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Le perfezioni provvisorie della tariffa idrica

Senza un compromesso tra il rispetto dei risultati del referendum sull’acqua e la necessità di coprire il costo dei finanziamenti, la definizione della tariffa idrica -con un metodo solo teoricamente corretto- rischia di bloccare il sistema. Mentre il settore ha una grande necessità d’investimenti.

Una delle poche cose che il Governo Monti ha portato a termine (bene) è la definizione delle competenze sul settore idrico all’Autorità per l’energia. Purtroppo, però, è mancato quel sostegno politico che sarebbe stato necessario per consentirle di utilizzare al meglio i propri poteri in un settore così delicato.
Siamo ormai prossimi al vaglio della tariffa “transitoria” per gli anni 2012-2013, che a dicembre 2012 (oggi) ancora non è definita. Non è certo tutta colpa dell’Autorità, che ha cominciato da poco a lavorare su questo ambito, ma si comprende l’ansia di tutto il settore per la decisione. Anche perché, ovviamente, quello che avverrà nel periodo “transitorio” darà segnali importanti sul periodo “a regime”, ovvero dal 2014 in poi.

LA TARIFFA CHE VERRÀ: AL MEGLIO, UNA INCOMPIUTA

Il compito a cui si accinge l’Autorità non è banale. Le è stato dato il mandato di far funzionare un sistema idrico che ha grande fame di investimenti dopo un referendum che ha detto “no” al profitto delle imprese del settore. Come abbiamo più volte scritto la cosa non è priva di ambiguità, e le soluzioni non sono tante né facili.
L’Autorità ha preso di petto la questione, con un coraggio forse eccessivo. Sarebbe ad esempio stato possibile puntare su una tariffa poco chiara che semplicemente garantisse i ricavi delle imprese. Già nel passato, il settore aveva avuto sistemi tariffari simili e si poteva invocare ad esempio quanto aveva fatto il Cipe negli anni Novanta.
E invece l’Autorità ha preteso di fare da subito il suo mestiere, cercando di disegnare la tariffa migliore possibile, con pochissimi dati sulle imprese e senza che si potesse neppure menzionare il profitto. Si tratta di un’impresa ambiziosa, di una tariffa che cerca da subito di spingere le imprese a perseguire una maggiore efficienza e che – nonostante il referendum – cerca di mantenere una struttura di prezzo degna degli standard internazionali. A parte alcuni dettagli, tutto giusto; in un mondo ideale. Pericoloso invece nella strana Italia di oggi in cui il costo del capitale sembra essere sinonimo di sfruttamento. Pericoloso in un settore ove opera qualche migliaio di operatori dei quali la stessa Autorità sa troppo poco.
Scrivere una tariffa ottimale senza disporre di pezzi così importanti comporta rischi enormi – un po’ come provare a dipingere la Gioconda senza sapere se stai lavorando su una tela o su un vetro; come suonare una serenata di Mozart senza avere un solo violino e chi più ne ha, più ne metta.

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SE IL SENTIERO È TROPPO STRETTO…

Tanti sono i dettagli della proposta, alcuni discutibili, altri apprezzabili, discussi ampiamente in un evento pubblico promosso dall’Autorità alcuni giorni fa, nel quale si è risentita la stessa demagogia del periodo referendario. Comprensibile nel momento delle campagne di stampa, meno quando si stanno per toccare le conseguenze sui piani di investimento delle imprese
Un esempio per tutti. Nel dibattito sul referendum si è additato come inaccettabile un “rendimento del capitale” pari a quel 7 per cento che era stato fissato dal decreto Di Pietro nel 1996. Qualunque piccola o media impresa provi oggi ad andare in banca sa che il denaro costa ben più di questo. Lasciamo perdere il cosiddetto “odioso profitto”: ma almeno vogliamo consentire alle imprese di ripagare gli interessi pagati alle banche?
Purtroppo, il sentiero sul quale l’Autorità deve camminare è stretto. Da un lato, alcuni chiedono (con ragioni che rispetto, anche se non le condivido) che il risultato referendario non sia stravolto. Dall’altro, ci sono le imprese che (con ragioni ugualmente rispettabili) si appellano alle norme europee sulla copertura dei costi. Esiste spazio tra queste posizioni? Forse no…
Il rischio peggiore è che l’Autorità provi ora a scrivere un sofisticato meccanismo tariffario, e che tra qualche mese una delle due parti si aggrappi a uno dei tanti possibili appigli e vinca un ricorso al Tar. La tariffa idrica del biennio 2012-2013 resterebbe indeterminata per almeno un altro anno. Il settore è già fermo almeno dal 2011. Possiamo permettercelo?

…FORSE CONVERREBBE CAMBIARE STRADA

Se allora non è possibile fare le cose “secondo i manuali”, non sarebbe forse meglio seguire una strada del tutto diversa? Quella referendaria è una battaglia non solo di principio, ma in primo luogo simbolica. E alle imprese interessano i ricavi, non i parametri che definiscono la remunerazione del capitale o altro. E alle banche che devono finanziare gli investimenti servono regole che dicano, ad esempio, quale somma sarà riconosciuta al gestore che ha investito quando la sua concessione scadrà. Il resto sono dettagli.
Forse è troppo tardi perché l’Autorità cambi del tutto approccio. Inseguire la tariffa perfetta è comprensibile, ma senza pragmatismo si rischia grosso. Cercare un punto di incontro tra le parti avrebbe richiesto un Governo con una forte capacità di indirizzo, e su questo il Governo Monti non ha fatto quanto si sperava. Occorreva una scelta e una collaborazione tra le parti che non si è stati in grado di conseguire. Con il risultato che l’Autorità se la dovrà sbrigare da sola. Con il coraggio e la lungimiranza che servono in questi frangenti.
All’Aeeg è stato affidato il compito di far funzionare il settore idrico. E quello che si trova davanti ora è un passaggio che non può essere fallito. Emettere un provvedimento tariffario che bloccasse gli investimenti del sistema, sarebbe come rinunciare al mandato.

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Un primo passo

  1. antonio gasperi

    Per restare nelle metafore, si sta cercando di dipingere la Gioconda su vetro, ossia di considerare un bene che è pubblico, in quanto è vitale per tutte le forme di vita, con la logica dei beni privati. il referendum non ha detto no al profitto delle imprese del settore, ha detto semplicemente che le aziende che si occupano di acqua non devono avere l’obiettivo di guadagnarci sopra, ma di erogare un servizio per tutti, anche per quelli che non possono permettersi tariffe “competitive”. il problema di erogare questo servizio con efficienza è di un decisore – pubblico o privato che sia – che possibilmente eviti sprechi e corruzione. non confondiamo (Mozart non ha scritto serenate) un problema di efficienza con una battaglia per la privatizzazione, che vuole aprire un altro settore alla speculazione selvaggia dei grandi gruppi internazionali. buone feste

  2. Marco

    L’esito del referendum va analizzato in entrambi i suoi quesiti e, mi permetta, quello più importante riguarda la forma di gestione del servizio idrico, di cui in questo articolo non si parla. Lei pone come un assioma l’impossibilità di tornare ad una gestione completamente pubblica, perchè non riflettiamo su questo?
    Perchè una gestione pubblica, anche su larga scala, non può garantire gli investimenti adeguati? E’ su questo punto che, chi è contrario alle posizioni dei promotori del referendum, dovrebbe portare degli argomenti.

  3. piero r

    L’analisi del prof. Scarpa ha il merito di proporre una via d’uscita pragmatica – sebbene, come lo stesso autore concede, fuori tempo massimo … – al rischio di impasse su un tema che ha già vissuto troppi rinvii. Tuttavia, ritengo che il “pessimismo della ragione” che ispira la nota sia eccessivo :-). Le stesse migliori esperienze di regolazione indipendente ci insegnano che all’inzio la strada è ripida, gli ostacoli inevitabili, il contenzioso certo. Non credo che la determinazione tout court di ricavi “equi” e/o “adeguati” sfuggirebbe alle insidie evocate nello scritto. La via intrapresa dall’Autorità è coraggiosa ma anche sostenibile. Un possibile miglioramento, coerente con l’impostazione scelta ma forse meno esposto al rischio di “sfiducie distruttive” (se ne può qui solo acccenare), sarebbe un sistema tariffariio che distingua più nettamente fra gestione degli asset e gestione del servzio. Con stima, PR.

  4. Maurizio

    Condivido le osservazioni di Antonio.
    La gestione pubblica dell’acqua funziona efficentemente in diverse città / territori, (vedi Milano, Roma dove gli antichi romani hanno realizzato opere ancora utilizzate dopo millenni, Ascoli, etc.) laddove ci sono buone amministrazioni. La privatizzazione alfine di favorire gli investimenti e’ auspicabile laddove ci siano le condizioni per fornire vere alternative, ma e’ difficile laddove l’infrastruttura e’ unica ed onerosa l’impresa. Nella mia semplicità chiedo come abbiano fatto i nostri genitori e nonni a ricostruire un paese distrutto dalla guerra e raggiungere livelli di servizi e benessere mai raggiunti prima nella storia senza alcuna genialità finanziaria ? In questi ultimo ventennio l’1/3 del debito pubblico come e’ stato speso se significative opere infrastrutturali non sono state realizzate (salvo rare eccezioni) ?
    Con stima, saluti. Maurizio

  5. Rino

    Se non ricordo male Di Pietro introdusse il concetto di remunerazione del capitale investito, mentre fu Ronchi (AN) a fisare il 7% che ovviamente si prestò alla richiesta di referendum. Forse bastava indicare una quota aggiuntiva all’euribor per evitare tante polemiche. Ora che molte aziende idriche sono private, se pur a maggioranza pubblica, è difficile riclassificare la contabilità industriale per ciascuna di queste che è la base per qualunque decisione in merito. Ritengo improbabile il ritorno al pubblico perchè bisognerebbe rivalutare gli asset e gli investimenti fatti per ripagare i privati di tutto questo, meglio utilizzare l’agenzia per avere trasparenza contabile finalizzata ad avere il max dell’efficienza nella gestione e stabilire l’interesse sul capitale privato immesso nell’attività

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