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UN PATTO DA RINAZIONALIZZARE*

Anche dopo i cambiamenti introdotti nel 2005, il Patto di stabilità e crescita non costituisce la giusta risposta alla necessità di imporre ai governi una disciplina di bilancio. Meglio sarebbe affidare a ogni stato membro l’incarico di mettere a punto un meccanismo efficace di controllo del deficit, che si fondi su un maggior potere del ministero delle Finanze, una procedura di preparazione del bilancio in due tempi, l’impossibilità per il Parlamento di modificare il saldo di bilancio e l’istituzione di un’alta commissione di esperti con compiti di controllo.

L’obiettivo del Patto di stabilità e crescita " la disciplina di bilancio – è lodevole, ma la sua realizzazione è alquanto discutibile. Dopo il disastro del 2003, che aveva provocato la sospensione del Patto, i cambiamenti introdotti nel 2005 hanno conferito in teoria maggior flessibilità, ma le modifiche sono state poi contraddette dall’approccio contabile e giuridico della Commissione.

Il Patto non è la risposta giusta

Il nuovo Patto prevede di tener conto delle "misure che contribuiscono ad aumentare il potenziale di crescita". Ed è proprio questo l’argomento addotto dalla Francia, per giustificare il rinvio dell’equilibrio di bilancio, rispetto agli impegni presi in precedenza dal governo Villepin. Il nuovo governo sostiene che sono in corso grandi riforme strutturali, che dovrebbero automaticamente tradursi in aumenti di crescita e di occupazione, ma la strategia del "do ut des" implica per il momento un appesantimento del bilancio dello Stato.
La Commissione, senza neanche tentare di valutare quali possano essere i risultati delle riforme, e quali i costi, si prepara ad ammonire la Francia, con il pretesto che un impegno è un impegno. Sostiene che gli impegni sottoscritti dal precedente governo devono essere rispettati, anche se allora non erano previste riforme.
In effetti, non è così ovvio che il Patto costituisca la giusta risposta alla necessità di disciplina di bilancio. E non è affatto certo che l’indisciplina di un paese comporti seri problemi per gli altri paesi membri, o perlomeno problemi tali da giustificare un meccanismo pesante come quello del Patto. Il fatto che esso sia stato accettato da tutti i paesi membri non ne dimostra per forza l’utilità, anche se la Commissione non cessa di ripeterlo, e purtroppo, con lei, anche molti nostri partner, rigidamente attaccati ai testi a suo tempo adottati.
Eppure si potrebbe far qualcosa di meglio del Patto. Si potrebbe combattere l’indisciplina di bilancio, un flagello che imperversa in molti paesi della zona euro, e allo stesso tempo rispettare la sovranità dei governi e dei parlamenti in materia, il che dopotutto è uno dei pilastri fondamentali della democrazia. La soluzione consiste quindi nel rinazionalizzare il Patto.

Un meccanismo nazionale per controllare il deficit

A tal scopo bisognerebbe affidare a ogni stato membro l’incarico di mettere a punto un efficace meccanismo di controllo del deficit. E si potrebbe contemporaneamente correggere un grosso difetto del Patto, la rigidità nel fissare i deficit annuali, ancorando il principio della disciplina a una strategia di riduzione del debito pubblico a medio termine.
Il meccanismo, che dovrebbe "andare a genio" all’Eurogruppo e alla Commissione, può assumere diverse forme, complementari tra loro, e prevede:
– L’attribuzione di maggior potere decisionale al ministero delle Finanze, che permetta di limitare le spese degli altri ministeri. Numerose ricerche sull’indisciplina di bilancio dimostrano infatti che essa è maggiore laddove i ministeri con portafoglio hanno maggior peso politico; il che del resto è abbastanza normale.
– Una procedura di preparazione del bilancio in due tempi: in un primo tempo il governo decide il saldo di bilancio su proposta del ministro delle Finanze, e in un secondo tempo si decidono entrate e uscite. Si tratta quindi di scegliere come ripartire la spesa nell’interesse generale, prima di dedicarsi a dipanare il groviglio di richieste dei singoli ministeri, sempre pronti ad aumentare le spese.
– Il divieto per il Parlamento di modificare il saldo di bilancio proposto dal governo, il che significa che ogni uscita aggiuntiva deve essere finanziata con una entrata di pari entità. Si tratta di un ottimo mezzo per calmierare le pretese, sempre imperiose, dei ministeri. In Francia, la legge-quadro sulle leggi finanziarie (Lolf) ha permesso qualche lieve miglioramento in questo campo, ma resta tuttavia ancora molta strada da percorrere.
– La creazione di un’alta commissione della politica finanziaria incaricata di tre compiti consultivi: 1) presentare al governo una valutazione pluriennale del debito pubblico, il che equivale a prevedere i deficit o i surplus di bilancio 2) esaminare il bilancio proposto dal governo, prima che venga approvato dal Parlamento; 3) sorvegliare nel corso dell’anno finanziario l’andamento del saldo di bilancio e, nel caso, proporre gli aggiustamenti necessari.
In effetti affidare a un gruppo di esperti l’incarico di riportare il debito pubblico entro limiti ragionevoli significa creare un gruppo di pressione impegnato a perseguire l’interesse pubblico, pur restando sensibile ad altre esigenze primarie, quali per esempio il finanziamento di riforme fondamentali. Alcuni paesi, come il Cile e la Svezia, hanno già istituito organismi simili. In una versione più ambiziosa, l’alta commissione potrebbe avere potere decisionale in materia di saldo di bilancio, senza tuttavia intervenire sul suo livello.
Il legame esistente tra bilancio e riforme era il fulcro della strategia di Lisbona, che è chiaramente fallita. No, l’Unione Europea non sarà nel 2010 "l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo". È un tipo di approccio che persegue obiettivi irraggiungibili e ricorda stranamente la pianificazione sovietica. Ha prodotto un meccanismo burocratico basato su rapporti nazionali quanto mai utopistici, una loro valutazione da parte della Commissione e una discussione al Consiglio europeo annuale, durante la quale ogni capo di stato o di governo fa finta di credere nella riuscita del meccanismo. Non potrebbe del resto essere altrimenti, dal momento che si tratta di politiche nazionali, che non sono di competenza della Unione Europea. L’idea che i governi fossero spinti ad attuare riforme per la pressione dei loro pari era chiaramente condannata in partenza.
Come è avvenuto con il Patto di stabilità, l’obiettivo è fondamentale, ma si è fallito sulla sua realizzazione. Invece di perseguire obiettivi irrealizzabili, è opportuno introdurre incentivi che invoglino i governi a destinare alle riforme i mezzi necessari. Tali mezzi possono comportare costi diretti (per esempio la ricerca e lo sviluppo o la formazione )oppure costi indiretti, vale a dire quel "do ut des" capace di smussare le reazioni ostili alle riforme. La revisione del Patto di stabilità lasciava intravedere una prospettiva del genere; l’esempio della Francia dimostra che non ha funzionato. La rinazionalizzazione del Patto rappresenterebbe un importante passo nella giusta direzione, se fosse però accompagnata dall’istituzione di una alta commissione della politica di bilancio, il cui mandato dovrebbe includere la valutazione del costo delle riforme.

*Testo francese disponibile su www.telos-eu.com. Traduzione di Daniela Crocco

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GLI STRANI MECCANISMI REDISTRIBUTIVI DELLA FINANZIARIA

  1. Santina Bertulessi

    Il patto di stabilità non è certo un meccanismo perfetto ma ha dato dei risultati discreti (le finanze pubbliche dell’UE e della zona euro sono migliorate (certo grazie alla crescita economica). Non trovo praticabile la strada di togliere sovranità ai Parlamenti in termini di bilancio, difficilmente accettabile le grandi democrazie europee. Si puo anche osservare con interesse la situazione di nuovi membri della UE (come la Polonia) che hanno reso incostituzionale il debito pubblico, ma di nuovo non mi pare una via praticabile politicamente. Ritengo invece che il Patto sarebbe più efficace se accompagnato a una procedura di bilancio comune/omogenea a tutti gli SM e con una comune tempistica, collegata ad un meccanismo di sorveglianza come quello del patto, dove, i due tempi indicati da Wyplosz potrebbero corrispondere prima a quello europeo e poi a quello nazionale.

  2. luca

    Sono daccordo solo col fatto che bisogna meglio adattare il patto di stabilità alle esigenza nazionali. Per quanto riguarda poi le regole, l’Italia ne aveva di chiare e funzionali, scialacquate nel tempo, fino a consentire tutto ed il contrario di tutto. La costituzione prevede che ogni spesa va coperta dalle entrate: ciò non avvenuto. La costituzione prevede che i finanziamenti non debbano pagare spese correnti: una regola non applicata. La Bassanini ha distribuito molte competenze, legislative e fiscali, alle regioni: sono servite a duplicare, triplicare etc.., la burocrazia ed i costi. Basterebbe applicare le regole e tutto il marasma diventerebbe ordine.

  3. Alessandro Sciamarelli

    Non mi convince la tesi di fondo. Si dice: L’obiettivo – la disciplina di bilancio – è lodevole, ma la sua realizzazione è alquanto discutibile. Non solo l’autore non cita un solo dato a sostegno di questa tesi, ma non si capisce bene in quale accezione, ovvero se il problema del PSC stia nella sua eccessiva durezza o, viceversa, nel suo lassismo e nella scarsa osservanza da parte di un ben noto gruppo di paesi "deficit-oriented" tra cui l’Italia. La mia modesta opinione, ma non sono il solo, propende per la seconda ipotesi. L’efficacia del PSC può essere, per gli economisti, valutata soltanto in relazione agli unici indicatori di finanza pubblica verificabili e convalidati da Eurostat. Mentre i cosiddetti "effetti delle riforme strutturali" sono per definizione di quantificazione piuttosto ardua; quanto può effettivamente essere imputato con oggettività econometrica, del tasso di crescita del Pil reale di un paese nell’arco di 5 o 10 anni alle "riforme" che un governo afferma di avere effettuato? Va da sé che si tratta di valutazioni estremamente discrezionali e che occorrerebbe non lasciare all’arbitrarietà di non meglio precisate "commissioni nazionali" di valutazione. Del resto, la Commissione europea esiste proprio per questo e credo si tratterebbe dell’ennesimo tentativo degli Stati membri di limitare il suo potere di controllo. Orbene, se consideriamo entrambe le ipotesi alternative (il patto non funziona perché: 1) troppo lassista; 2) troppo rigoroso con effetti negativi sulla crescita), in nessun caso il Patto sarebbe un fallimento. Da un lato, da quando il PSC è entrato in vigore (come protocollo annesso al Trattato di Amsterdam del 1997) non mi pare che la disciplina di bilancio dei paesi dell’area euro e dell’Ue 15 si sia particolarmente deteriorata e che il Patto non abbia funzionato, fatto salvo il periodo 2002-2005 che ha visto grandi paesi come Germania e Francia "sotto osservazione" per il deficit oltre il 2% del Pil (ma anche "sotto pressione" dopo un biennio di stagnazione molto serio). I progressi su deficit e debito sono lenti, ma costanti quasi ovunque. Dall’altro lato, non mi pare che il Patto abbia influenzato negativamente la crescita economica (questo è un argomento buono per i populisti di ogni colore), che tende a rallentare "strutturalmente" in Europa da ben prima che il Patto esistesse. Ricordo che nel 2003, allorché passò la riforma del PSC in una versione tutto sommato ancora "rigorista" rispetto alla proposta della presidenza italiana, che intendeva depotenziarlo del tutto, il nostro paese – guarda caso – stava proprio per essere iscritto alla poco onorevole procedura per deficit eccessivo. Lascio immaginare quali sarebbero le conseguenze per un paese come il nostro, in assenza del vincolo esterno e del potere sanzionatorio, ancorchè teorico, della commissione. (le sanzioni sono di natura politica in quanto comminate dal Consiglio Ue, non dalla Commissione cui spetta solo l’accertamento dei deficit eccessivi), derivanti da una sorta di procedura nazionale di "autocertificazione" (laddove questa ultima dovesse risentire di ulteriori pressioni politiche che da noi, si sa, non vanno mai escluse). Il limite del Patto, a mio avviso, non sta nella severità di natura sovranazionale derivante da un vincolo legato ai livello massimo di disavanzo cross-country, ma nel suo esatto contrario. Ciò non toglie che il Patto non sia esente da difetti, ma è una costruzione faticosa (come molte delle conquiste dell’Ue) che va difesa.

  4. postacchini

    Ritengo che il patto di stabilità sia la cosa più sbagliata per la crescita dell’Europa, ossia vietare ai singoli paesi indebitati la possibilità di fare investimenti pubblici in infrastrutture significa rallentare la crescita dell’Europa, quindi se non si trova un’armonia nei singoli paesi non è il patto di stabilità lo strumento necessario. Soluzioni alternative nel commento "L’Europa e Sarkozy"

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