Grottesco. Difficile trovare aggettivo diverso per descrivere lo scontro sulla conversione in azioni ordinarie delle azioni privilegiate possedute delle fondazioni bancarie nella Cassa depositi e prestiti. Se si vuole trasformare realmente (e non solo nella forma) la Cassa in una società per azioni, si liquidino le fondazioni e si metta il 30 per cento da esse posseduto sul mercato, vendendolo al migliore offerente. Permetterebbe alle fondazioni di concentrarsi davvero sulle attività di pubblica utilità, che dovrebbero essere il loro core business e a una controllata dallo Stato di confrontarsi con veri azionisti. Si eviterebbe anche un nuovo bagno di sangue per il contribuente.

Non sappiamo come andrà a finire il contenzioso in atto tra fondazioni bancarie e Tesoro sulla conversione in azioni ordinarie delle azioni privilegiate della Cassa depositi e prestiti. Quello che sappiamo è che è già costato non poco in termini di perizie e spese legali. Ma il conto per il contribuente potrebbe essere molto più salato, raggiungendo fino a 5 miliardi di euro.

PRIVATI IN CDP

Per capire la posta in gioco e l’oggetto del contendere è necessario fare alcuni passi indietro.
Prima della lunga reggenza di Giulio Tremonti in via XX Settembre, la Cassa depositi e prestiti (Cdp) era una banca che utilizzava i fondi raccolti da Banco Posta per finanziare gli enti locali. Nel 2003 si è voluto modificare radicalmente la natura della Cdp, trasformandola in uno strumento attraverso il quale portare debito pubblico al di fuori del bilancio dello Stato, in una specie di nuovo ministero delle Partecipazioni statali, un veicolo attraverso cui gestire vecchie e nuove (strategiche) partecipazioni in imprese italiane. Per attuare questo disegno, c’era bisogno di “de-pubblicizzare la Cassa” portando al suo interno soci privati in modo da non violare la normativa europea. Tremonti aveva bisogno delle fondazioni bancarie, enti apparentemente privati ma controllati politicamente e sulle quali il Tesoro ha potere di influenza anche perché ne esercita la supervisione. Le fondazioni sono così entrate nel capitale della Cassa depositi e prestiti nel 2003, acquisendone, con un miliardo di euro, il 30 per cento del capitale.
Per accettare l’invito di Tremonti a contribuire alla nuova società per azioni, le fondazioni, consce del loro ruolo cruciale nel disegno del ministro, hanno strappato condizioni molto vantaggiose. Le azioni privilegiate in loro possesso davano un rendimento garantito del 3 per cento al di sopra dell’inflazione (come una obbligazione indicizzata) e attribuivano alle fondazioni il diritto di voto nelle assemblee straordinarie e ordinarie, diritto di prelazione nell’assegnazione degli utili e nella ripartizione del patrimonio sociale in caso di scioglimento della società,  oltre ad assegnare loro l’indicazione del presidente della Cdp. Il patto prevedeva anche una clausola di recesso (a partire da gennaio 2005 e fino al 2009) che dava alle fondazioni la possibilità di uscire dal capitale della Cdp se non fossero state persuase dalla partecipazione venendo rimborsate senza perdite significative. Insomma, si trattava, come a suo tempo denunciato su lavoce.info di strumenti di debito, con remunerazioni molto importanti, e, nonostante questa loro natura, in grado di attribuire potere di controllo alle fondazioni.
Dal 2010 le azioni privilegiate delle fondazioni sono divenute convertibili in azioni ordinarie; la conversione dopo una proroga deve avvenire entro al fine del corrente anno. Il Tesoro da allora chiede alle fondazioni di pagare un conguaglio per la conversione, valutato fino a 6 miliardi, perché il valore di Cdp è aumentato senza che le fondazioni si siano prese alcun rischio per gli investimenti intrapresi dalla Cassa. In effetti, le fondazioni sono state sin qui obbligazionisti molto ben remunerati e in grado di influenzare la governance della Cassa. Le fondazioni, dal canto loro, sostengono di non dovere alcun conguaglio; la prossimità della scadenza entro cui deve avvenire la conversione dà loro potere contrattuale. Probabile che alla fine riescano nuovamente a strappare condizioni per loro favorevoli versando un modesto conguaglio (si parla di un miliardo e mezzo) e rimanendo nella Cassa.

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LA STORIA SI RIPETE

In effetti, le fondazioni hanno un forte potere contrattuale nei confronti del Governo: se questo vuole avere un interlocutore sensibile alle istanze politiche non c’è miglior azionista delle fondazioni, composte esse stesse da politici, il cui unico interesse è esercitare influenza e potere e che per questo sono a loro volta influenzabili e controllabili dal Governo. Non a caso il ministro Grilli pianifica di attuare il suo piano di “privatizzazioni”cedendo partecipazioni oggi in capo al Tesoro al ritmo di ben 20 miliardi di euro l’anno proprio alla Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro ma che appare al di fuori del bilancio dello Stato. Ovvero privatizzare per non privatizzare e continuare a esercitare controllo politico su queste società.
La storia così si ripete. Prima Tremonti, ora Grilli, vogliono che le fondazioni restino nel capitale della Cassa depositi e prestiti per poter portare attività e passività fuori dal bilancio dello Stato a seconda delle esigenze. Lo hanno fatto sapendo che le fondazioni sono influenzabili politicamente. Questo fa sì che la Cdp sia la classica foglia di fico – formalmente una spa anziché una società statale – che permette di portare i debiti fuori dal bilancio dello Stato. Le fondazioni ovviamente sanno bene di essere un unicum e, per questo, di avere un potere contrattuale che mettono a frutto. È probabile dunque che alla fine il conguaglio penalizzerà il contribuente, che detiene il 70 per cento della Cassa.
Come uscirne? L’unica soluzione pulita e corretta è trasformare la Cdp davvero in spa portando dentro azionisti veri e non enti la cui sola finalità è estendere il loro sistema di potere dal controllo delle banche al cui capitale partecipano a quello delle partecipazioni della Cassa offrendo in contropartita copertura al nuovo ministero delle Partecipazioni statali. Oggi assistiamo alla contrattazione intorno al prezzo di quella copertura. Si liquidino le fondazioni al prezzo di acquisto, riconoscendo che sono state degli obbligazionisti in questi anni. E si cominci fin da subito a cercare altri sottoscrittori, veri sottoscrittori che mettono in Cdp soldi loro, indipendenti dal controllo del Tesoro. Deve essere questa la direzione di marcia. Da un governo tecnico ci aspettiamo un impegno ad attuare vere privatizzazioni, nient’altro che vere privatizzazioni, presupposto per un miglioramento della gestione di queste imprese.

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