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L’ALIBI DEL MERITO

Quando si parla di ricambio generazionale inceppato in Italia, alcuni sostengono la tesi che la variabile età di per sé non conti e che l’unico criterio da adottare sia quello del merito. C’è però il rischio che questo argomento sia un pretesto per lasciare irrisolta la questione generazionale. Almeno per quattro motivi. Eppure, se non si affronta seriamente il problema, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.

Una tesi piuttosto diffusa nel dibattito sull’inceppamento del ricambio generazionale in Italia è quella che la variabile età di per sé non conta: "una classe dirigente più giovane non è necessariamente migliore". L’unico criterio da adottare sarebbe quello del merito, senza necessità di chiamare in causa il dato anagrafico. (1) Cerchiamo di spiegare brevemente in quattro punti perché la tesi non è del tutto convincente in assoluto, e lo è ancor meno per il caso italiano.

Se il sistema è bloccato

Primo. Il criterio del merito è sacrosanto, ma è concretamente applicabile solo in presenza di una certa dinamicità nel sistema: se continuamente si entra (per merito) e continuamente si esce (per demerito o anche solo perché finisce un ciclo). Viceversa, se il sistema è bloccato, e chi arriva a occupare posizioni di potere e prestigio vi rimane poi per decenni o vita natural durante, allora prima ancora della questione del merito, si pone il problema di un blocco all’ingresso, prodotto dalle generazioni più vecchie rispetto a quelle più giovani.
Secondo. La questione del ricambio generazionale è analoga a quella delle pari opportunità tra donne e uomini. Anche per la sottorappresentanza femminile (soprattutto italiana), a lungo si è cercato di liquidare il problema affermando che la questione andava posta su capacità e merito e non sul genere: "una classe dirigente con più donne non è necessariamente migliore". Ma ci si è accorti poi che ciò vale solo in un mondo ideale, e che invece nel mondo reale, nel quale l’Italia rientra a pieno titolo, le quote rosa servono per sbloccare un sistema che altrimenti lascerebbe ben pochi spazi (a monte e a valle della candidatura).

La capacità di leggere il futuro

Terzo. Un ulteriore importante motivo per non trascurare il dato anagrafico è quello relativo alla capacità di lettura e di intervento sui cambiamenti in atto. In un periodo di trasformazioni accelerate, come quello attuale (2), il divario tra le generazioni è destinato ad allargarsi.
I giovani si trovano di fronte a un sistema di rischi, vincoli, ma potenzialmente anche opportunità, molto diverso da quello delle generazioni precedenti e in particolare rispetto a chi è cresciuto e si è formato negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Siamo allora sicuri che, a parità di merito, non convenga investire di più su una persona di quaranta anni rispetto a una di settanta? E inoltre, proprio per il fattore anagrafico, non sarà il nostro quarantenne più portato ad avere una visione maggiormente orientata al futuro, se non altro perché lo riguarderà direttamente, invece che a rincorrere l’uovo oggi?
L’elevata età di chi attualmente ha le leve del comando, nettamente più alta rispetto agli altri paesi occidentali, c’entra qualcosa con il fatto che in Italia cambiando le regole del mercato del lavoro ci si è dimenticati di mettere in campo adeguati ammortizzatori sociali; che si faccia così fatica a sciogliere il nodo delle pensioni; che si proceda ad aggiustamenti continui senza intervenire con riforme strutturali; che rispetto a tutto ciò a rimetterci siano soprattutto i giovani e il loro futuro, e quindi anche quello del nostro paese?
Sintomatica è stata poi la recente uscita dell’anziano Ministro Padoa Schioppa. Avrebbe dovuto chiedere scusa ai giovani per non riuscire nemmeno con questa Finanziaria a ridurre in modo significativo il gap con gli altri grandi paesi europei in termini di strumenti di protezione sociale per i giovani, ed invece li definisce "bamboccioni". Questo è l’atteggiamento di chi considera i giovani come figli a cui destinare dei favori e non dei cittadini che hanno diritto ad una politica seria nei loro confronti.

La questione demografica

Quarto. C’è infine la questione demografica: un problema del mondo occidentale che si manifesta più acutamente in Italia. L’invecchiamento della popolazione ridurrà nei prossimi decenni, in modo inedito rispetto alla storia dei paesi democratici, il peso politico dei giovani. Per tutta la seconda metà del Novecento gli under 35 sono stati circa un terzo della popolazione votante, mentre scenderanno sotto il 20 per cento nei prossimi decenni. Viceversa aumenterà notevolmente l’incidenza degli anziani sull’elettorato: gli ultra sessantacinquenni sono attualmente meno del 25 per cento, ma sono destinati ad aumentare progressivamente nei prossimi decenni, fino a sfiorare il 40 per cento.
Il peso dell’elettorato anziano è destinato in Italia più che altrove (tranne forse in Giappone), a diventare preponderante. E siamo un paese nel quale già attualmente la politica si interessa poco dei giovani (basta vedere com’è distribuita la spesa pubblica), e la classe dirigente è tra le più anziane. Parlare di gerontocrazia è forse eccessivo, ma se c’è un paese che vi si può avvicinare più degli altri, questo è proprio l’Italia di domani.
Se non si affronta quindi seriamente il problema del rapporto tra le generazioni, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.
Sono quattro motivi per mettere in guardia dal rischio che nel dibattito in corso la questione del merito diventi un pretesto per lasciare irrisolta quella generazionale.

(1) In proposito, si veda tra gli altri quanto scritto da Pier Luigi Celli su CorrierEconomia del 10 settembre 2007, sotto l’eloquente titolo "Per le nomine l’età non conta. Via libera ai più competenti".
(2) Non a caso il titolo di uno dei libri di maggior successo del sociologo Antony Giddens, già consigliere di Tony Blair, è "Runaway World: How Globalization is Reshaping our Lives".

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10 commenti

  1. nicola di grazia

    Trovo molto convincente il primo motivo. In un sistema che non è dinamico nelle possibilità di entrata dal basso nelle posizioni apicali, il criterio del merito è insufficiente se non è accompagnato da accorgimenti che favoriscano direttamante il ricambio generazionale. E’ quello che potrà avvenire ad esempio nell’accesso agli incarichi direttivi in magistratura, dove la previsione della temporaneità rischia di tradursi, di per sé sola, in un giro di poltrone interno allo stesso ceto dirigente. Nicola Di Grazia magistrato

  2. ARNOLD ATTARD

    E’ sufficente un solo dato statistico per illustrare la tragedia generazionale a cui siamo costretti ad assistere, impotenti. Dall’Italia emigrano 260 mila persone all’anno (dati ISTAT), in gran parte giovani tra i 20 e i 40 anni, in gran parte diplomati e/o laureati. Nel frattempo arrivano 500 mila immigrati di tutte le eta’, dal Sahara, dal Nord Africa, dal Sud est asiatico e dal sud america. Tutti praticamente privi di istruzione impegnati, quelli onesti, in attivita’ di assistenza agli anziani, a lavorare in aziende del nord senza futuro e ad operare nel mercato nero, low cost. A dire il vero un precedente a questa situazione c’e’ stato: nei primi anni ’60, con l’esodo dalle campagne del Sud, verso i centri industriali del Nord Italia e del Nord Europa. Ecco, quello che il Sud oggi lo sta diventando il Nord.

  3. alex

    Purtroppo i giovani come me neolaureati in economia e ventenni non trovano sbocchi neanche a fare gli operai al sud come al nord, orami dopo tante iscrizioni presso agenzie del "lavoro", concorsi, selezioni, ecc. ecc. mi sono reso conto che anche per fare due mesi di lavoro ci vuole la raccomandazione. Padoa schioppa si dovrebbe vergognare per la battutaccia fatta ma come si può uscire di casa se non abbiamo un lavoro neanche part-time, gli affitti alle stelle, ecc. ecc. la verità e che si è perso il senso della misura e forse una rivoluzione entro 5 max 10 anni sconvolgerà il paese se non si daranno risposte serie ai giovani.

  4. Alberto Musy

    Il merito, in primo luogo il merito, non l’età, si afferma con vigore su alcune pagine di noti quotidiani economici. È vero: solo merito dev’essere per misurare le persone. Peccato che non sia indifferente il sostrato culturale dei selezionatori. Facciamo il caso dei giuristi italiani: un gruppo sociale arroccato su docenti, avvocati e giudici tra i 65 ed i 75 anni valuterà — salve le dovute eccezioni — i propri successori sulla conoscenza dell’impianto dogmatico dell’ordinamento, sulla conoscenza del diritto nazionale, sulla capacità di interpretare le norme codicistiche alla luce della Costituzione Repubblicana. Peccato che nel mondo la scientia juris sia da trent’anni ispirata dall’analisi economica del diritto, che gli schemi dogmatici siano messi in crisi dall’esplosione delle fonti autoritative e che il modello nazionale sia ormai condizionato da quello europeo e, in alcune materie, da quello globalizzato di impronta americana.
    Il paradosso è che molti tromboni di oggi, avvinghiati alle poltrone, ai ruoli, alle proprie idee sono quelli che nel ’68 volevano cacciare i «baroni» e che, in nome del cambiamento a tutti i costi, hanno innescato una delle più roventi critiche al «sistema». È ora che si accorgano che il tempo è passato anche per loro, incapaci della generosità dei loro padri, invidiosi e sospettosi dei loro figli. I bamboccioni non chiedono 80 euro al mese per diventare indipendenti, ma di avere spazio per lavorare, disposti pure a pagare ricche pensioni.

  5. Calisio

    Il problema va affrontato con maggiore compiutezza. Tanto per cominciare "meritocrazia" è un termine vuoto se non si precisa cosa si intende per "merito", ossia quali siano i valori messi in testa alla classifica che serve a fare la valutazione. Se sono quelli di fedeltà al sistema, il discorso è chiuso in partenza. Se sono quelli di conoscenza ed esperienza, non sono favorevoli ai più giovani. Se sono quelli di accettare di lavorare senza limiti di orario, di essere sottopagati e non preoccuparsi di quanti mesi ancora durerà il lavoro prima di essere di nuovo disoccupati, sono favoriti i "bamboccioni", che non possono nemmeno permettersi di pensare a farsi una famiglia. La questione generazionale peraltro non si risolve ope legis. Sarebbe un’ennesima forzatura del mercato -del lavoro – fatta comunque sulla base di teorie tutte da dimostrare e contestabilissime, da una parte o dall’altra. Va piuttosto imposto il principio che vogliamo creare una Società nella quale vi sia modo di vivere onorevolmente per tutti, e discusso su quali siano le condizioni favorevoli per puntare a quest’obbiettivo e quali i vincoli che impediscono il miglioramento. Direi che le condizioni favorevoli per tutti possano essere generate da una crescita della cultura della responsabilità sociale d’impresa (quella vera, non quella dei bilanci sociali uso marketing o delle certificazioni SA 8000), della cultura dell’investimento al posto di quella della speculazione e della cultura della crescita personale al posto di quella del parassitismo. I vincoli, viceversa, mi pare siano quelli che premiano l’appartenenza e mortificano l’intelligenza, che manipolano i concetti di flessibilità e formazione continua a svantaggio di coloro che vengono flessibilizzati e de-formati, che dividono il Paese in caste, sempre più separate ed impervie, per cui chi nasce nella casta inferiore non ha speranza di riscatto, che parlando di inalienabilità dei diritti acquisiti perpetuano il godimento di benefici insostenibili, a vantaggio della generazione che se li è a suo tempo attribuiti, sbagliando (o truffando) sul calcolo della loro sostenibilità futura e pretendendo di farli pagare alle nuove generazioni che non potranno mai accedere a benefici nemmeno comparabili, chiedendo ai giovani "umiltà" invece di "ragionevolezza", perpetuando la logica dello scontro tra fazioni e dell’adesione ad un partito come caratteristica di concretezza…

  6. Duccio Ducci

    Mi pare che il punto centrale (ma forse non sempre abbastanza sottolineato) sia non tanto la promozione dei meritevoli a posizioni di vertice, quanto la rimozione da dette posizioni di chi ha dato cattiva (o mediocre) prova di sè.
    Infatti l’abbandono dei vertici da parte di chi non raggiunge determinati risultati (o non riesce a decidere in un’ottica di medio-lungo periodo) libera spazio per soggetti (più giovani, o anche di pari età) che si spera siano più capaci.
    In sintesi: tutti siamo assolutamente d’accordo sulla promozione in base al merito, si sente parlare meno (anche per l’obiettiva difficoltà delle soluzioni) dei metodi da applicare per misurare i risultati e, soprattutto, delle conseguenze che un sitema meritocratico deve necessariamente trarre nei confronti dei meno meritevoli.
    E’ vero, d’altra parte, che in un sistema realmente meritocratico la posizione dela grande maggioranza delle persone diventa inevitabilemente meno stabile e meno sicura.

  7. gianluca ricozzi

    Il problema è che sembra difficile approntare strumenti che siano in grado di risolvere il problema. Inoltre va detto che spesso il dibattito è incentrato solo sui giovani che hanno un contratto "precario", mentre spesso non si pensa ai milioni di giovani professionisti che pure, soprattutto nei primi anni di carriera, avrebbero bisogno di supporti fiscali e sociali.

  8. Massimiliano Manfredi

    Siamo un paese piuttosto strano con la preoccupante tendenza a glissare sulle contraddizioni . Abbiamo mutuato da prassi ormai desuete il principio che, almeno in molte aziende pubbliche o paratali, sopra i 50 ( ora alcuni ad parlano addirittura di 45 ) non sia possibile investire su crescita professionale . Si stenta a prendere atto di alcuni importanti fattori : –> l’elemento motivazionale anche a 50 anni ha un peso ed un ‘incidenza tutt’altro che irrilevante , –> se hai questa fatidica età sei troppo vecchio per migliorare e troppo giovane per la pensione . La conseguenza sarà che le pa avranno sul groppone il peso di migliaia di quadri demotivati che tireranno a campare in attesa del fatale trapasso –> il criterio dell’età ha indiscutibilmente un peso specifico ma un conto è applicarlo agli over 60 e oltre, un conto è applicarlo a gente che ha ancopra potenti stimoli e progetti –> stiamo ingenerando in alcune generazioni, al posto di aspettative di vita positive in crescita, al posto della capacità di rinnovare i progetti di vita in meglio, la sindrome da prepensionamento . Il paese non migliorerà con plotoni di gente psicologicamente demotivata ed indotta a ritenersi vecchia in anticipo sul reale tempo biologico . cordialmente

  9. Andrea

    Non che sia contrario a quanto sostenuto dall’autore, ma l’analogia con la questione femminile non convinve. Infatti, mentre le donne non diventano uomini, i giovani diventano anziani. Mi sembra, questo, un elemento centrale che caratterizza il nostro sistema come "il sistema delle file". I giovani si mettono in fila, nelle universita’ come nelle altre realta’ del paese, aspettando il proprio turno, che arriva con l’eta’. Questo crea un consenso al sistema che va ben oltre i simplici insiders (gli anziani) ma che cresce a livello individuale al crescere dell’eta’ indipendentemente dall’essere ancora insider o meno. Concordo che le "quote giovani" + merito potrebbero contribuire a scardinare questo sistema. Ma esiste il consenso per questo? Che ne pensano i 40enni in fila da 15-20 anni?

  10. Fabrizio Farnedi

    Concordo al 100% e aggiungo che per legge (come per le quote rosa ) il parlamento dovrebbe essere composto almeno al 20/25% di gente under 35/40! Non si fa e non si propone niente a tale proposito perchè ci sarebbe il reale rischio che venga fuori un leader che rivolta in positivo il nostro paese come un calzino andando ad attaccare quelle rendite occupate dai sessantenni e settantenni che tengono le redini del potere! Un esempio su tutti:Geronzi nel campo bancario, Mieli in quello editoriale.Una seria riforma di corporate governance e sull’editoria spazzerebbe via questo tipo di gente definitivamente!

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