In meno di tre anni, la regola di passività nella disciplina dell’Opa è stata cambiata tre volte. Il governo ha infatti appena approvato un nuovo decreto legislativo che la reintroduce come norma generale. La scelta di oggi è più ragionevole di quella del 2008, quando la regola era stata abolita a seguito della crisi finanziaria e con la benedizione della Consob. Soprattutto perché si premia l’autonomia statutaria. Ma qual è il prezzo che si paga per un regolamentatore che appare ondivago e indeciso?

Nel disciplinare la regola di passività, ossia la norma che impedisce agli amministratori di società quotate sotto Opa di adottare misure difensive senza il consenso degli azionisti, il nostro legislatore sembra un indeciso fidanzato che ripetutamente abbraccia e respinge la propria promessa. In meno di tre anni, la regola di passività è stata cambiata tre volte. Nel novembre del 2007, recependo la direttiva europea sull’Opa, si prevedeva la passività del cda come norma imperativa e inderogabile. Nel novembre del 2008 il legislatore tornava sui suoi passi e dichiarava la sua non applicabilità, salvo che lo statuto della società espressamente optasse per tale regola. L’autunno porta evidentemente a ripensamenti e, pochi giorni fa, il governo ha approvato un nuovo decreto legislativo che reintroduce la regola di passività come norma generale, salva la possibilità delle società di escluderla statutariamente.
Quali le ragioni e gli effetti dell’ulteriore ripensamento?

LA (TEMPORANEA) ABOLIZIONE DELLA PASSIVITY RULE

La regola di passività serve a risolvere il conflitto di interessi nel quale si trovano gli amministratori di una società sottoposta a una scalata ostile. Potrebbero essere indotti ad adottare misure di difesa motivate non dall’obiettivo di massimizzare la ricchezza degli azionisti, bensì dal meno nobile fine di mantenere la propria poltrona. Nel fare ciò, peraltro, potrebbero distruggere risorse della società o degli azionisti in operazioni volte a ostacolare l’acquisto di azioni. Il legislatore europeo, seguendo l’esempio del Regno Unito, cerca di risolvere il conflitto alla radice, sottraendo agli amministratori la decisione circa l’adozione di misure di difesa e attribuendola all’assemblea dei soci, ossia ai soggetti maggiormente interessati all’esito della battaglia. A causa dell’opposizione di diversi paesi europei, timorosi che i propri campioni nazionali fossero così  esposti a sgraditi pretendenti stranieri, la direttiva sull’Opa prevede la passivity rule come semplice opzione.  
Il legislatore italiano aveva inizialmente adottato in via imperativa la regola. Poi, però, è arrivata la crisi finanziaria e i connessi ribassi dei corsi azionari. Di qui il timore che i barbari potessero valicare il limes e, approfittando di prezzi da saldi, facessero man bassa delle azioni delle nostre società quotate. Tra i più temuti, i famigerati fondi sovrani finanziati da governi nazionali, quali i fondi cinesi o quelli di alcuni paesi arabi. Con la benedizione della Consob, dunque, nel novembre del 2008 è stata improvvisamente abolita la passivity rule. Significava lasciare maggiore libertà agli amministratori per approvare misure di difesa, senza doverle sottoporre all’assemblea. Una modifica a protezione degli assetti di controllo esistenti dettata da esigenze contingenti.

UNA SCELTA CONTESTATA

Su questa scelta erano piovute numerose critiche. Da un lato, si osservava come la regola di passività dia voce agli azionisti in occasione di operazioni delicate e corrisponda, dunque, a un più alto grado di “democrazia azionaria”. Ma soprattutto si criticava l’eliminazione ope legis di un potere riservato ai soci. A favore dell’abolizione della regola di passività si argomentava che la maggior libertà degli amministratori, e dunque dei gruppi di controllo di cui sono espressione, di respingere scalatori indesiderati avrebbe avuto un effetto virtuoso sul mercato, eliminando la necessità, da parte delle società, di utilizzare strutture piramidali, patti di sindacato e altre note tecniche per bloccare il mercato del controllo. Singolare argomento: con una metafora, è un po’ come dire che è meglio lasciare il pollaio aperto, di modo che la volpe non ne danneggi la porta cercando di raggiungere le galline da spennare. 

LA NUOVA REGOLA: TANTO RUMORE PER NULLA?

La disciplina del settembre 2009 fa marcia indietro. Reintroduce la regola di passività, e quindi il necessario passaggio assembleare per l’approvazione di misure difensive, ma solo con decorrenza dal 1ºluglio 2010. Le società possono esercitare l’opt-out e confermare l’attuale libertà degli amministratori nell’utilizzo di tecniche anti-Opa.
La novità consente tre osservazioni.
La prima è se la transeunte abolizione della passivity rule fosse davvero necessaria. Si risponderà che “è passato il pericolo”: stiamo uscendo dalla crisi e dunque i prezzi di mercato si riallineano a valori ragionevoli, limitando il rischio di scalate. Questa risposta lascia però molto perplessi. Il legislatore dovrebbe fissare le regole come arbitro della partita, e il grado di contendibilità degli emittenti non dovrebbe variare al fluttuare dei prezzi di mercato, per quanto legato a circostanze particolari. È proprio quando i prezzi di mercato sono bassi, che gli scalatori intervengono consentendo agli azionisti di vendere le azioni a premio. Ciò rafforza la fiducia degli investitori nella borsa e può contribuire a ridurre il costo del capitale di rischio e aumentare la capitalizzazione delle società, un problema cronico in Italia. Altrimenti, il messaggio al mercato è che non appena è possibile qualche passaggio di controllo, l’arbitro toglie la palla alla squadra che potrebbe segnare un goal.
In secondo luogo, nel sistema italiano è assai dubbio che la passivity rule favorisca il mercato del controllo. Ciò per via della presenza di azionisti di controllo forti, facilmente in grado di approvare misure difensive nonostante l’opposizione della minoranza, e perché in Italia e in altri paesi di civil law la maggior parte delle più classiche misure difensive, quali emissione di nuove azioni, acquisto di azioni proprie, fusioni e scissioni, sono di competenza assembleare anche in assenza della regola di passività. Inoltre, in caso di scalata da parte dei tanto temuti fondi sovrani, la passivity rule non si sarebbe applicata comunque, a causa della mancanza di reciprocità.
Dunque, tanto rumore per nulla? Forse.
Una terza osservazione, infatti, è che la nuova disciplina offre un’occasione unica per testare se le società quotate italiane veramente temono scalate ostili. Se una buona parte di esse eserciterà l’opt-out, capiremo meglio se la passivity rule è osteggiata dai nostri gruppi imprenditoriali. La tormentata storia d’amore continua, e vedremo se la regola di passività riceverà l’anello di fidanzamento o sarà definitivamente ripudiata dal sistema capitalistico.
Dopo numerosi tentennamenti il legislatore sembra aver imboccato una strada più ragionevole di quella del 2008, con una tecnica normativa che premia l’autonomia statutaria, più in linea con le prassi europee. Restiamo però con la domanda se gli effetti di queste modifiche valessero davvero il prezzo che sempre si paga con la legislazione “d’occasione”. Il prezzo, cioè, di dare l’immagine di un regolamentatore ondivago e indeciso, per non dire opportunista. Con buona pace della certezza del diritto.

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