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TORNIAMO A DARE I NUMERI SULLA PRODUTTIVITA’

I dati confermano che l’attuale rallentamento, o recessione, non è solo un episodio congiunturale ma, almeno per l’Italia, è la continuazione di un trend negativo di crescita che ha cominciato a manifestarsi dalla metà degli anni Novanta. E nel tempo è cambiata la natura del processo di crescita dell’economia italiana. Dopo il 2000, l’incremento del Pil è trainato solo dall’aumento delle ore lavorate totali. La produttività mostra un andamento declinante nel biennio 2006-07. In contrasto con le molte illusioni sulla rinnovata capacità di innovare delle imprese italiane.

Con raro tempismo, in coincidenza con l’annuncio che l’economia italiana è in recessione, l’Istat pubblica ventiquattro tabelle che aggiornano le informazioni sulla crescita aggregata e settoriale dell’economia italiana fino al 2007. Alcuni dei dati più importanti sono riassunti nella tabella 1 riportata sotto.

La tabella riporta dati relativi a tre periodi particolarmente significativi nell’attuale congiuntura, per l’economia italiana e per l’industria in senso stretto. Nella prima colonna, si trovano i dati sulla crescita del Pil, delle ore lavorate, del Pil per ora lavorata per il 2006-07, un biennio in cui la congiuntura economica positiva aveva fatto ben sperare molti. Nelle colonne (2) e (3) sono invece riportati i dati medi per periodi di tempo più lunghi, in modo da confrontare l’andamento delle variabili depurando il più possibile dall’effetto delle oscillazioni cicliche. Ho quindi calcolato le medie prendendo come punti di inizio e di fine gli anni di picco massimo del ciclo economico: 1992, 2000 e 2007, anni che hanno preceduto le recessioni o almeno i rallentamenti significativi del 1993, del 2001 e del 2008. Le medie calcolate sono quindi almeno parzialmente depurate dall’andamento del ciclo economico.

CONFERME DAI DATI

I dati della tabella confermano alcuni fatti noti sulla crescita economica italiana. L’attuale rallentamento o recessione non è solo un episodio congiunturale ma, almeno per l’Italia, è la continuazione di un trend negativo di crescita che ha cominciato a manifestarsi con evidenza più o meno a partire dalla metà degli anni Novanta.
Nella tabella, i dati del 1992-2000 ci sembrano dati da età dell’oro: +2 per cento di crescita del Pil e della produttività. Ma sono in realtà numeri assai più bassi di quelli registrati in Italia nei decenni precedenti. In questa luce, la ripresa 2006-2007 appare come una “ripresina”: nel 2006-07, anni in cui probabilmente l’economia italiana ha fatto meglio della “sua” media, il Pil è infatti cresciuto come nell’intero periodo 1992-2000, periodo che include anche la recessione del 1993. Vuol dire che la crescita sostenibile di lungo periodo per l’economia italiana è oggi probabilmente non lontana dall’1 per cento annuo.
La tabella 1 ci indica anche che nel tempo è cambiata la natura del processo di crescita dell’economia italiana. Nel 1992-2000, la crescita del Pil era uguale alla crescita della produttività del lavoro (Pil per ora lavorata), a sua volta per due terzi indotta da una crescita della produttività totale dei fattori, cioè della rozza misura dell’efficienza che i macroeconomisti sono in grado di calcolare con i dati aggregati disponibili. Dopo il 2000, e anche nel 2006-2007, la crescita del Pil è invece solo trainata dalla crescita delle ore lavorate totali. Le leggi Treu e Biagi che hanno portato a una accresciuta flessibilità nel funzionamento del mercato del lavoro, hanno anche indotto un netto cambiamento rispetto al passato: in Italia si è cominciato a creare posti di lavoro, brutti o belli che siano, per categorie che una volta stavano sulla porta del mercato del lavoro e non ci entravano mai. Si può fare di più, ma almeno oggi ci entrano: non è un risultato disprezzabile.
Infine, piuttosto sorprendentemente, il dato sull’importanza esclusiva dell’andamento delle ore lavorate per la crescita del Pil vale anche per l’industria nel suo complesso. Tutto ciò è in contrasto con molte delle osservazioni sentite negli ultimi anni sulla rinnovata capacità di innovare delle imprese italiane nel biennio 2006-07. Se le imprese hanno ripreso a innovare, questo dovrebbe tradursi in buoni dati sull’andamento della produttività nel settore industriale. Invece, vediamo che la produttività mostra addirittura un andamento declinante nel biennio. O i dati Istat sono gravemente sbagliati oppure la buona o eccezionale performance di qualche impresa italiana ha in questi anni nascosto problemi di non poca entità per la maggioranza delle altre. In ogni caso, temi di grande rilevanza per la politica economica.

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18 commenti

  1. kinta

    Interessante questo articolo, soprattutto alla luce di quanto ho sentito dire da Tremonti stamattina. Sostanzialmente il ministro sostiene che la minor crescita italiana rispetto alla media europea degli ultimi anni sia dovuta al minore indebitamento delle famiglie italiane e che questo sia provato dal fatto che in questo momento di restrizione creditizia gli altri Paesi stanno avendo recessioni peggiori della nostra. Bisognerebbe che Tremonti leggesse i dati Istat! Dati dai quali sembra evidente che la bassa crescita italiana sia dovuta alla scarsa o nulla crescita della produttività. La misura presa dal governo di detassare gli straordinari e spacciata come misura in grado di aumentare la produttività (mentre in realtà aumenta solo le ore lavorate, cosa che come è evidente da questi dati non ci è certo mancata negli ultimi anni).

  2. T. Gennari

    A parte le tabelle appena pubblicate dall’Istat, e’ noto che i problemi dell’economia italiana sono tanti e di lungo periodo. Se il governo nazionale non fa nulla in questa direzione, sarebbe bene gli istituti di ricerca economica descrivessero all’opinione pubblica lo stato dell’economia italiana e cosa ci attende nei prossimi anni, e che magari le regioni si mettessero a fare quello che possono in questo campo. In attesa di poter votare per un governo con una chiara idea del futuro dell’Italia.

  3. Alessandro Sciamarelli

    Credo che questi numeri messi in fila dicano di più e meglio sullo stato "strutturale" dell’economia italiana di qualsiasi altra analisi. La produttività del lavoro (in termini di unità di PIL reale per occupato) stagnante o negativa non è certo una prerogativa degli ultimi 5 anni e nemmeno degli ultimi 10. Eppure, proprio per il suo carattere oramai endemico dovrebbe essere in cima alla lista dei temi dell’agenda politica. Invece sembra che non ne sia consapevole nessuno, a livello di dibattito pubblico. Finché non vi sarà un governo capace di prendere atto che questi numeri sono "il" problema, non ci sarà politica economica espansiva o prociclica che tenga. Sui motivi del perché la competitività del sistema industriale ed economico si sia così deteriorata nel corso dei decenni sono stati scritti ottimi articoli e libri; il problema è che si pensa a cancellare l’ICI ed altre (inique)inutilità del genere perché la priorità è il consenso di breve periodo. Ma di questo passo non ci aspettiamo tassi di crescita dell’economia decenti per i prossimi decenni, se va bene.

  4. Marisa Manzin

    Ogni volta che leggo un articolo sul tema produttività ho la netta sensazione che tutti evitino un’analisi approfondita dei motivi del calo della produttività in Italia, che tutti abbiano paura di dire che buona parte della responsabilità ricade sulle imprese. Infatti la produttività aumenta non perché l’operaio, come Charlie Chaplin in "Tempi moderni", avvita sempre più rapidamente i bulloni, ma razionalizzando il lavoro servendosi di mezzi e strumenti tecnologici per accelerare tutti i processi aziendali. Avendo un contatto molto stretto con il mondo economico di due grandi paesi UE, la Germania, dove vivo da moltissimi anni, e l’Italia da cui provengo, noto spesso un gap in tal senso. Le carenze maggiori sono individuabili a mio parere nel mancato impiego di strumenti informatici avanzati. Spesso le piccole aziende italiane utilizzano software inadeguati a permettere uno svolgimento pressoché automatico di molti processi aziendali. Dico "aziendali" e non "produttivi" perché a mio parere sono soprattutto le pratiche gestionali e amministrative ad essere troppo poco automatizzate in tante piccole imprese italiane. Sarebbe interessante svolgere un’analisi comprata in tal senso.

  5. piepar

    Si parla molto di premiare i dipendenti in rapporto all’incremento della produttività. Ma questo da chi dipende? Dal lavoratore che sgobba di più o dalla azienda che investe e innova? Esistono informazioni su quello che succede negli altri paesi? Quanto dall’uno e quanto dall’altro. E’ giusto condizionare l’incremento delle retribuzioni da fattori che dipendono solo in parte (minima?) da loro? Perchè di questo nessuno (sindacati, media, voi stessi) parla.

  6. Rosario Maria Ballatore

    Sono uno studente laureando in economia politica. Nel mio lavoro di tesi (ancora in corso) cerco di individuare nei forti e recenti flussi d’immigrazione verso i paesi dell’europa meridionale una delle cause del rallentamento della produttività. La mia idea è se i forti flussi immigratori abbiano in qualche modo avuto un effetto sull’utilizzo relativo dei fattori (ci si è spostati nell’isoquanto), spingendo ad un uso più intensivo del fattore lavoro. Mi chiedo se l’immigrazione abbia avuto un ruolo nell’aumento consistente dell’occupzione in Italia.

  7. alfie

    Sono completamente d’accordo con le sue conclusioni. Altri dati e la assidua frequentazione di riunioni di associazioni imprenditoriali mi portano a dire che diverse medie imprese hanno aumentato la produttività, mentre parecchie grandi e moltissime piccole la hanno diminuita. In particolare le piccole, che moltissimi incensano in Italia, sono tra le principali fonti di scarsa produttività e di elevata resistenza al cambiamento (particolrmente curioso per un imprenditore che dovrebbe essere "schumpeteriano" per antonomasia).

  8. Paolo Beghelli

    Mi sembra che da questi dati molti imprenditori debbano ristudiarsi Adam Smith laddove spiega che la produttività del lavoro attraverso una migliore organizzazione e un maggiore investimento efficiente delle risorse genera una crescita economica. Semplicemente mi sembra che in questi anni, come mostrano le tabelle, la leva competitiva italiana si sia semplicemente basata sull’utilizzo della forza lavoro a basso costo (politica di flessibilità salariale) a scapito di una vera politica di innovazione di processi e di prodotti che sicuramente è più ardua ma garantisce nel tempo un successo maggiore. Oggi ne paghiamo le conseguenze, speriamo in un ravvedimento!

  9. Federico Corno

    Lei conclude affermando, a proposito della presunta -ma non riscontrata nei dati macro- capacità di innovare del sistema Paese, che "O i dati Istat sono gravemente sbagliati oppure la buona o eccezionale performance di qualche impresa italiana ha in questi anni nascosto problemi di non poca entità per la maggioranza delle altre". Una integrazione, tutta da verificare, a tale conclusione è che sì alcune imprese hanno saputo innovare e che il loro numero, in valore assoluto, non è poi così limitato. Quello che determina un dato aggregato sulla produttività così poco promettente potrebbe invece essere il fatto che imprese innovatrice siano soprattutto, o soltanto, quelle di medio-piccole dimensioni (più flessibili ma anche con fatturati che incidono in misura minore sui dati macro). E ancora, che quelle di dimensioni medio-grandi o non siano state in grado di innovare o piuttosto i processi di rinnovamento sia in ritardo a causa proprio delle loro dimensioni. Tema molto interessante, con l’analisi di altri dati si potrebbe sviscerare meglio la questione!

  10. Andrea Marras

    Se è vero che sono aumentate le ore questo significa che passiamo più tempo a lavorare, ma siamo ugualmente poco produttivi. Vengono confermate le tesi di chi sostiene che le nostre imprese poco hanno innovato e che la corsa e’ stata fatta sul contenimento del costo di lavoro di cui l’aumento dell’orario diventa a questo punto uno degli strumenti decisivi. Vi ricordate quando negli anni 80 ci dicevano che avremo lavorato sempre di meno e avremo avuto tanto tempo libero e tanti soldi disponibili. quanto alle riforme Treu e Biagi sarà anche vero che hanno permesso a molti di entrare nel mondo del lavoro. Ma come sono entrati , stanno anche uscendo grazie per l’attenzione. è sempre un piacere leggervi.

  11. ia

    Le imprese italiane non sono organizzazioni non profit o benefiche. Come ogni intra-presa economica prendono sempre le decisioni più convenienti. Legate dalla legge della domanda/offerta. Offrendo lavoratori a basso costo non sono state "obbligate" dal mercato a innovare. Sono andate avanti anche abbassando la produttività, semplicemente abbassando il costo del salario. Se i salari non avessero perso la loro forza effettiva di contrattazione le imprese avrebbero dovuto cercare altrove i fattori della redditività: ossia nell’innovazione e nella riorganizzazione (tradotto nei fattori di produttività). Ossia si sarebbero "evolute" per massimizzare i fattori di forza lavoro. Purtroppo l’ideologia del "Io non cambio" ha vinto in Italia. Non così avviene nei paesi dove la produttività è più elevata. Hanno riorganizzato le persone e la gestione del potere in azienda (di conseguenza le relazioni organiche di lavoro).

  12. Franco Vannozzi

    L’economia si sviluppa in funzione delle opportunità, se vengono fatte leggi e accordi sindacali che abbassino molto il costo del lavoro è evidente che l’imprenditoria italiana sceglie di non investire in ricerca per produzioni di alto profilo, e di conseguenza nelle innovazioni tecnologiche necessarie che ne aumentino anche la produttività. Vorrei ricordare a tutti che in Francia è stato sufficiente che venisse approvata la legge mai applicata sulle 35 ore che avrebbe aumentato notevolmente il costo del lavoro, per far si che il sistema industriale innovasse la propria produzione e tecnologia. Oggi se confrontiamo le tabelle sulla produttività possiamo vedere che la Francia è al 1° posto in questa speciale classifica

  13. Italo Nobile

    Secondo Emiliano Brancaccio non c’è correlazione tra flessibilità e diminuzione della disoccupazione http://pensatoio.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=1782607

  14. Marco Solferini

    Questo “sostegno”, termine architettonico prestato ora ai consumi e domani alla produttività, di cui tanto si legge e forse troppo si scrive, mi sembra arzigogolato, arruffato, come se fuoriuscisse dopo una frettolosa colluttazione di idee, arrovellate e contorte. Vogliamo adesso “aiutare” il malato dopo che lo si è condotto in fin di vita? E dov’era questa illuminata ragione fino a qualche anno fa? Certo le colpe del passato vengono sempre da lontano e non risolvono la situazione presente, ma come si può non contestualizzare questa paura dei nostri Governanti nell’Olimpo del Parlamento, di veder dilagare la peste della povertà, perché è di questo che si tratta. Il timore e nel contempo l’orrore di trasformare i figli del benessere avari eredi di 60 anni di pace, in poveri straccioni, senza lavoro, senza certezze. I numeri non mentono, che ci raccontino i poeti della comunicazione i loro “vattelappesca”; non importa, perché troppe parole stanno affamando il Popolo. E si sa che la pazienza non è una virtù di chi soffre l’indigenza. Una volta si diceva, nel motto popolare: “troppa miseria, Governo ladro!” ma erano solo contadini ignoranti, chiedo cosa diranno oggi i laureati?

  15. italoa

    Se il lavoratore flessibile costa "meno" di un lavoratore stabile all’azienda, perchè l’azienda dovrebbe "selezionare i migliori" ? Se posso risparmiare sulle "persone" perchè devo "investire" sulle tecnologie e sulle "riorganizzazioni relazionali in azienda"? Se posso "cambiare" con estrema facilità i miei dipendenti, perchè dovrei investire su di loro? — Allora risparmio e gioco in difesa, limitando i costi e massimizzando le rendite.. Nessun investimento e bassa produttività.

  16. Enio Minervini

    Trovo di estremo interesse i dati riportati anche se in fondo non fanno altro che confermare una tendenza evidente perfino "a naso" e quindi indipendentemente dalla conoscenza esatta dei dati: l’industria italiana ha smesso di innovare da tempo, ha costruito i profitti grazie alla mortificazione delle retribuzioni e grazie alla possibilità di usare senza alcuna garanzia vitale i lavoratori. Non si capisce pertanto perchè l’autore, meritevole per i dati che divulga, non individui il collegamento evidente tra incapacità (e mancanza di volontà) delle imprese a innovare e una legislazione che consente di pagare poco e male i dipendenti e di creare profitti "senza qualità". Da contestare decisamente l’idea che le leggi Treu e Biagi abbiano avuto effetti positivi sulle basse qualifiche che altrimenti non avrebbero mai potuto lavorare. Queste leggi hanno avuto un effetto dirompente a tutti i livelli di professionalità e conoscenza (anche tra i laureati) ed hanno impedito che il sistema produttivo si strutturasse attorno alla valorizzazione del sapere invece che attorno alle opportunità dell’ "usa e getta". Due leggi tossiche, insomma.

  17. Maurizio

    Non capisco per quale ragione le micro/piccole imprese dovrebbero innovare, investire forse grazie all’esasperata pressione fiscale e di adempimenti fatta di studi di settore, ICI, IRAP, CCIAA, INAIL, INPS TARSU, PUBBLICITA, TOSAP, IRES, Irpef addisionali comunali provinciali regionale, tassa di concessione governative, diritti e contributi unificati e non so quanti altri adempimenti? O forse collaborando con le università e centri di ricerca in cui i figli o i nipoti hanno fatto fior di studi e pubblicazioni come abbiamo visto ad Annozero? O forse ancora per la celerità con cui la PA paga, da i permessi e autorizzazioni che spettano di diritto? La micro impresa di 5 6 dipendenti dove uno o due sono dedicati a seguire le sovercherie di una PA corrotta ed inefficente dove trova le risorse per investire? Forse qualcuno pensa che l’imprenditore dovrebbe tagliarsi lo stipendio ? Lavorare di più per essere pagato di meno pe rinnalzare la produttività? Proponiamelo chiaramente

  18. Matteo Gubitta

    Egr. professore, può spiegarci come fa a sostenere la tesi per cui le aziende italiane non hanno innovato negli ultimi 3 anni? Il fatto che il numero di ore totali dell’economia sia aumentato significa che la produzione è aumentate. Non le viene il dubbio che la produzione (come monte ore) sia aumentata anche a causa del successo dei prodotti italiani e della rinnovata capacità di soddisfare le domanda mondiale? Le ricordo che le esportazioni più consistenti e che sono aumentate di più sono quelle di Macchinari. Le imprese italiane non sarebbero riuscite ad aumentare le esportazioni di macchinari se non avessero innovato, quindi è ragionevole pensare che l’abbiano fatto. Reputo che sostenere che "le imprese italiane non hanno innovato" solo perchè la produttività totale non è aumentata sia un errore.

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