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CAMBIAMO IL PATTO DI STABILITÀ

Il Patto europeo di stabilità e crescita così com’è ha ormai esaurito il suo ruolo e il recente caso della Grecia ne è la prova. Come rinnovarlo per far sì che funzioni? Il tema è delicato. Soprattutto perché è nell’interesse dei paesi in crisi cavalcare il timore del contagio e della debolezza europea per ottenere di più. Ma una riforma è urgente, perché non è detto che si possa contare su una ripresa per ridurre i disavanzi. Ecco alcune proposte.

Con la crisi, il Patto di stabilità e crescita, così come si è evoluto dalla sua prima formulazione, ha evidentemente esaurito il suo ruolo. Qualche anno fa, i paesi grandi dell’Unione hanno reso chiaro che le sue regole si applicano in modo differente a seconda dell’identità di chi le viola. La Grecia ora dimostra che il principio di sorveglianza sui conti pubblici non è effettivo. La crisi fiscale che in misura differente mina la ripresa in molti paesi europei solleva problemi di coordinamento effettivo per la stabilità e la crescita sui quali il Patto ha poco da dire.
Per un Patto rinnovato che funzioni, sarebbe sufficiente guardare alla letteratura sulle fondamenta fiscali dell’euro e al dibattito degli ultimi giorni sul caso della Grecia. Dalla prima, vanno mutuati principi guida per la valutazione della sostenibilità del debito pubblico, indipendentemente da regole numeriche. Il dibattito sui problemi fiscali greci invece chiarisce la necessità di un accordo su quali strumenti (ex ante e ex post) debbano essere resi disponibili ai paesi europei e all’Unione europea nel suo complesso per affrontare crisi finanziarie di natura fiscale. Il Patto non può essere solo preventivo.
 
RIPENSARE IL PATTO
 
Punto primo. Esistono alcuni principi semplici che, a partire dal debito pubblico esistente e le aspettative sull’evoluzione dei conti pubblici, sulla crescita economica, sul tasso di interesse internazionale e sull’inflazione, permettono di stimare il disavanzo compatibile con la sostenibilità. Questi principi sono noti. Ad esempio, erano già sviluppati nel testo che Willem Buiter, Nouriel Roubini, e io avevamo scritto nel 1993 come critica all’approccio comunitario al rigore fiscale. (1) Allora quel testo era stato letto al contrario: si leggeva come il manifesto della flessibilità fiscale contro le regole. Niente di più sbagliato. Applicare quei principi nel corso degli anni avrebbe inasprito in molti casi i requisiti fiscali per la partecipazione nell’area dell’euro e non avrebbe permesso episodi di espansione eccessiva del disavanzo durante fasi di crescita economica. (2)
Riportare questi principi a vincoli numerici (3 per cento di deficit/Pil, 60 per cento di debito/Pil) non solo è inutile, ma anche dannoso, perché crea incentivi perversi alla cosmesi contabile (come ampiamente dimostrato nella storia dell’euro), e si traduce quasi per definizione in eccessiva e insufficiente gradualità nelle manovre di rientro (a meno di rendere i vincoli numerici di fatto completamente fittizi). Senza ripetere qui il contenuto dell’analisi di Sense and Nonsense (e dei numerosi articoli che sono seguiti), ripartire da principi economici più solidi è un passaggio obbligato.
Punto secondo. Le regole vanno scritte capendo esattamente perché il rigore fiscale di uno stato è materia di interesse comunitario. Come chiarito dal caso della Grecia, il problema è che la crisi fiscale di uno stato può tradursi in una crisi di fiducia per altri, secondo fenomeni (ben presenti nelle nostre analisi ma mai compresi totalmente) di contagio. Il problema è quindi come eliminare o ridurre il contagio.
Per capire come ripensare le regole, chiediamoci che cosa distingue la Grecia da altri paesi europei che potrebbero essere interessati dal contagio. La crisi ha creato problemi fiscali per tutti i paesi, ma con differente intensità. In alcuni casi (Irlanda) la reazione del governo è stata quasi pesante: la sostenibilità fiscale ha avuto priorità. In altri casi, i conti pubblici non sono necessariamente fuori controllo, ma la recessione e i problemi strutturali rendono il costo del consolidamento molto elevato (Spagna). La Grecia è il caso in cui la gravità della recessione si intreccia con un problema di controllo dei conti pubblici.
 
DUE PASSAGGI OBBLIGATI
 
Il primo e più importante: occorre che un paese in difficoltà definisca misure fiscali di taglio alla spesa e aumento dell’imposizione che garantiscano la sostenibilità del debito pubblico, riportando i conti sotto controllo. La costituzione europea non permette un trasferimento dei costi fiscali a carico dei contribuenti negli altri paesi. Infrangere questo principio in nome dell’emergenza creerebbe indubbiamente un precedente scomodo per il consenso degli europei all’integrazione.
Il secondo: il sentiero di rientro fiscale è vulnerabile a crisi di fiducia nei mercati, che renderebbero molto costoso o impossibile la gestione del debito in scadenza, con l’effetto di aumentare i costi del consolidamento. La Grecia, ad esempio, potrà avere (e con alta probabilità avrà) bisogno di sostegno finanziario a breve-medio termine.
Il Fondo monetario internazionale è stato creato esattamente per affrontare questo tipo di problemi. In caso di crisi, il Fondo eroga sostegno finanziario a tassi di mercato (ma senza richiedere il premio di rischio motivato dalla crisi di fiducia) a fronte di garanzie nella forma di un piano credibile di rientro fiscale (la cosiddetta condizionalità), con piena garanzia di recupero dei fondi prestati.
Se non si vuole che i paesi dell’area dell’euro si rivolgano al Fondo, uno schema analogo di sostegno finanziario e condizionalità va formalizzato all’interno delle istituzioni europee. Sarebbe singolare richiedere a un paese sovrano di entrare nell’area dell’euro accettando un handicap rispetto ai paesi fuori: da una parte deve contribuire al Fmi, dall’altra non può accedere all’assistenza del Fondo.
Si badi bene: niente di nuovo sotto il sole. Anche se pochi lo ricordano, gli accordi per il Sistema monetario europeo alla fine degli anni Settanta già prevedevano un Fondo monetario europeo (mai realizzato). Con la crisi della Grecia, è evidente che i problemi a cui il Patto deve dare una risposta non possono essere risolti con l’ideologia della prevenzione, ma con istituzioni dotate della credibilità e dell’autorevolezza che discendono dal perseguire strategie efficaci e realistiche.
Anche se la Spagna e il Portogallo sono in condizioni relativamente migliori della Grecia, il contagio può avvenire se i mercati si rendono conto che non esiste accordo politico ancorché istituzionale che dia garanzie di liquidità.
Se un paese europeo non può rivolgersi al Fmi, che cosa può sperare di ottenere dall’Europa? A quale istituzione si può rivolgere? Con quali regole e tempi? Il tema è delicato. Soprattutto perché è nell’interesse dei paesi in crisi cavalcare il timore del contagio e della debolezza europea per ottenere di più — ben oltre il sostegno finanziario, di fatto a scapito del principio del “no bail out” a fondamento dell’euro. Ed è anche urgente, perché non è affatto detto che si possa contare su una ripresa veloce e vigorosa per ridurre i disavanzi.
 
 
 
(1) “Sense and Nonsense in the Treaty of Maastricht”, Economic Policy 1993
(2) Simili principi e analisi sono state richiamati da moltissimi colleghi. Gli stessi principi sono riportati in due capitoli del Rapporto annuale sull’Economia europea a cura del EEAG del CESifo che verrà reso pubblico il 23.

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CINQUE DOMANDE PER IL DOPO-CRISI

  1. marco

    Bell’articolo. Centra perfettamente il punto. Che senso ha chiedere alla Grecia di tornare al 3% di deficit in 3 anni? Speriamo che i nostri governanti rinsaviscano, ma ci conto poco.

  2. renato foresto

    Del Trattato di Maastricht ricordo bene la sintesi che ne diede in quei giorni un giornale con una frase allora desueta poi dimenticata: "il Trattato avrebbe raffreddato la propensione alla spesa pubblica." Il parametro di controllo che seguì non riguardò il trend della spesa ma un suo surrogato, il rapporto di un rapporto, ossia il Deficit/Pil. Col senno di poi e mettendoci dentro anche la nota stroncatura del presidente Prodi possiamo dire che il parametro europeo era stato a pro dei governanti, ma a scapito dei governati. Per anni la variazione di un decimo aveva spazio in prima pagina accompagnata dalla raccomandazione del tagli della spesa, consiglio impopolare nel timore di un parallelo taglio dei servizi. Nel mondo comunale il controllo fu affidato al "deficit strutturale" con una serie di paletti per disciplinare le principali voci di spesa ma non il totale che occorso al loro funzionamento, l’unico valore rivelatore del grado di efficienza dei singoli Enti (a parità di servizi é più efficiente la spesa minore). Anche nell’ambito comunale i controlli sono posti per non controllare lasciando così via libera alla spesa per giungere la benessere promesso dal Contratto con gli Italiani. La spesa comunale é legata a filo doppio con il contributo dello Stato, c’é una costante a provare ovunque che chi riceve di più spende di più come se i nostri sindaci siano diventati Amministratori per delega, proprio come i Presidenti di Regione riguardo alla Sanità. Chi dotato di potere politico o mediatico ha mai fatto il conto delle ricadute del citato Contratto sulla spesa pubblica pagata dai cittadini a partire dal 2001 fino al 2008 ce lo dica finalmente e sapremo valutare con maggiore indulgenza l’odierno "Indietro tutta" del timoniere Tremonti.

  3. carlo

    E se dal cilindro degli "acuti governanti europei" venisse fuori l’idea di creare un Euro2? Cioè una seconda moneta valida per i cosiddetti "pigs"? D’altra parte l’euro è stato voluto e realizzato dai tedeschi per i loro interessi e non per quelli degli "europei".

  4. Kingpotter

    Il Patto di stabilità e crescita era stato istituito proprio con il fine di evitare spillover negativi all’ interno dei paesi dell’ area euro attraverso il contenimento del deficit e del debito pubblico. Tuttavia i dati confermano che, semmai, ve ne è stato un peggioramento. La Germania, tradizionalmente paese in persistente avanzo della bilancia dei pagamenti, ha da sempre adottato politiche monetarie restrittive (influenzando la condotta della Bce), ciò che, molto probabilmente, ha generato la stagnazione della domanda negli ultimi anni in Europa ed effetti depressivi sull’ occupazione. E’ un dato di fatto che l’ UE corra a tasso di crescita molto più contenuto che negli Usa e nei paesi asiatici. Inoltre, è risaputo che il miglior modo di ridurre il debito è tornare a crescere. Sorge dunque la necessità di cambiare i principali obiettivi macroeconomici, cercando di evitare l’ adozione di politiche antinflazionistiche perchè in una situazione di persistente disoccupazione sarebbe sciocco andarsi a preoccupare del tasso d’ inflazione. Come ebbe a dire Keynes, sarebbe doveroso utilizzare la politica anticiclica discrezionale per rilanciare l’ occupazione, e dunque il reddito.

  5. Andrea Marando

    Mi ricordo che il dibattito sull’utilità o meno del Patto di Stabilità e Crescita c’è da almeno 6-7 anni. Lo stesso feci una tesi sull’utilità o meno dei vincoli fiscali la quale venne criticata apertamente in sede di presentazione. Gli stessi economisti che ieri propendevano per la "rigidità" di questo patto ora propendono per la "flessibilità" di questo patto. E abbastanza curioso questo comportamento in cui gli economisti e governi si ricordano di alcune "teorie" solo in situazioni di forti crisi(vedasi a cominciare da fine 2008) o situazioni di default(come quello della Grecia). Allora qual è la soluzione? Riformulare un patto con nuove regole? Aumentare la flessibilità? Non sono un economista ma credo,come qualcuno e qualcosa sta insegnando già da molti anni, che se esiste un metodo forse dovrebbe essere un metodo che si ispira alla flessibilità e al continuo cambiamento del mercato e degli scenari mondiali economici e non basato sulla presunzione di pensare o vincolare delle politiche fiscali con degli "inutili" numeri. Volevo fare una domanda al Prof. Corsetti..dopo la Grecia qual’è il paese europeo che si deve maggiormente preoccupare per una simile situazione di default?

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