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Il paradosso delle quote Bankitalia al tempo del Qe

La riforma delle quote di proprietà delle Banca d’Italia voleva creare un mercato di quelle quote. E prevedeva la possibilità di una banca centrale azionista di se stessa. Adesso, con il Quantitative easing, la norma introdotta un anno fa rischia di avere conseguenze paradossali.
EFFETTI DEL QE
Con il Quantitative easing, la Banca centrale europea ha introdotto un massiccio piano di acquisti di titoli di Stato. Il rischio dell’operazione sarà in larga parte attribuito alle singole banche centrali nazionali. Generalmente si pensa che, se questo rischio dovesse materializzarsi, sarebbe lo Stato a dovere ricapitalizzare la sua banca centrale nazionale. Non è così in Italia, in virtù di un assetto molto particolare, che vede soggetti privati detenere le quote di proprietà della Banca d’Italia.
La riforma introdotta poco più di un anno fa mirava a creare un mercato di quelle quote, e prevedeva che la Banca d’Italia stessa potesse diventare temporaneamente azionista di se stessa. Alla luce del Qe, quella riforma solleva inquietanti interrogativi.
IL DECRETO IMU-BI E IL MERCATO DELLE QUOTE
Vi ricordate la riforma della proprietà della Banca d’Italia? Venne fatta in tutta fretta sul finire del 2013 (decreto legge n. 133 del 30/11/2013), con il dichiarato intento di creare un mercato delle quote di partecipazione nel capitale della nostra banca centrale. Il decreto legge che la introdusse era tristemente noto come decreto “Imu-BI”. Si, perché in realtà l’obiettivo vero era consentire alle banche di contabilizzare le plusvalenze derivanti dalla rivalutazione delle quote e attraverso la tassazione delle plusvalenze compensare il gettito perso dalla sospensione della seconda rata Imu del 2013: una finalità poco nobile per riformare la proprietà di una banca centrale. Il decreto introduceva un limite del 3 per cento per ciascun “azionista”: poiché alcuni hanno quote superiori al 3 per cento (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Generali, CariBologna, Inps, Carige), dovrebbero vendere le loro partecipazioni in eccesso (si veda la tabella in un precedente articolo). Il decreto prevedeva anche la facoltà della stessa Banca d’Italia di acquistare temporaneamente le quote di partecipazione al suo capitale, per poi rivenderle sul mercato, al fine di “favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale” e di agevolare così la creazione di un mercato delle quote. A quanto ci risulta, nulla è successo dopo la conversione in legge nel gennaio 2014: nessuna cessione di quote è avvenuta, nessun mercato è stato creato. A suo tempo non abbiamo risparmiato critiche (si veda il dossier) a quel decreto e il “nulla di fatto” sembra darci un po’ ragione.
E ADESSO CHI COMPRA LE QUOTE BI?
Ma perché quella riforma torna adesso di attualità? Perché a partire dal mese di marzo la Banca d’Italia è impegnata in un programma di acquisto di titoli di Stato italiani per 130 miliardi (stima fornita dal governatore nel suo intervento al convegno Assiom Forex del 7 febbraio). Questi acquisti fanno parte del Quantitative easing recentemente introdotto dalla Bce. In base alle regole del Qe, il rischio relativo a quei titoli ricadrà sugli azionisti della Banca d’Italia. Questo implica ad esempio che, se il Governo italiano dovesse applicare un taglio del 50 per cento al valore nominale dei titoli del debito pubblico (come fece la Grecia con il Private Sector Involvement del 2012), la Banca d’Italia accuserebbe una perdita tale da azzerare il suo capitale (che al 31/12/2013 era di 23,5 miliardi, a cui possiamo aggiungere 23,3 miliardi di fondi rischi). Naturalmente è una ipotesi estrema, che al momento sembra essere esclusa dai mercati finanziari, ma che in futuro potrebbe non essere così irrealistica, tenendo conto della inesorabile crescita del rapporto debito/Pil, che pone seri dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano.
Il ragionamento apre diversi interrogativi sugli effetti della riforma della proprietà della Banca d’Italia:

  • Chi sarà disposto adesso a comprare le quote, ed eventualmente a quale prezzo?
  • Se nessuno le compra, la Banca d’Italia si troverà costretta ad acquistare le sue quote, assumendosi il rischio di doverle poi rivendere a prezzi inferiori?
  • Se la Banca d’Italia compra le sue quote, seppure temporaneamente, e nel periodo in cui le detiene lo Stato taglia il valore dei titoli del debito pubblico, chi ripristina il capitale della Banca d’Italia? La Banca d’Italia stessa? Sembra paradossale, ma sarebbe il risultato di una banca centrale azionista di se stessa.
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Ci piacerebbe che il governatore della Banca d’Italia, che a suo tempo difese la riforma, facesse chiarezza su questi punti. Bisogna riconoscere che il Governatore, nel dibattito che ha accompagnato l’introduzione del Qe, si è espresso contro l’attribuzione a livello nazionale del rischio implicito nel Qe, e a favore di una condivisione del rischio tra i paesi della zona euro. Chissà se le sue preoccupazioni derivano anche dai problemi che qui abbiamo esposto…

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  1. Roberto

    “Naturalmente è una ipotesi estrema, che al momento sembra essere esclusa dai mercati finanziari, ma che in futuro potrebbe non essere così irrealistica, tenendo conto della inesorabile crescita del rapporto debito/Pil, che pone seri dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano.”
    E’ inquietante leggere questa frase da un’economista alla luce dei tassi odierni.
    Per questo mi sorge una domanda che le pongo: considerata l’enormità del debito pubblico italiano e la sua elevata (35% circa) diffusione tra le banche e i fondi esteri, è veramente ipotizzabile in futuro un taglio del valore nominale in stile Grecia? L’Italia è un paese too big to fail o in molti (Draghi compreso) stanno sottovalutando il problema?

    • Jam

      Buon punto, a cui bisogna sommare il valore delle quote. Se si guarda il modello che è’ stato applicato, il valore era un funzione solo del Bund a 10 anni. Le quote adesso valgono almeno, se non erro, 20 30 per cento in più.
      In più le banche hanno ancora 2 anni di tempo per vendere quote prima di vedersi sterilizzato il dividendo

  2. Davide

    Sarebbe utile fare chiarezza su alcuni punti. Il primo, è chi realmente ricapitalizza le banche in caso di stress finanziario. Questi è lo Stato e non la Banca d’Italia (vedi MPS), dunque non mi è chiaro il collegamento con Banca d’Italia. Secondo, assumendo che lo scenario proposto sia plausibile, l’esempio greco ci insegna a) che lo Stato italiano sarebbe soggetto a salvataggio internazionale, b) questo salvataggio includerebbe anche le banche. Altro punto è l’unione bancaria europea di cui non si fa alcun accenno. Riassumendo, l’analisi non sembra molto fondata e il problema della struttura proprietaria della Banca d’Italia non rilevante.

  3. Piero

    Il decreto 133 e’ una brutta pagina della storia italiana, IMU ( imposta che non doveva nascere se non con il federalismo) e tassazione quotedella Banca Centrale, ipotesi assurda in uno stato governato da politici con un po di cervello. Ben venga il QE, seppur tardivo, se impedisce la realizzazione del 133, benissimo.
    Finalmente Draghi ha fatto la cosa giusta, adesso la palla a Renzi, che ancora sta giocando con l’Italia è con gli Italuani, deve avere il coraggio di ridurre la spesa pubblica del 10% riducendo le tasse sul l’impresa e sui lavoratori.

  4. Luca

    Prima di chiedersi chi ripristinerebbe il capitale di BdI, bisogna forse domandarsi se ciò sarebbe davvero necessario.
    Diversamente da un banca commerciale, infatti, le banche centrali possono creare le proprie passività, dal circolante alle riserve bancarie: perciò, salvo che la legge non obblighi a comportarsi diversamente, non vedo motivi per cui non possano funzionare anche con capitale nullo o negativo.
    In pratica, nello scenario ipotizzato il capitale sarebbe ricostituito nel tempo trattenendo i dividendi futuri. Se non erro, ciò è già previsto dallo Statuto limitatamente alla fattispecie del calo della riserva ordinaria sotto una certa soglia.
    Perciò, il danno derivante dalla ristrutturazione sarebbe diluito nel tempo e sarebbe sopportato (nella forma di mancati dividendi) sia dai partecipanti=azionisti, sia dallo Stato (che percepisce il 54% degli utili, contro il 6% dei partecipanti; il resto viene accantonato nella riserva ordinaria e straordinaria).

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