Il debito pubblico si differenzia da quello privato, per la mancanza di una procedura ben definita per punire uno stato che non ripaga i debiti. Le ripercussioni si pagano in termini di reputazione, commercio estero e accesso ai mercati internazionali. Ma sono effetti che durano pochi anni. Per la teoria economica la ristrutturazione del debito sembrerebbe meno costosa di quanto si pensi. Forse perché è stata sempre accompagnata a un deprezzamento del tasso di cambio. Cosa impossibile per la Grecia.
Il debito pubblico, soprattutto quello nei confronti di creditori esteri, si differenzia da quello privato, per la mancanza di una procedura ben definita per punire uno stato che non ripaga i suoi debiti: ciò è in parte dovuto al principio dell’immunità sovrana ma è anche legato al fatto che se i creditori non sono normalmente in grado di pignorare i beni che si trovano entro i confini del paese inadempiente. (1)
Dal momento che i contratti non sono così vincolanti da obbligare gli stati a saldare il loro debito, quale buon motivo potrebbe indurli a pagare quanto dovuto? Una ragione è rappresentata dal fatto che non pagare potrebbe comportare dei costi superiori al valore del debito. Ma quali sono questi costi?
Eaton e Gersovitz (2) furono i primi a dimostrare come, in determinate situazioni, la minaccia di esclusione permanente dal mercato finanziario costituisse un requisito sufficiente per creare incentivi per ripagare il debito. Altri autori hanno invece esaminato meccanismi attraverso i quali un default sul debito pubblico potrebbe avere ripercussioni negative sul commercio internazionale o sulla crescita economica.
MISURARE I COSTI DEL DEFAULT
Le nostre stime riguardanti gli effetti del default sulla reputazione, calcolate in un nostro recente articolo (3), dimostrano che i paesi che non ripagano i loro debiti soffrono in termini di accesso al credito internazionale e che gli episodi di default portano ad un aumento immediato del costo del debito di circa 400 punti base. Tuttavia, questo effetto tende ad essere di breve durata e a scomparire tra i tre ed i cinque anni dopo l’episodio di default.
I nostri risultati confermano che gli episodi di default sono associati ad un calo del commercio estero, ma non identificano il canale attraverso il quale il default ha un effetto sugli scambi commerciali. Come nel caso della reputazione, l’effetto tende ad essere di breve durata, ossia di due o tre anni (4).
Inoltre, esaminando l’effetto del default sulla crescita del PIL, osserviamo che, in media, gli episodi di default sono associati con una diminuzione della crescita di 2,5 punti percentuali nell’anno in cui i paesi sospendono i pagamenti sul debito. Non troviamo, tuttavia, un effetto significativo negli anni successivi. Infatti, l’analisi di dati trimestrali suggerisce che, in genere, la contrazione economica precede il default e che l’economia riprende a crescere nel trimestre successivo a quello del default (5).
QUANDO SI DEVE SMETTERE DI PAGARE?
I modelli economici tendono ad ipotizzare che gli amministratori pubblici non siano disposti al pagamento dei debiti anche quando in realtà si trovano nelle condizioni di poterli liquidare. In realtà, politici e burocrati, fanno spesso sforzi enormi per rinviare una ristrutturazione del debito che sembra essere inevitabile. Nel caso dell’Argentina, per esempio, i banchieri di Wall Street hanno dovuto convincere le autorità politiche ad accettare la realtà e avviare una ristrutturazione del debito (6).
Ci sono due possibili ragioni di questa riluttanza a gettare la spugna. La prima ha a che fare con il fatto che gli episodi di default sembrano avere elevati costi politici per la classe dirigente del paese debitore, sia in termini di risultati elettorali che di prestigio internazionale. La presenza di tali costi politici potrebbe portare a quello che in inglese viene definito "gamble for redemption": i politici si giocano il tutto per tutto per cercare di evitare un default, ma se le cose vanno male sono i cittadini a pagare il prezzo di questa scommessa.
La seconda ragione è riconducibile al tentativo, da parte dei politici, di rinviare la ristrutturazione del debito per assicurarsi che vi sia un ampio consenso riguardo al fatto che la decisione di non ripagare sia considerata inevitabile anziché strategica. Questo comportamento sarebbe in linea con il modello di Grossman e Van Huyck (7), in base al quale le ristrutturazioni del debito inevitabili hanno ripercussioni limitate in termine di perdita di reputazione, al contrario invece di quelle strategiche. Se questa interpretazione è corretta, rinviare la ristrutturazione del debito è equivalente a scegliere il minore dei due mali. In questo caso, un’istituzione super partes, in grado di sanzionare i paesi quando questi non possono evitare una ristrutturazione del debito, potrebbe svolgere un ruolo importante al fine di ridurre le inefficienze che si verificano quando i paesi non possono ripagare i propri debiti.
CHE DIRE DELLA GRECIA?
L’esperienza recente suggerisce che i costi economici del default non sono così elevati come molti pensano. Tuttavia, in tutte le ristrutturazioni del debito studiate nei nostri lavori empirici, la ripresa economica è stata aiutata da un deprezzamento del tasso di cambio. Poiché questa non sembra essere un’opzione attuabile per i paesi appartenenti alla zona euro (8), un default della Grecia potrebbe avere costi molto alti. Per questa ragione, ci auguriamo che il piano di salvataggio varato il 2 maggio possa funzionare, sperando dunque che la Grecia non debba entrare a far parte del nostro campione quando aggiorneremo i nostri lavori sui costi del default.
(1) Panizza, Ugo, Federico Sturzenegger, and Jeromin Zettelmeyer. 2009. "The Economics and Law of Sovereign Debt and Default." Journal of Economic Literature, 47: 651-98.
(2) Eaton, Jonathan, and Mark Gersovitz. 1981. "Debt with Potential Repudiation: Theoretical and Empirical Analysis." Review of Economic Studies, 48: 289-309.
(3) Borensztein, Eduardo and Ugo Panizza. 2009. "The Costs of Sovereign Default." IMF Staff Papers, Vol. 56: 683-741
(4) Borensztein, Eduardo and Ugo Panizza. 2010. "Do Sovereign Defaults Hurt Exporters?" Open Economies Review (forthcoming)
(5) Levy Yeyati, Eduardo and Ugo Panizza. 2010. "The Elusive Costs of Sovereign Default." Journal of Development Economics (forthcoming)
(6) Blustein, Paul. 2005. And the Money Kept Rolling In (and Out): Wall Street, the IMF, and the Bankrupting of Argentina, Public Affairs: New York
(7) Grossman, Herschel and John Van Huyck. 1988. "Sovereign Debt as a Contingent Claim: Excusable Default, Repudiation, and Reputation." American Economic Review, 78: 1088-1097.
(8) Eichengreen, Barry. 2007. The euro: love it or leave it? VOX EU, 17 November 2007.
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Massimo GIANNINI
Penso che ci sia un punto importante da sottolineare. Noi non stiamo realmente salvando la Grecia, ma quelle banche che hanno investito in titoli del debito sovrano greco con il presupposto errato che ci sono investimenti "troppo sicuro per fallire" (dunque il default sarebbe implicitamente escluso, anche se tassi di interesse più elevati dovrebbero pagare anche per questo rischio). In questo modo continuiamo la schema di Ponzi. Se il costo del default greco non è elevato, per la Grecia, vale la pena di considerarlo e ricominciare da capo. Non credo che il fatto che il paese non può deprezzare la sua moneta debba essere interpretato come un buon motivo e sufficiente per evitare il default. Lasciamo la Grecia andare in default ordinato eppoi si avvia l’emissione di obbligazioni dell’Unione europea e la tassazione delle transazioni finanziarie (compresi i titoli di stato e relativi swaps). Cosi’ si può ‘facilmente’ compensare qualsiasi piano di austerità e il costo del prestito contratto per la Grecia sarebbe largamente ridotto.
MUSSARI FERDINANDO
Nel sistema pre-europeo, i singoli stati emettevano debito e poi facevano leva sull’inflazione. Nello stato attuale non ci sono queste opportunità, perché i tassi sono definiti a livello centrale e gli stati sono obbligati a dover ripagare il debito senza forme diverse di azione fuorchè i tagli e i risparmi della spesa pubblica. A questo punto non è forse meglio far creare debito europeo con l’emissione di titoli al fine di poter agire nelle forme inflazionistiche dettate da una politica finanziaria comune?
bonzer
Nel momento in cui il debito è uguale al Pil per poterlo ripagare, il tasso di crescita di quest’ultimo deve essere maggiore di quello del debito altrimenti questo cresce all’infinito.La situazione odierna ci fa notare che la zona euro avrà una crescita nei prossimi anni attorno all’1% un valore non sufficiente per ripagare i debiti indipendentemente dal livello della pressione fiscale. Paesi come il nostro e la Grecia sarebbero costretti quindi a lavorare solo per ripagare questi interessi. Inoltre la Grecia, che ha ammesso di non potersi più rifinanziare nei mercati, a dichiarato praticamente defoult; un prestito non equivale a sprecar denaro? Secondo un paese come l’Italia caratterizzato da un sistema industriale flessibile e dinamico e un mercato molto appetibile per le imprese straniere non farebbe un affare a dichiarare bancarotta (ripagando solo i titoli detenuti dai cittadini italiani)? Tutto sommato ripartiremmo dopo cinque sei anni con un’industria competitiva a livello mondiale in vari settori come il tessile,prodotti di lusso ecc. E abbiamo comunque un sistema agricolo che ci permetterebbe di sopravvivere. E’ corretto? Se no perché? Grazie
PDC
Il modello di finanziamento tramite debito di uno stato funziona solo in presenza di una significativa crescita economica. Poiché tale crescita è ormai globalmente insostenibile (anche se può essere localmente sostenibile per tempi limitati) a lungo andare tutti gli stati sono destinati a raggiungere livelli di debito insopportabili. Una via di uscita sembrava essere quella di creare una forma illimitata di crescita finanziaria, ma ormai sembra chiaro che si tratta di un malsano vicolo cieco che crea enormi disuguaglianze, trasferisce il potere politico nelle mani delle super-banche ed è soggetto a crolli sistemici improvvisi. E allora, che fare?