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I piedi di cemento dell’industria italiana

La vendita di Italcementi ai tedeschi HeidelbergCement è una operazione corretta dal punto di vista economico e finanziario. Ma di fronte al progressivo disimpegno delle famiglie imprenditoriali, è necessario che il paese si doti di strutture alternative di proprietà e controllo.

Un’ operazione sensata
E così un altro pezzo pregiato dell’industria italiana passa in mani straniere: HeidelbergCement, multinazionale del cemento con sede in Germania, acquista dalla famiglia Pesenti la quota di controllo di Italcementi, maggior produttore di cemento italiano. Inevitabile che la notizia faccia rumore. Dopo i francesi (Parmalat e il lusso), gli americani (Indesit), i cinesi (Pirelli), anche i tedeschi vengono a fare shopping in Italia. Stiamo veramente svendendo l’argenteria? E quali sono le conseguenze per il nostro sistema produttivo?
Da un punto di vista economico e finanziario l’operazione non fa una grinza, specie se il punto di vista è quello di Italcementi. L’industria del cemento è stata colpita duramente dalla crisi, risentendo delle difficoltà del settore delle costruzioni. Sono stati anni di perdite e di calo dei corsi azionari: al picco del maggio 2007, le azioni Italcementi valevano quasi 25 euro; ieri (prima che l’accordo venisse rivelato), circa 6 euro.
Ci sono anche altri fattori più strutturali che giocano un ruolo importante. La produzione di cemento è caratterizzata da ritorni di scala crescenti e da una struttura di mercato oligopolistica. Questi fattori spingono verso un consolidamento fra i produttori. Il 15 luglio scorso la fusione fra Holcim e Lafarge ha generato il primo produttore mondiale, con sede legale in Svizzera e presenza in novanta paesi. L’accordo fra Italcementi e HeidelbergCement è un ulteriore passo in questa direzione.
Era un passo obbligato? La società italiana è un produttore importante ma lontano dai “global player” destinati a dominare il mercato. LafargeHolcim ha una capacità produttiva di 427 milioni di tonnellate annue, HeidelbergCement di 129, Italcementi di 60. In termini di quotazione, Italcementi valeva prima dell’annuncio 2,3 miliardi, HeidelbergCement 13,8. Numeri che lasciano poco spazio alla fantasia: da una parte Italcementi da sola avrebbe avuto una prospettiva difficile, dall’altra il pesce piccolo difficilmente riesce a mangiare quello grosso. È condivisibile l’affermazione del presidente di Italcementi, Giampiero Pesenti: non conta il controllo dell’impresa, ma le sue prospettive di sviluppo. E queste sono migliori all’interno di un gruppo globale.
Da un punto di vista finanziario, non si tratta certo di una svendita. HeidelbergCement paga ogni azione 10,6 euro, con un premio di circa il 70 per cento rispetto alla quotazione media degli ultimi due mesi. A dimostrazione del fatto che l’offerta è generosa, il giorno dopo l’annuncio il valore delle azioni Italcementi è schizzato del 50 per cento, mentre quelle di HeidelbergCement perdono a metà giornata il 7 per cento: il mercato ritiene che il compratore stia pagando troppo. Grazie alla normativa sull’OPa obbligatoria, il prezzo pattuito per il pacchetto dei Pesenti sarà offerto a tutti gli altri azionisti: per fortuna sono finiti i tempi in cui i piccoli azionisti erano il “parco buoi” alle cui spalle venivano fatti gli accordi per i passaggi di controllo.
Rimane il timore che un controllante estero penalizzi i siti produttivi italiani. È però un timore poco fondato nel settore del cemento: a causa degli alti costi di trasporto, la produzione deve avvenire vicino a dove il materiale viene utilizzato. Non c’è quindi il rischio di scomparsa della produzione in Italia. Resta invece il problema dell’eccesso di capacità produttiva, stimata nell’ordine del 30 per cento. Rischi per l’occupazione quindi ce ne saranno, ma non legati alla nazionalità del controllante.
Il problema è la famiglia
Se l’operazione in sé è difficilmente criticabile, rimane il fatto che nel processo di consolidamento internazionale le nostre imprese finiscono quasi immancabilmente a fare la parte delle prede. Il problema è che anche quelle di dimensioni medio-grandi, sono in gran parte a controllo familiare, poco adatte a evolversi nei “global player” che stanno guidando il consolidamento. Anche nei casi di maggior successo mancano risorse finanziare e manageriali per diventare multinazionali di grandi dimensioni: si pensi ad esempio alla Ferrero, impresa familiare di grandissimo successo, ma che rimane relativamente piccola nel panorama dell’alimentare, dominato da grandi multinazionali quali la Nestlè o la Coca-Cola.
Di fronte alla crescente competizione internazionale, alcune famiglie imprenditoriali preferiscono rinunciare al controllo dell’impresa e trasformarsi in gestori di portafogli di partecipazioni azionarie. Esempi sono il Gruppo Partecipazioni Industriali per la famiglia Pirelli-Tronchetti, Exor per gli Agnelli, Edizione per i Benetton, Italmobiliare per i Pesenti stessi. Questa evoluzione è di per sé sensata. Quando un business diventa molto grande, ha bisogno di capitali ingenti e di manager professionali (e licenziabili in caso di cattivi risultati). Per una famiglia ha poco senso concentrare (e mettere a rischio) gran parte della propria ricchezza in una sola impresa.
Il problema non è tanto il ritirarsi delle famiglie dalle grandi imprese, quanto l’assenza di una struttura di proprietà e di controllo alternativa che possa governare le imprese quando diventano troppo grandi per il controllo familiare. Le multinazionali sono tipicamente aziende ad azionariato diffuso, spesso con fondi di investimento che detengono quote di minoranza, ma in grado di esercitare il controllo sull’operato del management. Questo modello richiede un mercato borsistico che funzioni e una serie di fondi interessati a detenere partecipazioni azionarie nelle imprese. In Italia, sia la borsa sia il mercato dei fondi sono ancora troppo poco sviluppati. Siamo in ritardo sui fondi pensione, che fornirebbero una domanda di capitale di rischio stabile e con prospettive di medio lungo periodo. Sono assenti grandi fondi di private equity, specializzati in operazioni di crescita o di ristrutturazione. Lo sviluppo dei fondi comuni è limitato dal fatto che molti sono controllati dalle banche, creando situazioni di conflitto di interessi. In questa situazione, sono i fondi esteri quelli più attivi sul mercato azionario italiano. Questa “colonizzazione” fa meno notizia dei passaggi diretti di controllo, ma non è certo meno importante: il fondo BlackRock è uno dei principali investitori delle società quotate nella borsa italiana.
Di fronte al progressivo disimpegno delle famiglie imprenditoriali, è necessario che il paese si doti di strutture alternative di proprietà e controllo. Tutte le imprese nascono familiari. Ma per trasformarsi in “global player” è necessario che aprano il capitale e la gestione ad apporti esterni. Serve un sistema finanziario in grado di fornire questi apporti, in assenza del quale l’opzione estera è l’unica perseguibile.
L’articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it

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  1. Luca

    L’austerità, necessaria per la sopravivenza dell’euro, deprimendo la domanda interna abbatte i profitti e quindi il valore e la sostenibilità delle nostre imprese che così diventano facili prede dei concorrenti che operano in altri paesi fuori dall’area euro o come in questo caso operanti nell’area euro ma all’interno di quei paesi per i quali l’euro ha invece determinato un contesto di favore.

  2. bob

    Prof basterebbe leggere la notizia di ieri circa il sorpasso tedesco come 1° produttore di auto per capire che l’acquisizione dell’ Italcementi non può essere considerata una mera operazione finanziaria-contabile. No! L’ acquisizione è frutto di una politica industriale lungimirante, con obiettivi chiari e con un sistema-Paese di primordine. Come l’auto, l’acquisizione di ieri parte da lontano, perchè è da ingenui o da furbi pensare che un piano industriale si faccia dalla sera alla mattina. L’ Italia ha assomigliato alla forte Germania fino agli inizi degli anni ’70, poi sappiamo tutto come è andata a finire…inutile ripeterlo. Le favolette del “piccolo ma bello” ” della “locomotiva del Nord Est” e di tante altre menate sono ora fuffa…per anni invece è stata la “biada al popolino” che ha fatto ingrassare un classe di mediocri che ben conosciamo. Speriamo che FMI sui dati dell’occupazione si sbagli altrimenti saranno tempi amari per i nostri figli

  3. frenky

    Occorre uscire dall’euro che è una scelta ideologica. Ogni Paese deve poter fare i conti con quello che è. E la moneta poterlo rispecchiare altrimenti siamo nella Fanta economia.

    • gmn

      definisci “paese” in termini economici
      (e allora facciamo la nord-lira e la sud-lira
      tante monete quanti i cantoni svizzeri
      e che il vaticano si stampi la sua di moneta…)

      • bob

        ….continuo ad essere sempre più convinto che la crisi di questo Paese è una crisi culturale che inevitabilmente porta anche ad una crisi strutturale e progettuale. Qualcuno nel 2015 crede ancora alle favolette..ma soprattutto ha la lungimiranza di una talpa

    • Maurizio Cocucci

      Semmai è questo tam tam dell’uscita dall”euro ad essere una battaglia ideologica. Heidelberg ha offerto 10,6 euro ad azione, nel caso avessimo una lira svalutata del 30% rispetto alla valuta tedesca (euro o marco che sia) a loro sarebbe bastato offrire il 30% in meno, cioè 7,42 euro visto che la quotazione del titolo Italcementi sarebbe stato anch’esso della stessa percentuale inferiore e ai proprietari del gruppo non sarebbe cambiato nulla, in termini di potere di acquisto avrebbero ricevuto lo stesso ammontare. Pertanto è proprio con l’adozione di una moneta che si svaluti che favoriremmo la vendita di aziende a stranieri.

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