La Commissione europea ripropone una direttiva sulla base imponibile comune per le imprese europee. A partire dal 2019, sarà un criterio unico obbligatorio a stabilirla, mentre l’aliquota applicabile resta quella del paese di sede. Per la base imponibile consolidata comune bisogna ancora aspettare.

Il primo passo

La Commissione UE stavolta non ha perso tempo e ha cavalcato l’onda della vicenda Apple per forzare un po’ la mano. Ma ricapitoliamo. Nel 2011 la Commissione aveva formulato una proposta di direttiva sulla base imponibile consolidata comune per le imprese europee (Common Consolidated Corporate Tax Base “Ccctb”) il cui scopo era facilitare l’individuazione del costo fiscale da sostenere nella UE e renderne più omogeneo il regime così da garantire un’effettiva parità di trattamento. La proposta aveva, però, il grave difetto di essere facoltativa; ne conseguiva un vantaggio per chi aveva perdite in un paese UE da compensare con gli utili di un altro, ma una certa indifferenza per chi non era affetto da tale patologia o aveva addirittura ragione per cercare vantaggi nei differenziali fra i vari regimi fiscali europei (cosiddetto “cherry picking”). La Ccctb era, inoltre, piuttosto complessa e di per sé bisognosa di qualche ulteriore ritocco.
Pochi giorni fa la Commissione UE ha aggiornato la proposta spacchettandola in due interventi successivi. Nell’immediato, cioè a partire dal 2019, si introduce un criterio unico di determinazione della base imponibile individuale (Common Corporate Tax Base, “Cctb”), cioè non consolidata.
La novità sta nell’obbligatorietà del regime per gruppi UE con fatturato complessivo superiore a 750 milioni di euro e nella sua estensione obbligatoria anche a soggetti extra-UE, se realizzano in territorio comunitario (attraverso una stabile organizzazione) un volume d’affari della stessa entità. La Cctb è fruibile anche da parte di imprese con fatturato inferiore a 750 milioni che optino per tale regime. Il che può rivelarsi un vero vantaggio per le medie imprese i cui timori nell’accesso a nuovi mercati si possono spesso ricondurre alla difficoltà ad adeguarsi ai relativi regimi e ai costi amministrativi che ne conseguono.
L’aliquota applicabile non sarà armonizzata, ma resterà quella del paese in cui opera l’impresa. I criteri di determinazione della base imponibile sono quelli più ricorrenti e sono formulati con un’adeguata (e per certi versi inconsueta) precisione. Ne deriva un benefico effetto sulla computabilità dell’onere fiscale, una maggiore oggettività nelle scelte allocative delle proprie risorse, una maggior trasparenza fra imprese concorrenti, considerata l’impossibilità di deroga attraverso accordi fiscali personalizzati (Apple insegna). Specifiche disposizioni sono dettate per la rimozione dello storico vantaggio attribuito al finanziamento con debito, attraverso una deduzione commisurata ai nuovi investimenti con capitale proprio analoga alla nostra Ace e per la repressione dell’elusione fiscale; e anche per il super ammortamento (al 50 per cento) per studi, ricerche e innovazione. Quest’ultimo intervento è comprensibile (la base imponibile dev’essere unica) ma forse un po’ troppo invasivo di terreni tipicamente nazionali (sarebbe meglio sostituirlo con sistemi di crediti d’imposta nazionali).
È tale la consapevolezza di aver messo mano a dettagli suscettibili di variazioni anche opportunistiche e di breve periodo che la direttiva attribuisce alla Commissione UE – senza limiti di tempo – poteri delegati di intervento per meglio mirare le proprie prescrizioni.
Mancano, invece, indicazioni sul coordinamento fra amministrazioni nazionali né si disegna un organo amministrativo comune (dotato di adeguati poteri) per risolvere dubbi e contestazioni che non potranno non emergere in sede di applicazione delle nuove regole. Si rischia, cioè, di passare dalla padella delle differenze di normative nazionali alla brace delle differenze di interpretazione e applicazione delle stesse da parte della amministrazioni nazionali. L’obiettivo di un territorio UE più omogeneo pare, dunque, ben perseguito: ma si sa che il diavolo si annida nei dettagli. La proposta verrà sottoposta (per informativa) al parlamento UE e, tenuto conto delle sue indicazioni, adottata dal Consiglio per essere fatta propria nei singoli Stati entro la fine del 2018. In bocca al lupo!

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Più tempo per la base imponibile consolidata

Meno immediata resta la prospettiva della ben più incisiva adozione di una base imponibile consolidata comune (la vecchia Ccctb). Mantiene intatta la sua importanza, che, anzi, cresce perché anch’essa dovrebbe essere obbligatoria. L’importanza deriva non solo dal fatto che consente di compensare perdite realizzate in un territorio con utili di un altro; ma anche dal fatto che comporta l’eliminazione (elisione) delle transazioni intercompany tagliando, quindi, l’erba sotto i piedi allo spostamento di utili e perdite (profit shifting) fra diversi sistemi fiscali (anche UE) che oggi si verifica e che si traduce spesso nella creazione di irrazionali (e anche costose) articolazioni produttive finalizzate solo a giustificare tali spostamenti.
La norma obbligherebbe a individuare un risultato fiscale consolidato di gruppo; e poi a ricostruire la parte di base imponibile da attribuire a ciascuno stato perché questo lo tassi con la sua aliquota. La redistribuzione della base imponibile avverrebbe utilizzando tre parametri: immobilizzazioni materiali, costo del lavoro e fatturato. Discutibile, ma almeno chiaro e sensato.

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