Sul tema del Reddito di Inclusione sociale (Reis), o comunque di un reddito minimo, vi sono stati numerosi commenti al nostro articolo. Vi sono stati poi altri articoli che hanno approfondito il tema in specifiche direzioni. Chiara Saraceno ha criticato le proposte di stampo categoriale, l’ultima delle quali – del prof. Boeri, presidente dell’Inps – è l’introduzione di un reddito minimo per gli ultra-cinquantacinquenni che si trovano in povertà, ed ha argomentato in favore di una misura universalistica. Massimo Baldini ha mostrato che il lavoro è sì essenziale, ma non sufficiente per ridurre il rischio di povertà, perché in molte famiglie povere non vi sono disoccupati o persone facilmente “attivabili”. Davide Ciferri ha sostenuto l’efficacia di un reddito minimo nel diminuire le disuguaglianze e stimolare la domanda: tale reddito deve essere in grado di ridurre – fino ad annullare – la distanza tra il reddito del nucleo familiare e la corrispondente soglia di povertà assoluta, e deve essere affiancato da un “patto d’inserimento”.
Questi articoli forniscono anche risposte a parecchi dei dubbi e delle critiche sollevate nei confronti della proposta del Reis, che abbiamo sommariamente delineato. Riteniamo comunque utile ritornare sulle principali osservazioni critiche e cercare di rispondervi in modo coordinato.
Molte critiche possono essere riassunte sotto l’etichetta di “assistenzialismo statalizzante”, per di più aperto a comportamenti opportunistici: gli evasori totali che godono di un trasferimento monetario finanziato da chi le tasse le paga; un sostegno del reddito che per il beneficiario diventa una scusa per rifiutare lavori “scomodi”. Le risposte sono in tre punti.
- Il controllo per l’ammissibilità di una famiglia al Reis avviene tramite il nuovo Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), che considera non solo il reddito, ma anche il patrimonio – mobiliare e immobiliare –, e ha strumenti molto migliori che nel passato per controllare la veridicità delle dichiarazioni. Inoltre, al fine di ottenere un’adeguata misurazione delle condizioni economiche delle famiglie, vi si affianca “un indicatore per il controllo dei consumi presunti”, che permette appunto di calcolare un reddito presunto da confrontare con quello risultante dall’Isee (vedi la Proposta del Reis del marzo 2015). In casi dubbi, si attivano poi i controlli tramite la Guardia di Finanza.
- Al sostegno economico della famiglia povera si affianca un “patto di inserimento” con l’ente erogatore, specificato per i singoli componenti la famiglia, che prevede azioni rivolte in particolare alle persone in attività lavorativa e idonee al lavoro (orientamento, formazione o riqualificazione professionale, esperienze formative, accompagnamento al lavoro) e ai minori (frequenza scolastica, promozione della salute). La logica è quella degli “obblighi reciproci”, nel senso che l’osservanza degli impegni individuali di inserimento, ad esempio l’accettazione di un’offerta di lavoro, è condizione per continuare a usufruire del sostegno monetario.
- La proposta di realizzare il Reis nell’arco di quattro anni, cioè gradualmente in un orizzonte definito, serve anche per vagliare in itinere se si verificano comportamenti opportunistici da parte dei beneficiari e se i servizi locali, sociali e per l’impiego, sono in grado di svolgere efficacemente il loro ruolo. Detto altrimenti, la progressiva messa in atto del Reis consente di imparare dall’esperienza e di adottare quindi gli opportuni correttivi.
Altri tre commenti meritano un chiarimento. Primo, il riferimento al “nucleo familiare”, e non alla singola persona, è comunemente ritenuto il più adatto per misurare le effettive condizioni economiche e quindi per definire il reddito minimo; esso è adottato in tutti i paesi europei con una misura di questo tipo. Ovvio notare che chi vive da solo costituisce un nucleo familiare unipersonale, e che la definizione del nucleo familiare nulla ha a che vedere con “famiglie cristiane” o comunque con nozioni di famiglia basate su fondamenti religiosi. Serve aggiungere, poi, che una misura universale di contrasto della povertà non va confusa con politiche per l’occupazione: queste ultime ne sono un ingrediente importante ma non sufficiente, e per un altro verso si impongono in favore di tutte le persone in cerca di lavoro e non soltanto dei poveri.
Secondo, ci viene domandato, retoricamente: “Perche non puntare sull’imprenditorialità e la capacità d’iniziativa delle persone, […] perché non puntare alla crescita della torta?” Ovviamente, crescita economica e distribuzione del reddito (e della ricchezza) sono aspetti collegati, ma non procedono necessariamente nella stessa direzione. L’evidenza recente è che le disuguaglianze nella distribuzione del reddito (e della ricchezza) sono andate aumentando al crescere del reddito (e della ricchezza) aggregati, almeno in alcune economie avanzate. Una misura come il Reis mira a sostenere le famiglie che si collocano nella fascia più bassa della distribuzione del reddito, sotto il livello di povertà assoluta. Il che è socialmente giusto, mostrando inoltre effetti positivi sulla domanda aggregata e quindi sulla stessa crescita economica.
Terzo, si osserva che la proposta del Reis e quella del M5S obbediscono alla stessa logica e differiscono soltanto per il diverso ammontare del trasferimento monetario. Ciò è vero solo in piccola parte. Innanzitutto, la diversa “generosità” delle due proposte e la loro diversa attenzione alla dimensione attuativa non sono certo irrilevanti per la credibilità e la fattibilità della misura, date le condizioni economiche del nostro paese. Inoltre, la proposta del M5S differisce dal Reis anche per parecchi altri aspetti, tra i quali spicca una singolare restrizione per l’ammissibilità a quello che, del tutto impropriamente, essa chiama “Reddito di cittadinanza”. Infatti, «per i soggetti di anni diciotto fino al compimento del venticinquesimo anno di età costituisce requisito fondamentale essere in possesso di qualifica o diploma professionale, riconosciuti e utilizzabili a livello nazionale e dell’Unione Europea» (art. 4, comma 2). In tal modo, non solo ci si discosta dal criterio dell’“universalismo selettivo”, ma si esclude proprio una fascia di soggetti particolarmente deboli: i giovani che non sono riusciti ad andare oltre un titolo di licenza media.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Jack
Rispondo in merito ai miei interventi e alle vostre risposte ( comunque al di là delle idee, è bello vedere delle risposte agli utenti e non autori di articoli autoreferenziali che non si abbassano a rispondere ai commenti, come succede in altri siti). Allora 1 non è come dite voi in Europa. O meglio , non è proprio come dite. Il reddito minimo è un diritto individuale, non familiare. Abitando ancora con i genitori possono venir meno alcuni criteri e può abbassarsi l’importo del sussidio , ma ci sono delle politiche atte proprio ad emancipare la persona e a farla uscire dal nucleo familiare , e non solo col lavoro ma proprio col reddito minimo e pagando l’affitto. Cosa che mi pare non avverrebbe assolutamente con il REIS. Mi dite che le politiche del lavoro devono essere indipendenti da questo REIS, e del “patto di inserimento” rivolto a tutti i disoccupati . Questo patto di inserimento può significare molte cose diverse. C’è un obbligo dello Stato di trovare lavoro alla persona entro tot mesi e se no dargli il REIS anche a lui/lei nonostante stia ancora con i genitori? E secondo voi , essendoci differenziazione tra disoccupati che prendono il REIS e non, se c’è un ipotetico posto di lavoro da offrire questo inevitabilmente andrà al disoccupato che ha preso per un po’ questo REIS, proprio per “toglierlo” dalla lista dei sussidiati. Quindi all’altro non solo non gli si dà il sussidio, ma poi in caso sarà anche discriminato a favore di chi il sussidio lo prende. ….Quindi ipoteticamente il ragazzo/a che sta con i genitori che prendono 5000 € potrà farseli dare ( qui comunque , come avevo già detto, si apre un altro discorso , cioè della totale dipendenza , per emanciparsi, dalla famiglia. Ecco perché, se non si era capito, avevo parlato di famiglia “cristiana”, e aggiungerei paternalista e patriarcale) , uscire dal nucleo familiare e poi prendere anche il REIS. Mentre quelli che per qualche motivo non glieli possono chiedere ai genitori ( o, come detto, i genitori non glieli vogliono dare ) sono bloccati. Quindi , per concludere, questo REIS non sarebbe né universale, né emancipatorio , nè di inclusione sociale, anzi , forse il contrario. E ho i miei forti dubbi che combatta la povertà assoluta.E’ solo un assegno familiare , o forse dovrei dire familista… La I e la S della sigla cioè inclusione sociale di REIS non la si persegue. Quindi almeno cambiategli il nome.
marco
Maggiore selettività significa anche più soldi per chi ne ha più bisogno. Perché dare sussidi ai minorenni che finora sono a carico delle famiglie fino al 18-esimo anno di età o comunque finché non terminano gli studi.
In questo ha ragione il M5S: con la licenza media nessuno trova più un lavoro. Anche pagando corsi e stage, quale percorso si può avviare con un giovane che non è nemmeno in possesso del diploma?
IL REIS è legato all’inserimento nel mondo del lavoro che è precluso ai non-diplomati, così come deve esserlo il REIS se questi non frequentano con profitto la scuola secondaria.
bob
…il reddito minimo è cosa per Paesi con un elevato livello di senso civico. La ” furbizia” marchio di “qualità” che ci contraddistingue ( e che perfino ce ne vantiamo) trasformerebbe un concetto altamente civile in un truffa continua. Vogliamo dimenticarci che questo è il Paese dove gente ha vissuto per una vita con la cassa integrazione più il lavoro a nero parallelo? Ci dimentichiamo dell’assurda cifra spesa per i cosiddetti “permessi sindacali”? I falsi invalidi? Le doppie e triple pensioni? E gli scandalosi vitalizi? E i posti inutili creati nelle partecipate pubbliche ad hoc? Potrei andare avanti all’ infinito. Si potrebbe obiettare che si è tutto vero ma sono cose marginali, percentuali fisiologiche. No! Il 70% degli Italiani vive così! Chi lo dice? Basta confrontare alcuni dati senza andare a scomodare complesse statistiche. In questo Paese in interi comparti economici non troviamo più italiani: edilizia, agricoltura, ristorazione, sociale ( badanti e infermieri). E’ il Paese con il più basso numero di laureati soprattutto in lauree “ serie” (ingegneria, matematica etc) , con la più alta percentuale di abbandoni scolastici, con ancora sacche di analfabetismo ( ne leggere ne scrivere) nell’ordine del 15-20% . E il Paese dove interi settori produttivi sono scomparsi ( chimica –elettronica -auto etc) ma anche il Paese con un numero spropositato di “ Compro Oro” e sale slot machine
A questo Paese garantiamo un reddito minimo?