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FONDAZIONI, È ORA DI CAMBIARE PELLE

La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti. Può però rappresentare una buona occasione per riforme che in tempi normali incontrerebbero molti ostacoli. Come nel caso delle fondazioni bancarie. Le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo nel welfare locale. Ed è un compito che sempre più saranno chiamate a svolgere. Conviene allora che continuino a mantenere l’intreccio, spesso assai costoso, con le banche?

La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti, ma come tutte le crisi che si rispettino può rappresentare anche una buona lezione per spingere verso riforme e cambiamentiche in tempi normali nessuno, anche per proteggere comodi e consolidati interessi, ha il coraggio di affrontare.

UN NUOVO WELFARE

A prescindere dagli esiti della raffazzonata manovra, una cosa è certa: il nostro sistema di welfare soprattutto sul terreno dei servizi locali è destinato a una cura dimagrante fino a qualche tempo fa inimmaginabile. Ed è una cura che farà stringere la cinghia a chi ha meno soldi e cioè ai principali utenti di quei servizi.
Sono cose fin troppo note, ma le previsioni diventano più fosche se si pensa a un pilastro fondamentale del welfare locale: le fondazioni bancarie. Finora, le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo. Nell’ultimo rapporto da poco pubblicato dall’associazione di categoria, l’Acri, risulta che nel 2010 gli stanziamenti nel campo dell’assistenza sociale sono aumentati di ben il 24 per cento, la variazione in assoluto più significativa tra tutti i settori di intervento. (1)

GOVERNANCE E TRASPARENZA

Il sistema delle fondazioni è consapevole della situazione e da tempo si chiede come coniugare il radicamento territoriale con lo sviluppo di un welfare incardinato su un virtuoso intreccio tra pubblico e privato, intreccio cruciale per consentire il mantenimento e la sopravvivenza di un livello accettabile di servizi.
Le fondazioni dovranno innanzitutto rivedere i propri sistemi di governance: il contemporaneo aumento dei vincoli finanziari e delle richieste presuppone forti capacità di governo e di selezione dei progetti. Servono dunque strutture più sobrie, slegate da conflitti di interessi, autonome e composte da soggetti non solo professionalmente qualificati, ma anche adeguatamente formati per il lavoro che dovranno svolgere. Paradossalmente, essere membro di un organo di indirizzo o di gestione diventa ora un incarico complesso e delicato come in una società quotata o in una banca e, in periodi di vacche magre come quelli chi ci aspettano, non ci si potrà più permettere improvvisazione, dilettantismo e conflitti di interesse.
Altro aspetto importante è quello dell’accountabilty e cioè la ricerca di indici trasparenti e omogenei per dar conto del proprio operato, facendo vedere non solo quello che si è fatto, ma il rapporto tra ciò che si è programmato e poi realizzato, le procedure di selezione e le ragioni che giustificano le scelte effettuate. anche alla luce di una analisi costi/benefici.

LA CONVENIENZA E I MULINI A VENTO

Sono criteri che è auspicabile facciano parte di quella “Carta delle Fondazioni” che l’Acri sta elaborando in vista del congresso del centenario del 2012, come “timone per gestire al meglio il futuro”. Ma poiché il futuro è anche la volatilità dei mercati e una imprescindibile esigenza di patrimonializzazione degli intermediari partecipati, bisogna affrontare con coraggio e lungimiranza gli evidenti limiti della vocazione “bancaria”. E, nell’ottica di un soggetto non profit protagonista del welfare di comunità, non è coraggioso andarsi a indebitare per inseguire all’infinito aumenti di capitale, anche perché, ormai la nostra recente storia toglie in materia ogni dubbio, i richiami alle esigenze del “nazionalismo bancario” alla fine si rilevano sempre costosi (e inutili per gli utenti) salassi. Nessuno, ovviamente, pensa che le fondazioni debbano precipitarsi a vendere: in queste condizioni di mercato sarebbe un suicidio, ma proprio queste condizioni impongono la diversificazione degli investimenti e soprattutto una loro diversa modalità di gestione. Che senso ha che ogni fondazione, grande e piccola, si tenga stretto il suo pacchetto di azioni? Sicuramente ha un senso per gli equilibri di potere interni alle banche, ma questi equilibri sono sempre più instabili, per conservarli bisogna di fatto dissanguarsi (e più avanti si va, peggio sarà) e oltretutto incidono sempre di meno sull’ormai mitico radicamento territoriale. Pensare a iniziative di sistema con forme collettive di gestione delle partecipazioni, attribuite a soggetti specializzati, avrebbe il duplice vantaggio di migliorare la redditività dei patrimoni e separare le fondazioni dalle beghe sempre più complicate delle banche, concentrandosi sulla missione non profit. Non è affatto una strada facile, sicuramente presuppone l’armonizzazione degli interessi tra le diverse “famiglie” di fondazioni (le grandi, le piccole e le medie) e qualcuno, in passato è successo, potrebbe considerarla il classico esercizio teorico di fine estate. Ma dopo l’estate diventa difficile esattamente il contrario: continuare sulla vecchia strada senza immaginare nuove soluzioni. Il tema merita senz’altro ulteriori approfondimenti. Se vogliamo brutalmente sintetizzare, tuttavia, la domanda da farsi è questa: a una qualsiasi fondazione bancaria (e agli interessi sociali e politici che le stanno intorno) che miri a rafforzare il suo ruolo nelle comunità locali, conviene ancora “l’intimo intreccio” con la banca, svenandosi per fare la classica battaglia contro i mulini a vento?

(1) Sul sito www.acri.it.

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UNA GERARCHIA PER I PROF ABILITATI

  1. dal

    Tutto bello e giusto nel migliore dei mondi possibile: che poi sarebbe il mondo nel quale le banche possono contare su investitori istituzionali solidi e capaci di sostenerne i bisogni di capitalizzazione nel lungo periodo. Però questi investitori in Italia non li abbiamo e con questi chiari di luna non c’è da sperare che arrivino dall’estero. L’ipotesi del conferimento delle quote delle fondazioni in un fondo comune non elimina l’intreccio. I fondi comuni non sono entità scollegate dal mondo terreno: investono nell’interesse dei sottoscrittori e secondo obiettivi di gestione ben definiti. Accentrando tutte le partecipazioni bancarie in un fondo si accentrano anche gli interessi e i conflitti di interesse, non li si cancella d’un colpo. E poi: chi e come dovrebbe indurre le fondazioni al conferimento? Espropriazione forzata o agevolazioni fiscali? Entrambe sono opinabili. Infine c’è un problema della governance delle banche. Se l’unico investitore istituzionale e di lungo periodo si defila aumentano gli incentivi a inseguire solo risultati di breve periodo, emulando modelli tristemente noti. No, grazie. Meglio le stramaledette fondazioni.

  2. Ronnie De Pasca

    Condivido analisi e preoccupazioni, che potrebbero coinvolgere gli assetti partecipativi del nostro sistema bancario. Vorrei capire però con precisione a che strumenti pensa l’Autore quando ipotizza “iniziative di sistema con forme collettive di gestione delle partecipazioni”… esperienze consortili? blind trust? mi sembrano al momento non probabili visti gli assetti di “campanile”, del nostro sistema.

  3. Marcello Battini

    Allo stato delle cose, non credo possibile, nel breve periodo, uno scollegamento radicale tra fondazioni e banche, ma è innegabile, anche se non sarebbe necesserio il riferiemnto allle recenti vicende economiche, che, almeno in prospettiva, il problema si pone. Intanto non dovrebbe essere consentito alle fondazioni d’indebitarsi per concorrere agli aumenti dei capitali bancari, così pure per qualsiasi altro investimento. Le fondazione devono fare gli investimenti esclusivamente con i loro patrimoni. Per le altre cose dette (governance, efficienza, etc.) sono in piena sintonia con l’autore.

  4. luigi capucci

    L’attuale situazione delle Fondazioni è frutto di una politica che non ha mai considerato la funzione reale delle Casse di Risparmio nel contesto in cui operavano. Dentro le casse il ruolo di fondazione e banca erano strettametne complementari, la loro scissione ha dato vita a due esseri monchi: da una parte banche incapaci di affrontare il mercato perchè gestite con obiettivi non di mero profitto, dall’altra enti con patrimonio incapace di generare reddito sufficiente ai fini auspicati. Il problema della ricapitalizzazione delle banche è senza dubbio essenziale, ma non si risolve accentrando le partecipazioni all’esterno delle fondazioni, La funzione della fondazione deve essere anche verso il sistema economico locale, e questa può avvenire solo mantenendo certe banche focalizzate sul mercato locale. E’ inutile riproporre il modello di banche grandi: il mercato locale può essere affrontato con banche piccole, meglio a conoscenza della realtà. Le fondazioni dovranno preservare l’economia locale supportando le casse, ruolo che deve esser visto come complementare alla sussidiarietà che si richiede loro. Come questo dovrà avvenire, resta il problema..

  5. Marco S

    L’autore tratteggia un possibile futuro sia per gli assetti proprietari delle banche che per le agenzie di welfare a livello locale. Tralasciando quali siano i confini del locale quando si tratta di Welfare, altre domande restano: i) V. affrerma asserisce piu’ volte che non ha nessun senso che le Fondazioni si svenino per fare la guerra ai mulini a vento, ricapitalizzando le banche. Chi sono questi mulini a vento? Esistono solo per le Fondazioni? Un altro azionista che si indebita per ricapitalizzare una banca non combatte “mulini a vento”? ii) Smettendo i panni dei banchieri, con la calma e cautela auspicate, quale sara’ la fonte di danaro cui potranno attingere le Fondazioni? detto in altri termini: ora le Fondazioni assolvono al compito della redistribuzione sul territorio del reddito (o rendita?) consistente nei dividendi. Senza dividendi, come potranno finanziare i progetti che sostengono? iii) Che senso ha indicare al Welfare la via della virtuosa interazione tra soggetti mentre per uno di questi, e purtroppo quello attualmente piu’ forte, si prospettano tempi duri?Le “vacche magre” che gia’ si scorgono non lasceranno integri i patrimoni delle F., ricapitalizzazione o no.

  6. lafcadio

    Interessante proposta: non mi sembra però che conferire le ex casse di risparmio in un unico soggetto sia soluzione ideale. I risultati sarebbero assai imprevedibili, a voler esser ottimisti, dal momento che si tratterebbe di far convergere enti con storie e presenti assai diversi. E’ meglio trovare soluzioni che consentano di mantenere in vita collegamento fra banca e fondazione, soprattutto nelle realtà caratterizzate da piccole imprese, dove le casse hanno garantito lo sviluppo. La nostra realtà economica non permette megabanche, bisogna arrendersi all’evidenza. anche i patrimoni delle fondazioni rimarrebbero più stabili.

  7. Stefano Bandiera

    Non comprendo quali potrebbero essere le risorse sulle quali potrebbero contare in futuro le fondazioni senza alcuna partecipazione bancaria e senza i relativi dividendi. Forse “vendendo” a prezzi di mercato i servizi oggi da esse erogate a sotto-prezzi di mercato? Si pensi alle politiche di housing a prezzi calmierati o di supporto alle attività socio-culturali del territorio. E poi ancora; nel paradosso italiano della concentrazione del credito, con le grandi banche che finanziano le grandi imprese e le piccole imprese – la maggioranza – lasciate nelle mani delle banche locali, come è possibile indirizzare verso il territorio l’attività di queste ultime? Ci affidiamo esclusivamente ai poteri coercitivi-affaristici della politica in favore dei amichetti del cerchio magico? Certo, non che le fondazioni siano immuni da queste influenze, ma perderemmo il peso controbilanciante esercitato da esso verso le istituzioni politiche. Condivido solo un passaggio del ragionamento, quello relativo alla necessità della diverisificazione delle attività, principio basilare di ogni comportamento economico-finanziario.

  8. bellavita

    Giustamente Vella non pensa che le fondazioni debbano vendere le loro azioni bancarie in questo periodo di massimi ribassi. Però sostiene che ci si potrebbe astenere dagli aumenti di capitale: un momento, sempre a condizione di non uscire dal gruppo di controllo, non per ragioni politiche ma per ragioni patrimoniali, le azioni sindacate valgono molto di più di quelle sul libero mercato. E ogni manovra finanziaria scatena l’appetito degli sciacalli a comprare per poco quel che vale tanto. Il tutto in mezzo a danze di giubilo dei liberisti, i poeti di corte di questi tempi grami. Solo che invece del sonetto per le felici nozze della marchesina fanno l’ode per la svendita delle autostrade..e magari dell’Enel, Eni e Finmeccanica, al prezzo delle patate come le partecipate dei comuni obbligati da Ronchi a svendere in pochi giorni di massimo ribasso.

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