Il candidato Sarkozy aveva un programma di riforme finalizzate ad accrescere la flessibilità dell’economia francese, aumentarne il potenziale di sviluppo nel medio termine e avviare le finanze pubbliche sul cammino di una crescita sostenibile. Due anni dopo, gli obiettivi si sono ridimensionati e i costi sono molto più alti. Così, il bilancio è deludente: sforzo di rilancio minimo durante la crisi, riforme modeste e un debito pubblico che registra un aumento senza precedenti. Un’eredità pesante per i prossimi anni, anche perché alzare ancora le tasse non sarà semplice.

A due anni dall’avvio, il programma di riforme di Nicolas Sarkozy può riassumersi così: obiettivi meno ambiziosi del previsto a un costo molto più elevato. Che conseguenze ci saranno sulle finanze pubbliche?

TRA IL PROGRAMMA E L’AZIONE DEL PRESIDENTE

Il candidato Sarkozy aveva un programma di riforme classificabile in tre gruppi: quelle finalizzate ad accrescere la flessibilità dell’economia per renderla più dinamica; quelle finalizzate ad aumentare il potenziale di sviluppo dell’economia francese sul medio termine; e infine quelle che avrebbero dovuto avviare le finanze pubbliche sul cammino di una crescita sostenibile. Semplificando, si può classificare la riforma degli straordinari e quella della procedura di licenziamento tra i provvedimenti destinati ad accrescere la flessibilità dell’economia. Lo scudo fiscale rientra tra le misure volte a sostenere la crescita a medio termine: l’obiettivo era infatti quello di rendere il lavoro più vantaggioso, non pesando troppo sui redditi da lavoro dal punto di vista fiscale. La Legge di modernizzazione dell’economia (Lme), che aumenta la concorrenza dei prodotti sul mercato, mirava ad abbassare i prezzi e ad aumentare l’occupazione. Anche la riforma che doveva attribuire all’università una maggiore autonomia finanziaria rientra in questa categoria. E infine le tre riforme dovevano assicurare lo sviluppo sostenibile della finanza pubblica, pur preservando il modello francese: la riforma della sanità, quella delle pensioni e quella del pubblico impiego.

Ma queste grandi riforme che avrebbero dovuto assicurare la sostenibilità delle finanze statali sono invece state affrontate timidamente. La riforma sanitaria, discussa in piena crisi, ha qualche speranza di concludersi secondo accordi diminima, con effetti quasi nulli sul bilancio, proprio mentre l’Ocse valuta a 1,4 punti del Pil all’anno gli sforamenti di spesa della sanità nei prossimi anni. Nello stesso modo, la riforma delle pensioni privilegiate, che avrebbe dovuto far economizzare 3 miliardi di euro, finirà col produrre costi invece che risparmio (non esiste una valutazione ufficiale riguardante i risparmi che avrebbe dovuto innescare la riforma, ma Cahuc e Zylberberg – tra gli altri – presentano dati, in base ai quali la riforma finirà coll’essere onerosa). Quanto infine alla questione dei dipendenti pubblici, se ne parla poco: l’obiettivo era quello di non sostituire un funzionario su due allorquando fosse andato in pensione, ma l’intento risulta vanificato dal forte aumento di contratti agevolati, inseriti come palliativo alla disoccupazione crescente, a causa della crisi.
Queste modeste riforme sono, quindi, piuttosto onerose. Di conseguenza, lo sforamento dei conti pubblici è continuato già prima che si scatenasse la crisi mondiale. Quest’ultima ha fatto ulteriormente aumentare il deficit, ma non è stata una scelta di sostegno consapevole, keynesiana, nei confronti di una crisi peggiore di quella del 1993. Le cifre sono lampanti: nel budget 2008, il primo firmato dal governo Sarkozy, il deficit è passato dal 2,7 per cento del Pil nel 2007 al 3,4 per cento del 2008. Probabilmente supererà il 6 per cento nel 2009 per arrivare al 7 per cento nel 2010, ben al di là dei deficit generati dalla recessione del 1993. Il debito pubblico ha conosciuto un aumento senza precedenti, passando dal 63,8 per cento del Pil nel 2007 al 68,1 per cento nel 2008 e rischia di superare allegramente l’80 per cento nel 2010.
Certo, la crisi ha giocato la sua parte in tutto questo, ma è una parte modesta rispetto agli altri paesi dell’Ocse : tra il 2008 e il 2010 si registra una variazione di soli 4 punti del Pil in Francia, mentre nei paesi anglosassoni è più del doppio. Ciononostante, quando si uscirà dalla crisi, la Francia si ritroverà con un debito pubblico pari a quelli più alti dei paesi della zona euro (circa l’80per cento). Il debito pubblico francese sarà, a questo punto, elevato quanto quello di quei paesi che durante la recessione hanno fornito un importante sostegno all’economia reale e al settore bancario, come gli Stati Uniti, senza però che l’economia ne abbia potuto beneficiare. E l’esperienza dimostra che è difficilissimo neutralizzare gli aumenti del debito pubblico: durante la recessione del 1993, la Francia era passata da un debito pari al 35,2 per cento del Pil nel 1990 al 55,5 per cento del 1995, senza mai scendere.

IL DOPO-CRISI

All’uscita dalla crisi sarà pertanto urgente rimettere le finanze pubbliche sul cammino di uno sviluppo sostenibile, non tanto per timore di un debito troppo alto che gli investitori rifiuterebbero di acquistare o che non accetterebbero di finanziare se non a un costo troppo elevato, bensì perché un debito pubblico eccessivo paralizza l’azione della politica economica. In effetti, il sostegno all’attività economica in tempi di crisi ha un costo budgetario, così come lo hanno le riforme necessarie alla crescita economica a medio termine, ma le finanze francesi non hanno più margine di manovra. Da tutto ciò traiamo un bilancio generale: sforzo di rilancio minimo durante la crisi, riforme modeste, ma – malgrado tutto – debito gravoso all’uscita della crisi.
Il costo di riassestamento delle finanze pubbliche si annuncia pesante. Ipotizzando una crescita reale del 2 per cento, un tasso d’interesse reale del 2 per cento e un’inflazione al 2 per cento, bisognerà che – senza contare il debito – le finanze possano mantenere, per almeno dieci anni,  eccedenze primarie per più di due punti del Pil, il che equivale a buona parte del gettito proveniente dalle imposte sul reddito di famiglie e società, onde riportare il debito statale al 60 per cento del Pil. Ricordiamoci che, in questi ultimi dieci anni, lo Stato francese è sempre stato in deficit. E ricordiamoci anche che la Francia è al terzo posto in Europa per prelievo fiscale e che quindi non sarà così facile aumentare ulteriormente le tasse.

* Traduzione dal francese di Daniela Crocco

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