Il mondo della previdenza professionale in Italia richiama sovente l’attenzione sulla tenuta del proprio sistema pensionistico. I requisiti per un buon sistema, sostenibilità finanziaria, equità e adeguatezza delle prestazioni, non possono dirsi raggiunti. C’è ancora molto da fare, in particolare sul primo punto.
Del requisito della sostenibilità finanziaria difettano le casse professionali privatizzate prima della riforma Dini (1), ancor più quegli enti che coniugano un finanziamento rischioso dal punto di vista demografico a pensioni poco eque sotto il profilo attuariale.
All’esame dello “storico” di variabili economiche strutturali [1] il grado di copertura della spesa per pensioni può apparire per talune categorie addirittura crescente. (2) Si dà il caso che forse non è tutto oro quello che luccica. Lo dimostrano due fattori : realtà previdenziali ancora molto giovani (buon rapporto iscritti/pensionati), a cui si aggiungono i risultati delle proiezioni attuariali (obbligatorie per legge) e di alcune analisi economiche mirate.
Ecco, quindi, che a meno di rendimenti patrimoniali nel tempo decisamente vantaggiosi o di modifiche in corso d’opera dell’architettura previdenziale, scarse diventano le probabilità che in futuro il grado di copertura della spesa pensionistica possa mantenersi superiore all’unità.

Un passato troppo recente

Appare strano – o forse no – che chi era tenuto a vigilare sulla stabilità finanziaria di questi enti ne abbia “nascosto” le fragilità strutturali dietro vincoli a maglie larghe. La riserva legale può limitarsi a coprire cinque annualità di pensione; invece per le proiezioni attuariali triennali basta una lettura dei successivi quindici anni.
Ma quindici anni sono un periodo troppo breve per riuscire a scuotere le fondamenta di argilla di alcune casse e sollecitare negli amministratori soluzioni più responsabili a favore delle categorie tutelate.
Ma non è mai troppo tardi: i ministeri vigilanti hanno di recente adottato una linea di maggior rigore, allungando le proiezioni e ancorandole a un periodo di tempo non inferiore a trent’anni. È il minimo ragionevole per chi deve mantenere promesse previdenziali con iscritti la cui carriera lavorativa difficilmente è inferiore a 30-35 anni. Siamo di fronte, vogliamo sperare, solo a un primo passo lungo questa direzione, perché nel compiere valutazioni sul futuro dei pensionati non è pensabile limitarsi a guardare appena oltre il palmo di naso.
Se il futuro delle casse non si prospetta particolarmente roseo, nonostante risultati gestionali di breve termine generalmente favorevoli, non è chiaro fino a che punto la norma che il legislatore ha partorito sia indirizzata a responsabilizzare le casse professionali di fronte ai propri aderenti. (3) A ben leggere, siamo di fronte a un compromesso politico che sminuisce in parte l’effetto riformatore. Un gioco delle parti, dove da un lato si estende il periodo delle proiezioni e dall’altro si riafferma e si rafforza l’autonomia normativa delle casse, premessa per riequilibrare il sistema spostando solo marginalmente la soglia di copertura.

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Un futuro che nessuno vuol vedere

Onestamente non capiamo a chi giovi rinviare di continuo il momento delle decisioni definitive. Per questo motivo, forse, oltre che per rendere concreta la spinta riformatrice di cui il legislatore avrebbe dovuto farsi carico, è intervenuto di recente il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale. Il Nucleo ha proposto vincoli ancora più stringenti in una soluzione che guardi concretamente al lungo periodo. Non a trent’anni di proiezioni, ma a cinquanta, secondo i tecnici del Welfare, dovrebbe corrispondere il periodo di previsione minimo per testare l’effettiva sostenibilità di un sistema pensionistico.
Quella del Nucleo non appare come una proposta rivoluzionaria: in altri paesi utilizzare previsioni a lunga gittata rappresenta la soluzione tecnica adeguata per effettuare scelte di policy vitali agli equilibri macroeconomici. Resta il fatto che l’azione del Nucleo ha amplificato per tutta risposta lo scetticismo (di facciata) nei confronti di previsioni “troppo” dilatate. Chi deve amministrare ne ritiene fuorvianti i risultati per l’elevato numero di variabili in gioco. Eppure, per quel che è dato vedere, l’instabilità del sistema di questi enti ha ormai raggiunto un codice di rischio elevato.
Con gli strumenti oggi a disposizione, è paradossale che continui a farsi strada l’idea che previsioni più lunghe restituiscano solo risultati più incerti.
L’intero ciclo di vita previdenziale di un individuo ha una durata notevole. Viene allora da chiedersi se cinquant’anni saranno solo un arco temporale raccomandato dal Nucleo o un vincolo assoluto da dover rispettare per rientrare nei parametri di stabilità. Aspettando una risposta ancora in embrione, quello che si desidera è una soluzione che abbia molto di tecnico e poco, ma davvero poco, di politico.

Sabina de Rocca

(1) Decreto legislativo n. 509/94.
(2) Il riferimento è alle statistiche del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale.
(3) Articolo 1, comma 763, legge 27 dicembre 2006, n. 298.

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