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Ma quanto pesano le tasse sulle imprese?

Si parla spesso in Italia di aliquote fiscali per le aziende anche superiori al 60 per cento. Tuttavia, non è agevole valutare l’onere tributario che grava sulle imprese. Indicatori e approcci diversi danno risultati molto diversi fra loro. Particolarmente difficili i confronti internazionali.
ALIQUOTE LEGALI E ALIQUOTE EFFETTIVE
Periodicamente, vengono pubblicati dati allarmanti sull’onere fiscale che grava sulle imprese italiane, con aliquote anche superiori al 60 per cento. Le aliquote di imposta cercano di rappresentare in modo sintetico l’onere fiscale per le aziende, tuttavia non sempre sono indicatori  adeguati a rappresentare realtà complesse.
L’aliquota legale costituisce un primo elemento di valutazione della politica tributaria sulle imprese. In Italia, quella complessiva ordinaria sui profitti è del 31,4 per cento, pari alla somma delle aliquote Irap (3,9 per cento) e Ires (27,5 per cento). (1) Nei primi anni Novanta, in Italia e in Germania, l’aliquota si attestava sui livelli più elevati tra i paesi Ocse, ma è scesa rapidamente fino a convergere verso i livelli registrati in media (figura 1).
Figura 1. Aliquote legali dell’imposta sul reddito delle società (1990-2012)
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Fonte: Oecd Tax Database
I livelli nominali delle aliquote sono rilevanti per quantificare il risparmio di imposta legato alle agevolazioni fiscali (per esempio, ammortamenti anticipati, deducibilità di spese in ricerca e sviluppo, incentivi agli investimenti) e per valutare le convenienze alla pianificazione fiscale internazionale, ma non forniscono una misura adeguata del prelievo effettivo sui profitti.
Per questo motivo, alle aliquote legali vengono affiancate le aliquote effettive (o implicite o condensate), ovvero indicatori che tengono conto della specifica definizione della base imponibile e delle principali agevolazioni tributarie e che sono costruite come rapporto tra le imposte pagate e un valore di riferimento: i profitti o un’altra base ritenuta conveniente per l’analisi, come il fatturato, il valore aggiunto o il patrimonio. Essendo aliquote medie, permettono di misurare l’entità di autofinanziamento sottratta all’impresa. (2)
Le aliquote effettive possono essere calcolate su dati macroeconomici, ma una valutazione più articolata si può ottenere da dati micro che utilizzano i bilanci delle imprese. Il vantaggio di questo approccio è di poter simulare l’impatto di specifiche politiche tributarie sia a livello aggregato sia a livello settoriale e dimensionale e la possibilità di incorporare eventuali trattamenti tributari differenziati. (3) La differenza (positiva o negativa) tra l’aliquota effettiva e quella nominale dipenderà poi dall’effetto combinato della definizione della base imponibile (più o meno ampia rispetto all’utile di bilancio) e dalla presenza di aliquote nominali differenziate.
APPROCCI DIVERSI, RISULTATI DIVERSI
Un limite di questo approccio, data l’assenza di banche dati pubbliche che integrino le informazioni di natura fiscale con i dati di bilancio, è che richiede la ricostruzione delle basi imponibili e dell’imposta a partire dagli utili contabili, sulla base di una serie di ipotesi e aggiustamenti.
A titolo di esempio, una recente quantificazione delle aliquote implicite in Italia, per il periodo 1998-2008, è stata fatta da Francesco Crespi, Antonio Di Majo e Maria Grazia Pazienza, che utilizzano un modello di microsimulazione sulla banca dati Met e simulano il gettito dell’Irpeg/Ires e dell’Irap tenendo conto degli aspetti più importanti della legislazione in ciascun anno. (4) Nel caso dell’Irpeg/Ires, il progressivo allontanamento, fino al 2003, dell’aliquota implicita da quella nominale è da attribuire agli effetti della Dit (dual income tax). Per quanto riguarda l’Irap, l’andamento decrescente in tutto il periodo dell’aliquota implicita e l’ampliamento della distanza dall’aliquota nominale riflette la progressiva erosione della sua base imponibile. (5)
Tabella 1. Aliquote implicite (i) e legali delle imposte sulle imprese
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(i) Calcolate come rapporto tra le imposte dovute e la corrispondente base imponibile lorda
Fonte: F. Crespi, A. Di Majo, M.G. Pazienza (2012).
Ulteriori complessità si manifestano quando si voglia considerare l’integrazione del prelievo sulle società con quello personale, oppure si voglia effettuare un confronto internazionale. (6)
Molta più cautela va usata nell’interpretazione degli studi che si basano sull’ipotesi di una impresa “rappresentativa”. La maggior parte dei lavori utilizza questo approccio per effettuare comparazioni internazionali e spesso include nell’onere anche altri tributi diretti o indiretti che sono pagati delle società.
Anche in questo caso, per individuare alcuni aspetti critici dell’approccio, si possono considerare due recenti studi che mettono a confronto la tassazione sulle società in Italia e in altri paesi: il primo è di Pwc, Ifc e Banca mondiale, il secondo è stato realizzato da Deloitte e Confindustria. (7)
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Entrambi gli studi considerano una impresa rappresentativa e, rispetto alle aliquote effettive dell’imposta sulle società, si osservano aliquote molto più basse in Francia (nel primo esempio) e nel Regno Unito (nel secondo esempio) non giustificate da differenze nelle aliquote nominali. Questo dipende dalla scelta di una impresa che si è costituita solo da un anno nel primo caso (agevolata in Francia più che in altri paesi) e che opera nel settore della ricerca e sviluppo nel secondo (attività particolarmente agevolata nel Regno Unito).
In entrambi gli studi si riporta una aliquota complessiva, calcolata sui profitti dell’impresa, che include altri tributi che ricadono nella sfera soggettiva della società, ma che non sono direttamente imputabili ai profitti.
In pratica, nel caso italiano la seconda principale imposta che colpisce le imprese è l’Irap, la cui base imponibile non è però rappresentata dai soli profitti, ma anche dalle retribuzioni e dagli interessi passivi delle imprese (ovvero il valore aggiunto netto). Pertanto il calcolo di una aliquota implicita complessiva, dovrebbe includere la sola parte di gettito relativa ai profitti e agli interessi e non l’intero gettito. (8) Per quanto riguarda, invece, l’Imu, si è registrato un forte inasprimento del prelievo rispetto all’Ici. (9) Tuttavia, trattandosi di un’imposta patrimoniale, risulta poco convincente la sua inclusione nel calcolo di una aliquota implicita sui profitti.
Ancora più ambiziosa appare la scelta di condensare diversi tipi di tributi nell’ambito di un confronto internazionale, dato che la loro scelta e la loro valutazione dipendono sensibilmente dal disegno complessivo del sistema impositivo di ciascun paese. Come valutare ad esempio il peso dell’Irap in Italia rispetto agli altri paesi? Il secondo studio, nel caso della Francia prende in considerazione diversi tributi che si commisurano al costo del lavoro e che finanziano la sicurezza sociale; in quello dell’Italia, è considerata l’Irap che finanzia le Regioni e la spesa sanitaria. Anche il Regno Unito e la Germania finanziano la sanità con contributi che ricadono in parte sui datori di lavoro, ma nello studio non vengono considerati.
Un caveat finale è che, generalmente, queste analisi non tengono conto dell’incidenza economica dei diversi tributi che può essere sostanzialmente diversa dalla semplice incidenza formale.
Insomma, non è agevole valutare l’onere tributario che grava sulle imprese. Indicatori e approcci possono essere molto diversi e diversi sono i risultati che si ottengono. Occorre, quindi, molta serietà e cautela nell’interpretare a fini di politica tributaria i risultati di singoli studi.
(1) La recente normativa ha introdotto maggiorazioni di aliquota pari al 6,5 per cento dell’imponibile Ires (4 punti nel triennio 2011-2013) per le grandi imprese che operano nei settori del petrolio, del gas e dell’energia elettrica e nel settore della ricerca e della coltivazione di idrocarburi. L’aliquota Irap è più elevata per banche e assicurazioni e può variare su base regionale.
(2) Per valutare la convenienza a effettuare nuovi investimenti si utilizzano invece le aliquote marginali effettive (o forward looking) che sono indicatori di incidenza “teorica” e sono calcolate per diverse tipologie di investimenti (macchinari, attività immateriali, eccetera) e diverse ipotesi di finanziamento. In questa nota non trattiamo questi indicatori.
(3) Diversi studi misurano le aliquote implicite utilizzando i dati aggregati di contabilità nazionale. L’approccio si è sviluppato a partire dagli anni Novanta, parallelamente alla liberalizzazione commerciale e dei movimenti di capitale, per identificare il ruolo della competizione fiscale sulla struttura funzionale del prelievo (lavoro, capitale e consumo). La metodologia è stata inizialmente sviluppata da Mendoza et al. (1994), utilizzando i dati Ocse ed è stata successivamente sviluppata in ambito Eurostat (Taxation trends in EU).
(4) F. Crespi, A. Di Majo, M.G. Pazienza, “Le riforme dell’imposizione diretta sulle imprese italiane”, Working Papers n. 164, Collana del dipartimento di Economia, Università degli studi Roma Tre, 2012. La base dati è costituita da imprese con personalità giuridica operanti prevalentemente nei settori industriali.
(5) Già con l’introduzione dell’imposta erano deducibili dall’imponibile i contributi sociali Inail e il 70 per cento delle spese per i contratti di formazione lavoro. Successivamente sono state previste la deducibilità dell’intero costo del lavoro per i disabili e deduzioni per la creazione di nuova occupazione o legate alla dimensione di impresa.
(6) Nel valutare l’onere fiscale è infatti necessario guardare non solo alle aliquote legali e alla base imponibile, ma anche all’esistenza di ritenute alla fonte sui dividendi, interessi e royalty, al meccanismo di integrazione delle imposte adottato da ciascun paese (credito di imposta o deduzione), alla quota di partecipazione che discrimina nell’applicazione di particolari trattamenti di favore, come ad esempio la direttiva madre-figlia all’interno della Unione Europea.
(7) Rispettivamente: Pwc, Ifc, World Bank, Paying taxes 2013; e C. Cattani, G. Carrarese (a cura di), Imposizione societaria. Regimi fiscali a confronto, Deloitte e Confidustria, 2011.
(8) Nel 2010, per tutte le società (con e senza personalità giuridica), i profitti rappresentano circa il 40 per cento della base imponibile Irap. Inoltre, la valutazione dell’onere di questo prelievo non dovrebbe prescindere dal contesto in cui è stato introdotto. L’Irap, nel 1998, ha sostituito diversi tributi, tra cui l’Ilor (che pesava per il 16,2 per cento sulla stessa base imponibile dell’Irpeg), e i contributi sanitari, la cui aliquota era pari a circa il 9 per cento e commisurata al valore delle retribuzioni.
(9) “L’introduzione dell’Imu ha comportato per le imprese un forte aggravio fiscale a causa dell’incremento dei moltiplicatori. Il gettito derivante dagli immobili di proprietà delle imprese (ma anche di enti) e da fabbricati, negozi e uffici posseduti da persone fisiche è aumentato con il passaggio dall’Ici all’Imu e si stima abbia superato, nel complesso, i 10 miliardi nel 2012, cui occorre aggiungere parte del gettito riferito a terreni e aree edificabili. L’aumento dell’imposta (…) è stato anzi acuito dalla minore deducibilità ai fini delle imposte dirette e dell’Irap delle spese di gestione e manutenzione degli immobili”, Audizione al Senato della Repubblica, Banca d’Italia, 13 giugno 2013.
 

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  1. Emilio

    Bello studio!
    Ora qualcuno mi dica dove rendo i soldi per pagare tasse, contributi, balzelli e varie.
    Domani chiudo e vado a casa insieme ai “miei”.

  2. Hk

    Articolo importante. Avendo appena fatto il calcolo imposte d’azienda del 2012 non posso che, purtroppo, confermare. Poiché la crescita di un’azienda e’ proporzionale se c’è mercato all’utilizzo netto, non ci vuol molto a capire perché non cresciamo più.

  3. Luigi Di Porto

    Dai dati forniti si può dedurre che l’Italia potrà uscire dalla crisi prima di molti altri paesi, nel senso che la nostra impresa è come un centometrista che corre con uno zaino di piombo sulla schiena, basterà toglierlo e volerà primo al traguardo.
    Nell’esempio 2 colpisce soprattutto l’IRAP che, follia totale, colpisce il valore aggiunto, ovvero il cuore di un sistema manifatturiero che vive di trasformazione e quindi di valore aggiunto
    Devo però dire che ho sempre avuto, in molti ambiti, grossi problemi a spiegare il concetto di valore aggiunto, per il quale un’azienda che fattura 1 miliardo con 50 milioni di utile può benissimo essere più “piccola” e generare meno occupazione di un’azienda che fattura 100 milioni e ne fa 5 di utili.

  4. Federico B

    Editoriale interessante, tuttavia- incredibile visu – non si sente ancora parlare di come fare una vera SPENDING REVIEW. Mi scuso per l’enfasi, solo per scolpire il concetto. La spesa pubblica italiana pesa per oltre il 50% del Pil, ed è finanziata da un’enorme pressione fiscale, concentrata su lavoro ed imprese, nonchè da deficit che negli ultimi decenni hanno creato il più ingente debito pubblico OCSE (salvo Grecia e Giappone; quest’ultimo sta implementando anche unconventional policies). La lettera della Bce al governo italiano chiedeva «misure
    di correzione del bilancio» da ottenersi «principalmente attraverso tagli». dove sono? si vedono solo (ennesimi) rinvii. Omens aren’t good.

  5. Renato Chahinian

    Renato Chahinian
    L’articolo è molto interessante e comprende vari aspetti del problema.
    Al riguardo, desidero segnalare che la differenza tra aliquota legale (31,4%) ed aliquote effettive è generalmente rilevante e si è aggravata in questo periodo di crisi, in cui gli utili sono più bassi e la differenza tra l’imponibile fiscale ed il reddito lordo contabile (prima delle imposte) è comunque ampia.
    Dall’esame dei bilanci aggregati delle società di capitali italiane l’aliquota media effettiva 2007 è risultata del 45,9% e quella del 2011 (ultimi dati disponibili) è stata di ben il 77,4%. Ciò non compare nelle statistiche ufficiali e dimostra di fatto quanto penalizzata sia l’impresa italiana, ossia il luogo di produzione del reddito (ancora prima che questo venga distribuito), senza considerare i problemi di competitività.

  6. Claudio

    Trovo errati in sostanza gli studi di PWC e Deloitte in quanto non conteggiano il fatto che la tassazione IRAP riduce l’utile e quindi si forma una vera e propria mancata tassazione IRES per l’equivalente versato per l’IRAP. Stessa cosa per le spese del costo del lavoro che abbattono l’utile e quindi in realtà si ha una mancata tassazione IRES in questo senso. Ergo, è completamente sbagliato fare un confronto puro sui rapporti con l’utile, è completamente fuorviante.

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