposte a favore di società cooperative. La questione è in parte simile a quella affrontata nel nostro articolo, se si considera che la valorizzazione costituzionale del movimento cooperativo (art. 45 Cost.) risulta totalmente irrilevante al fine di valutare se eventuali agevolazioni fiscali sono o non sono aiuti di Stato, vietati dal Trattato Ue. Occorre però interrogarsi sul rilievo sistematico della mutualità e, in particolare del divieto di distribuzione delle riserve, cui è collegato il regime tributario, che potrebbe anche portare a ritenere quest’ultimo coerente con l’ordinamento e, quindi, non di carattere agevolativo e, in definitiva, non illegittimo. Il discorso è quindi molto complesso e ci si riserva di intervenire a breve. D’altra parte, anche per le cooperative, si annunciano sorprese.

  2. Fabio Pancrazi

    Non pensate che gli armeggi intorno al Partito Democratico, al Partito della Libertà, alla Costituente Socialista siano solo manovre “tecnico-tattiche” di parte? Tra gli attuali due poli (che hanno disperso, frammentato e reso ininfluenti partiti storici come il Partito Socialista, il Partito Socialista Democratico, il Partito Liberale, il Partito Repubblicano) e con la prospettiva di un eventuale referendum vincente, come lo vedreste un vero tentativo di riaggregare gli elettori dei partiti laici, quelli del pentapartito senza la Dc?
    Una frase di John Fitzgerald Kennedy (1960): “Io credo in un’America in cui la separazione di Chiesa e Stato sia assoluta e in cui nessun prelato cattolico possa insegnare al Presidente (qualora questi sia cattolico) quel che deve fare, e in cui nessun pastore protestante possa imporre ai suoi parrocchiani per chi votare; un’America in cui a nessuna Chiesa o scuola di carattere confessionale siano concesse sovvenzioni tratte dal pubblico denaro oppure preferenze politiche, e in cui a nessuno sia impedito di accedere a un pubblico ufficio, solo perchè la sua religione differisce da quella del Presidente in grado di nominarlo e del pubblico in grado di eleggervelo. Io credo in un’America che ufficialmente non sia cattolica nè protestante nè ebraica; in cui nessun pubblico ufficiale richieda o accetti istruzioni sulla politica da seguire vuoi dal Papa, vuoi dal Concilio nazionale delle Chiese, vuoi da altre fonti ecclesiastiche; un’America in cui nessun organismo confessionale cerchi di imporre, direttamente o indirettamente, la propria volontà al popolo in genere ovvero alle iniziative dei pubblici funzionari, e in cui la libertà di religione sia una e indivisibile, talchè ogni azione contro una delle Chiese sia considerata attentato contro la nazione nel suo complesso. (…)

    • La redazione

      La risposta fuoriesce dal profilo tecnico del nostro intervento, evidentemente. Non crediamo sia un traguardo raggiungibile a breve quello della effettiva laicità dello Stato e delle politiche legislative: l’attenzione costante e programmatica fatta verso l’elettore di centro è emblematica, dal momento che, tradizionalmente, questo è di orientamento cattolico. Consideri anche il fatto che l’agevolazione Ici è solo la punta dell’iceberg.
      Ma a parte questo, non si tratta di condurre una campagna contro questa o quella Chiesa, dimentichi della particolare tradizione culturale del Paese e, soprattutto, del fatto che il sociale è meglio lasciarlo a chi lo sa fare. L’intervento voleva solo dare atto che esistono valori che sopravanzano le scelte politiche del legislatore e che, tra questi, ci sono quelli del mercato comunitario. E sono valori cui, purtroppo o per fortuna, lo Stato italiano deve conformarsi. Laico o confessionale che voglia essere.

  3. Emanuele Bracco

    Attenzione pero’! Anche la mensa della Caritas e’ attivita’ commerciale secondo la legge, in quanto possiede partita IVA, e cosi’ molte attivita’ caritative ed educative che fanno parte del “core” di qualsiasi religione.
    Ricordiamoci che lo stato esenta le chiese e le attivita’ no-profit indiscriminatamente, non solo la Chiesa cattolica, e che “essere Chiesa” vuol dire non solo avere una sacrestia, ma anche fondare scuole e attivita’ assistenziali ed educative.
    Vogliamo veramente che queste siano monopolio dello stato o del mercato? O crediamo che la societa’ civile (e le chiese in essa) possano dare il loro contributo, possano, secondo il principio di sussidiarieta’, magari anche godere di un favor fiscale a fronte dei “beni pubblici” e delle “esternalita’ positive” che producono?

    • La redazione

      In questo caso si tratta di un’attività assistenziale, per cui non si configura (in linea di principio) un problema di alterazione della concorrenza. Nell’articolo non l’abbiamo potuto chiarire meglio, ma condizione per l’applicazione del divieto di aiuti di Stato è, chiaramente, che vi sia un mercato (di beni o servizi), in cui la parità concorrenziale tra operatori venga alterata dall’aiuto. Nel caso delle mense della Caritas, tale eventualità non si pone; così come nel caso di attività di tipo caritativo o attività di religione e di culto in senso stretto. Il problema che il lettore pone è però, crediamo, più generale: si tratta dei limiti che, a seguito della adesione alla Comunità Europea, derivano al legislatore statale che intenda agevolare (anche, ma non solo, fiscalmente) determinate attività economiche (pure se commerciali) in base alla “meritevolezza” dei fini perseguiti. Si badi bene che agevolazioni di questo tipo risultano del tutto legittime alla luce della nostra Costituzione, che ammette un differente trattamento a seconda del rilievo sociale dei fini perseguiti. Quindi delle Onlus così come, in senso ampio, di tutti quegli enti privati che operano, anche con attività di impresa e senza la finalità di distribuirsi i profitti creati, nei settori dell’educazione, dell’assistenza sanitaria, della cultura, ecc. Il problema nasce dal fatto che il carattere “sociale” delle attività, e finanche la meritevolezza costituzionale delle stesse, non risultano in linea generale rilevanti (al di là della adozione di specifiche procedure di autorizzazione) ai fini dell’applicazione del divieto comunitario di aiuti di Stato, come interpretato da Commissione e Corte di Giustizia europee. Ne deriva in questo modo una forte compressione alla potestà legislativa nazionale, funzionale alla tutela dei valori del mercato? Si, inevitabilmente, e questa è una delle conseguenze che derivano dal fare parte dell’Unione Europea. Anche se non crediamo che l’opinione pubblica e, purtroppo, neppure la nostra classe politica, lo abbiano percepito fino in fondo.

  4. giannidipillo

    Condivido quasi totalmente quanto argomentato da un punto di vista tecnico-giuridico.
    Mi ha colpito però la mancanza di ogni riferimento ai sindacati, che hanno assunto negli anni attività di impresa, vedi i CAF, in concorrenza con i commercialisti.

    • La redazione

      Il problema dei CAF esula dall’oggetto del nostro articolo e per questo non è stato trattato. Non si tratta infatti di agevolazioni fiscali concesse in ragione della meritevolezza di determinati fini o attività, quanto dell’affidamento (in modo più o meno esclusivo) di una attività dal rilievo pubblico a determinati soggetti. Certamente, anche in questo caso si pone il problema della tutela della parità concorrenziale, e risulta infatti che già la Commissione Europea abbia già sollecitato lo Stato italiano.

  5. silvano

    Le condizioni per individuare un aiuto di Stato, sono: il vantaggio economico per l’impresa beneficiaria derivante dalla misura pubblica e la sua selettività o specificità, nel senso di favorire solo alcune imprese e non la totalità. Naturalmente, l’aiuto di Stato si configura quando si tratta di trasferimento di risorse statali.
    Sotto l’aspetto del vantaggio economico, si ha aiuto laddove l’impresa ottiene un beneficio che altrimenti non avrebbe ottenuto nel corso normale della sua attività. Dal lato della selettività, si ha aiuto di Stato, quando il trasferimento pubblico, in maniera discrezionale, incide sull’equilibrio esistente fra un’impresa e i suoi concorrenti. Questo criterio è utilizzato per stabilire se un interveto pubblico si configura come aiuto di Stato, e quindi suscettibile di essere annullato, oppure è considerato una misura a carattere generale, e quindi legittima.
    I divieti, quindi, si applicano alle solo imprese. Se, invece, i destinatari degli aiuti non sono le imprese, l’agevolazione pubblica non è mai qualificabile come aiuto di Stato.
    L’Unione Europea definisce l’impresa come un’entità che eserciti un’attività economicamente rilevante, che possa generare profitti, o un soggetto che produce o scambia beni o servizi. Per cui anche un’organizzazione senza scopo di lucro o un ente pubblico, se esercita o può esercitare una attività suscettibile di valutazioni economiche, riceve aiuti rilevanti ai fini dell’art. 87 e sotto quest’aspetto è da considerarsi come impresa.
    In altre parole, ogniqualvolta l’attività che viene agevolata ha un valore sul mercato e può essere esercitata anche da imprese private, la cui finalità ovviamente è il profitto, si configura aiuto di Stato. Da ciò deriva che soggetti che per il diritto interno non sono imprenditori (liberi professionisti, associazioni) lo diventano per il diritto comunitario sulla concorrenza.

    • La redazione

      Gentile Lettore, se fossimo in sede di esame il suo efficace riassunto delle regole comunitarie in materia di aiuti di Stato, e quindi del cuore del nostro articolo, meriterebbe indubbiamente un voto alto. Non, però, il 30, visto che l’inciso finale, quando parla di soggetti che “per il diritto interno non sono imprenditori”, citando le “associazioni”, non risulta del tutto corretto. Infatti, anche per il diritto italiano (in particolare, commerciale e tributario) un’associazione può esercitare attività di impresa, in tutti quei casi in cui il fine ideale dell’associazione sia perseguito tramite un’attività commerciale. Ciò che, invece, non può mai essere presente per le associazioni è il fine di lucro soggettivo. In altri termini, l’associazione può creare, tramite l’attività di impresa, ricchezza ma non può distribuirla tra gli associati.

  6. Edoardo Piccione

    Gentili amici, Parlo da studente un pò appassionato degli argomenti di attualità politica, e mi limito a dire quello che penso senza purtroppo avere le competenze per utilizzare dati oppure informazioni precise. Secondo me l’attività di impresa, detta "sociale", quando svolge delle attività di interesse generale, è oggettivamente di aiuto all’interesse della collettività e anche dello stesso stato. Un ente no-profit, svolge spesso delle attività di cui dovrebbe farsi carico lo stato, e a tal proposito garantisce un vantaggio per lo Stato sul piano economico. In secondo luogo spesso è più efficiente dello Stato perchè si tratta di soggetti sensibili e competenti in un certo campo. Ecco che trovo normale l’agevolazione fiscale a vantaggio di tali enti, della chiesa o no che essi siano, dati i vantaggi della loro attività per tutti, sul piano economico e pratico. Buona sera e grazie.

  7. matteo

    e chissà se, dopo la Chiesa (che peraltro per l’Italia è un patrimonio turistico di importanza strategica…) e dopo le coop (che sfruttano i benefici per costruire imperi con cui operare ardite scalate in Borsa), la UE vorrà dare un’occhiata anche all’ICI non pagata dalla Bocconi…

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