Come può tornare a crescere un paese vecchio, ricco, densamente popolato e con un sistema industriale fondato sulla piccola impresa? Lo spiega Francesco Daveri, intervistato da Sergio Levi, nel nuovo libro della serie de lavoce.info in collaborazione con Il Mulino: “Crescere si può”. Ne pubblichiamo un estratto. 

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(…) Qual è il motivo principale per cui abbiamo smesso di crescere, e per cui (plausibilmente) non potremo più tornare a crescere come in passato?

Con una formula sintetica, si può dire che abbiamo smesso di crescere da quando siamo diventati un paese VERDE, vale a dire, un paese VEcchio, Ricco e DEnsamente popolato. Siamo vecchi perché già oggi 20 italiani su 100 hanno più di 64 anni; una quota così alta di persone anziane la si trova tra i paesi ricchi solo in Giappone. In un paese vecchio si formano maggioranze politiche contrarie al cambiamento e all’innovazione: e senza innovazione non c’è crescita. In secondo luogo, siamo molto più ricchi di una volta: il nostro reddito pro-capite è circa il doppio di mezzo secolo fa. E in un paese con la pancia piena diminuisce la voglia d’inventarsi (o cercarsi) un lavoro dove c’è, mentre cresce l’aspirazione a trovarselo sotto casa. (…) Infine, con i nostri 206 abitanti per chilometro quadrato, siamo anche un paese molto più densamente popolato rispetto agli altri paesi ricchi dell’Ocse che di abitanti per chilometro quadrato ne hanno solo 35. (…) In un paese densamente popolato aprire un negozio o una fabbrica e realizzare un’infrastruttura diventa terribilmente complicato e costoso. E con alti costi di produzione e commercializzazione dei prodotti si fa fatica a competere nel mondo globale.

Ma se i limiti che fanno di noi un paese VERDE non si lasciano scalfire, perché non cercare di sostenere la crescita riducendo le tasse o aumentando la spesa pubblica? In altre parole, perché non dare ascolto a quanti invocano un provvisorio allentamento dell’austerità, almeno finché dura la crisi?

Penso che la via fiscale sia una strada pericolosa, e soprattutto senza sbocchi, perché presuppone una crescita hard che all’Italia, paese VERDE, ormai è preclusa. Inoltre, noi italiani siamo abituati da troppo tempo a convivere con un debito pubblico enorme; e allora penso, se anche il governo ci desse uno stipendio mensile a titolo gratuito, ognuno di noi sarebbe portato a chiedersi: e domani cosa succede? Questi soldi che lo Stato mi regala, in che senso me li sta regalando? Poniamo che ognuno di noi riceva dallo stato mille euro al mese per un anno. Chiediamoci che uso potrebbe farne. Difficile che vada a spenderli, sapendo che sono solo per un anno, e che stanno dando a tutti la stessa cifra. Se penso che i soldi che ricevo oggi li devo ridare all’Agenzia delle Entrate domani, allora invece di spenderli, li risparmio. Ma risparmiarli significa metterli in banca: in questo caso, il governo, erogando quei soldi, starebbe facendo un favore alle banche e, solo indirettamente, alle imprese. (…)

Quindi, in un paese VERDE come il nostro la strada di una crescita estensiva basata sulle opere pubbliche è sbarrata. Se neanche lo stato può aprire una via fiscale alla crescita, riducendo le tasse o aumentando la spesa, non ci rimane che usare meglio le risorse a disposizione. Ma allora è vero che le liberalizzazioni sono di cruciale importanza; molto meno chiaro è come si suppone che debbano funzionare.

Le liberalizzazioni servono, di solito, a favorire l’imprenditorialità, facilitando l’ingresso di attori che hanno qualcosa di nuovo da apportare nei vari settori. Sono il veicolo principale dell’innovazione. Però, se devono far crescere l’economia, bisogna che siano fatte in modo da rendere le imprese più competitive, soprattutto quelle che esportano. In questo contesto (detto fra parentesi) propongo di guardare all’Italia come a un grande paese industriale, perché lo considero ancora un buon paradigma. Anche se arranca da diversi anni, la nostra industria rappresenta ancora il 19 per cento del nostro Pil, mentre in Inghilterra rappresenta solo il 16 per cento, e in Francia il 12 per cento. Non siamo come i tedeschi, che sono al 26 per cento, ma non siamo neanche messi così male da questo punto di vista. Ebbene, per cercare di fare crescere l’industria italiana c’è una cosa che bisogna tassativamente fare, ed è cercare di fare in modo che i servizi di cui l’industria ha bisogno costino meno. (…)

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È stato detto che le liberalizzazioni di Monti non hanno funzionato perché sono state pensate dal punto di vista dell’offerta dei servizi, anziché dal punto di vista dell’utente.

È così. E aggiungerei che anche in quei casi in cui guardavano ai consumatori, hanno ottenuto poco. Aumentare il numero delle farmacie, in che senso mi beneficia, se sono un consumatore di farmaci? Mi può dare un beneficio se i farmaci vengono a costare meno. Se aumentiamo il numero delle farmacie, ciò che si riduce nel migliore dei casi è il costo di andare in farmacia, perché ci metto meno tempo, ho un vantaggio di prossimità. Però bisognerebbe chiedere agli anziani se preferiscano fare 300 o 500 metri in più per andare a prendere il farmaco nel paese vicino e pagarlo meno; oppure pagarlo come prima (perché i farmaci di fascia C non vanno nelle parafarmacie) ma fare meno strada. (…)

Pare di capire che dalle liberalizzazioni avviate dal governo Monti non potremo aspettarci molto in termini di ripartenza dell’economia e di crescita del Pil.

Il problema, secondo me, è che queste misure sono state applicate in modo un po’ astratto. Io sono molto favorevole alle liberalizzazioni, ma non perché facciano crescere subito l’economia; per quello ci vorrà del tempo. In generale, le liberalizzazioni, la riduzione delle barriere all’entrata al fare impresa e innovazione, fanno aumentare la concorrenza e la libertà, e maggiore concorrenza e libertà di fare rendono la società più aperta e meno esposta al ricatto delle corporazioni che infestano l’Italia. Però, per fare in modo che le liberalizzazioni diano qualche risultato in termini di crescita, bisogna guardare il paniere dei prezzi al consumo delle famiglie, per capire quali voci sono più importanti o sono cresciute di più; e su queste si può intervenire in varie forme, in parte dirigistiche, in parte liberali, per ottenere risultati concreti. (…)

(…) Sembra di capire che solo «restando in Europa» e solo contribuendo a far crescere l’Europa potremo tornare a crescere in Italia.

È così. Mentre la crescita soft (quella delle idee) è più adatta a noi italiani, che – come sempre si dice – siamo genio e sregolatezza, la crescita hard può andare bene per i tedeschi e i cinesi: conviene lasciarla a loro. Quel che possiamo sperare è che la crescita hard che la Germania e i suoi satelliti portano avanti in Europa possa trainare anche la nostra crescita soft, nello stesso modo in cui le aziende emiliane e venete della meccatronica sono trainate dal boom delle vendite cinesi della Bmw e della Volkswagen.

Ma se l’Europa si sta frammentando sul piano industriale, i benefici di una maggiore integrazione europea non finiranno per aggiudicarseli i paesi del blocco tedesco?

La risposta è in due parti. In primo luogo, dipende da cosa intendiamo con «integrazione». Ci sono settori in cui anche noi possiamo portare a casa qualcosa. Per esempio, se in Italia decidiamo che siamo il parco divertimenti d’Europa, la cosa potrebbe dare buoni risultati. Il nostro scopo diventerebbe costruire eliporti e altre infrastrutture che attirino turisti, i quali arriverebbero dall’America, dalla Russia, dal Qatar per fare i loro tour dei campi da golf e tornare a casa. (…) La seconda parte della risposta è che il «blocco tedesco» è forte in altri settori. E da questo punto di vista bisogna anche tenere conto dei mercati che possono aprirsi negli Stati Uniti: non credo che gli americani vorranno riempirsi di frigoriferi tedeschi. Ciò che piace agli americani è il made in Italy. Se pensiamo agli americani, quali sono i paesi d’Europa meglio posizionati di fronte all’ipotesi di una più ampia integrazione europea (ed eventualmente euro-americana)? Francia e Italia. Quali sono i paesi d’Europa che possono vantare un marchio paese? Francia e Italia; e forse anche Spagna. Noi italiani abbiamo l’alta moda, il design, il lusso e l’alimentare. (…)

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È per questo che ha cominciato a orientarsi sull’idea dell’integrazione euro-americana?

Sì, perché mi sembra il modo migliore per aumentare la dimensione della torta. E noi riusciamo a farlo se riusciamo ad andare in questi mercati che crescono molto, dove però è difficile «muoversi» per le piccole aziende italiane. C’è un numero interessante, che dice quanto è grande il Pil della Cina, dell’Europa e degli Usa. Se si guardano soltanto i tassi di crescita, si trae la conclusione che solo andando in Cina si possa crescere, perché la crescita della Cina è del 10 per cento l’anno. Però il Pil della Cina al momento è ancora molto inferiore al Pil degli Usa e dell’Europa. Quindi un 2 per cento di crescita in Europa e in America, genera più o meno lo stesso incremento che genera un 10 per cento in Cina: e ciò conferma che in realtà non è ancora così scontato che le aziende debbano per forza produrre in Cina, o vendere in Cina. (…) Bisogna dire che i dazi fra Europa e Usa sono già molto bassi, ed esiste un forte flusso di scambi. Pur essendo grandi aree economiche integrate al loro interno, e quindi relativamente chiuse al commercio con l’estero, Europa e Usa nel 2010 si scambiavano beni per 410 miliardi di dollari, con l’Ue che esportava in Usa beni per 240 miliardi di dollari e ne importava dall’America per 170. (…) In altre parole, esiste già un commercio di beni e prodotti abbastanza simili fra i paesi più ricchi d’Europa. Ebbene, potremmo fare lo stesso con gli Stati Uniti se ci fossero meno vincoli, e in particolare se ci fossero meno barriere non tariffarie. Ci sono grandi possibilità d’integrazione, che finora non sono state sfruttate. Le «barriere» da abbassare interessano vari settori, dalle assicurazioni ai servizi alle imprese, dal manifatturiero agli alimentari. Il senso di tutto questo è che possiamo (solo) vincere stando con i vincenti; anche se non siamo noi che trainiamo il carro in prima persona.

Francesco Daveri, Crescere si può, Il Mulino 2012
Intervista a cura di Sergio Levi

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