A due anni dall’insediamento, Renzi traccia un bilancio del suo governo. E rivendica i successi raggiunti. Ma niente si dice sulla produzione industriale e le vendite al dettaglio che continuano ad arrancare. Le riforme e gli interventi concreti per tornare a una vera crescita.
I successi rivendicati
Con un leggero anticipo rispetto alla scadenza (così vogliono le leggi della comunicazione), il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha tracciato un sintetico bilancio dei suoi primi ventiquattro mesi di governo attraverso il consueto file di slide scaricabile dal sito di Palazzo Chigi. E ha coniato per l’occasione un nuovo hashtag: #ventiquattro. Dalle slide di #ventiquattro emerge un quadro di successi, a cominciare dal ritorno a una crescita positiva e alla riduzione del tasso di disoccupazione (anche di quello giovanile). Le slide non considerano quanto di questi successi possa essere ascritto a circostanze esterne (ad esempio al basso prezzo del petrolio e alle politiche della Bce). Sono però elencati altri sintomi di miglioramento nelle tante disfunzioni e nei mali atavici che opprimono l’Italia da decenni (cause civili pendenti, mancata digitalizzazione, evasione fiscale) che sono più probabilmente da ascrivere all’azione del governo. Anche su questo fronte si segnalano progressi, anche significativi. Dalla lista dei #ventiquattro compaiono “segni più” anche in aree finora dimenticate dalla politica: dal numero di visitatori nei musei ai ragazzi che fanno il servizio civile. Esce insomma un efficace riassunto della filosofia del premier, che vuole ridare fiato all’Italia con un misto di riforme approvate (Jobs act, abolizione delle province, riforma costituzionale) e di altre spesso impantanate sulla via crucis dei decreti attuativi (ad esempio, quelle della pubblica amministrazione e della giustizia). Di fianco alle riforme, iniezioni di fiducia a piene mani, anche con l’uso di denaro pubblico: per gli 80 euro, per azzerare l’imposta sulla prima casa, per dare 500 euro ai diciottenni e per gli agenti di polizia. Misure adottate perlopiù in deficit rinviando sistematicamente al futuro l’attuazione della spending review, ormai diventata l’araba fenice dei giorni nostri. Riforme e iniezioni di fiducia con denaro pubblico hanno l’obiettivo di modernizzare il paese preservando il consenso, oltre che di seppellire gli eccessi di auto-flagellazione del governo dei tecnici e l’indecisionismo dell’esecutivo di Enrico Letta.
Il grande problema irrisolto
La lista di successi del premier presenta però almeno altre due rilevanti dimenticanze e variabili omesse. La prima è la produzione industriale che ristagna ai livelli del 2013 (poco sopra ai minimi del 2009). La non ripartenza dell’industria dice che le riforme a metà, le iniezioni di fiducia e di denaro pubblico non bastano a ristabilire la convenienza a produrre in Italia per la generalità delle aziende italiane. Tra le #ventiquattro slide il premier sbandiera con orgoglio il recupero della produzione di autoveicoli e fa bene a sottolinearlo. Potrebbe anche aggiungere il successo del farmaceutico, fatto di penetrazione nei mercati esteri anche lontani e insieme della capacità di attrarre multinazionali a produrre in Italia. Ma la lista dei successi è troppo breve per alimentare una crescita più sostenuta della produzione industriale e quindi del Pil. E senza crescita più rapida del prodotto interno lordo i redditi familiari non aumentano abbastanza e così – il secondo elemento dimenticato nella lista del premier – le vendite al dettaglio stagnano anch’esse di poco sotto al livello del 2013. Con produzione industriale e vendite al dettaglio al palo, di quale crescita si parla? Certo, ristabilire le condizioni per rendere conveniente la localizzazione di impianti in Italia non è una missione facile. Come si fa ad aprire impianti in Italia se in Serbia il costo del lavoro è un quinto di quello italiano, se il costo dell’energia è il 40 per cento di quello italiano e se un’impresa che va lì a produrre sa di poter contare su sconti fiscali pluriennali? Senza dimenticare che producendo in Serbia si può poi esportare in Russia con un dazio dell’1 per cento, in barba alle sanzioni. A cambiare questo stato di cose non riuscì Silvio Berlusconi che, pur presentandosi con un programma nominalmente rivolto a liberare l’Italia dai lacci e laccioli della burocrazia e dello Stato, poi finì per concentrarsi sulla risoluzione dei suoi problemi personali lasciando le sue idee in buona parte intentate e comunque inattuate. Non ci riuscirono nemmeno i governi del centro-sinistra soffocati nel loro desiderio di innovare dai vincoli posti da un troppo stretto abbraccio sindacale. Oggi Matteo Renzi si è liberato – anche rudemente – dell’abbraccio del sindacato e delle liturgie della contrattazione. Ha anche infilato in un recente decreto lo snellimento di uno dei dinosauri del passato, la conferenza Stato-regioni. Ma se l’energia rottamatrice non si traduce in passi concreti per ridurre il costo dell’energia e il peso della tassazione su famiglie e imprese, il rischio è che si perda di vista il senso di tanto attivismo e che le belle slide rimangano efficaci strumenti comunicativi, colpevolmente mute però sulle difficoltà incontrate da troppe aziende italiane nel sopravvivere alle sfide della globalizzazione.
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Giorgia Sossi
In sostanza il governo non sta facendo nulla di veramente utile, nulla di quello che seriamente dovrebbe fare. Seri tagli alla spesa e conseguenti seri tagli alle tasse. Liberalizzazione del mercato e riduzione del perimetro statale dell’economia. Perché lodarlo per delle cose insignificanti o come nel caso della legge elettorale non migliorative o addirittura ingannevoli come nel caso della “abolizione delle provincie”?
francesco daveri
Mi scusi, non ho capito dove esattamente legge le “lodi” al governo nel mio pezzo, peraltro intitolato “Quello che è mancato nei primi #ventiquattro mesi di Renzi”.
Antonio Aquino
Nonostante in Serbia il costo del lavoro sia un quinto di quello italiano, la convenienza a produrre beni a mercato internazionale nel Nord dell’Italia deve pur esserci se è vero che gli scambi con l’estero di manufatti registrano un avanzo dell’ordine di 100 miliardi di euro all’anno per l’Italia nel suo complesso e di circa 150 miliardi di euro all’anno per le regioni del Nord dell’Italia. La carenza di competitività dell’Italia riguarda le regioni del Mezzogiorno; è in queste regioni che sarebbe opportuno concentrare gli sforzi volti ad aumentare la competitività mediante sgravi fiscali automatici che riducano il costo del lavoro (esclusivamente) nelle attività produttive a mercato internazionale, così da compensare le differenze di produttività rispetto al Nord dell’Italia ( pari a circa il 35%). Potrebbero così essere sfruttate al meglio le potenzialità di crescita economica e civile di un’area che ha 20 milioni di abitanti e un tasso di occupazione di circa il 40%, a fronte di un livello fisiologico dell’ordine del 70% (e di circa il 65% nel Nord dell’Italia).
Enrico
La grande assente è la spending review ed è molto preoccupante. Prima o poi sarà necessario applicare la spending review, volenti o nolenti.
Se la si pratica fin da subito, si può gestire la riduzione progressiva di sprechi e aree da cui lo Stato si può ritirare, controllando l’impatto sul tessuto sociale. L’alternativa è che la spending review si debba applicare obtorto-collo a causa di eventi traumatici (default/default-tecnico) partendo da un azzeramento generalizzato delle uscite statali e procedendo poi progressivamente “verso l’alto”, riattivando solo i servizi che si considerano fondamentali ad un livello minimo.
Andrea Scaglioni
La parte “Matteo Renzi si è liberato – anche rudemente – dell’abbraccio del sindacato e delle liturgie della contrattazione.” come elemento di favore allo sviluppo del paese è decisamente fuori luogo e decisamente non documentabile. Anzi, potrebbe essere più favorevole allo sviluppo un confronto con le parti sociali. Si è confuso ridurre le liturgie della contrattazione con l’eliminazione della contrattazione stessa, due cose decisamente differenti. Tanto come esempio il contratto del pubblico impiego non discusso da sei anni contraddice la necessità di dare reddito alle famiglie ed anche la necessità di migliorare la pubblica amministrazione.
Mario Rossi
Caro Andrea, ti segnalo che lo stato spende per i suoi inutili servizi centinaia di miliardi di euro all’anno tutti pagati dalle tasse di imprese che dovrebbero rendersi competitive. Sai quanto pago io di contributi? il 24% di quello che produco di utilie e non contenti, sempre sul lordo totale ci ripago il 35% di IRPEF, non contenti un altro 10% di IRPEF aziendale, non contenti non inacasso più l’IVA e mi ritrovo altri decine di migliaia di euro all’anno di indisponibilità liquida, non contenti devo spendere 30000 eruo all’anno di consulenze solo perchè per pagare le tasse ci vuole un corso di studi, non contenti in 1 litro di gasolio che costa 0,6 euro ci pago 0,6 euro di tasse e poi l’IVA sopra le tasse. I contratti pubblici non sono da rinnovare ma da cancellare per la stragrande maggioranza dei casi.
Andrea C
1) Buongiorno Prof. Daveri,
credo che uno dei mali atavici della nostra classe dirigente sia proprio quello di non avere lo “sguardo lungo” unito ad una mancanza di visione d’insieme. E l’incertezza a lungo andare crea solamente un pantano. Alle volte per riuscire bene bastano semplicemente poche idee, ma belle chiare. Per questo da un Buon Governo mi aspetto sostanzialmente tre cose.
Un piano industriale: su quali settori puntare? Come rendere agevole il loro sviluppo? Come formare personale e rendere agevole la riassunzione/riqualificazione delle persone? Spesso ci si scorda che fare studiare una persona è un “costo” se poi si lascia che questa vada da un’altra parte o resti a casa a girarsi i pollici; al contrario è un “investimento” se non si lascia indietro nessuno. E, francamente, sono stanco di sentire amministratori di aziende che si lamentano per la mancanza di personale competente: investano loro per primi in istruzione e percorsi professionalizzanti. E non solo per i “giovani”, ma per tutte le età.
Un piano energetico (in questo caso lo sguardo deve coprire un lunghissimo periodo, anche vent’anni): su quali fonti di energia puntare, rinnovabili o fossili? Possiamo produrla noi o dobbiamo acquistarla? Da quali Paesi?
2) Infine, prendere di petto il problema del debito pubblico. Viene quasi da chiedersi che non convenga a qualcuno che resti alto, dato sempre se ne parla, e sempre non si fa nulla. Al riguardo, quasi mi sentirei di proporre di costituire un fondo ad hoc, a contribuzione volontaria. Se davvero tutti i mali sono ascrivibili al nostro debito, allora sarebbe un bene se tutti contribuissero per abbassarlo. L’idea in sé può provocare scetticismo, ma si potrebbe anche istituire una sorta di patto tra gentiluomini: io, Stato, abbasso determinate tasse e mi rendo più efficiente; tu, cittadino, mettiti una mano sulla coscienza (e nel portafoglio). Dal resto anche lavoce.info chiede dei fondi.
Mario Rossi
Sono d’accordo, visto che io sono 2 mesi che non prendo un euro perchè non riesco a fare utili ma tiro avanti come meglio posso potrebbero stare anche i dipendenti pubblici qualche mese senza stipendio! non fa mica male ti fortifica la mente e il corpo! in fin dei conti se continua così non lo so chi potrà produrre per mantenere servizi che per la maggior parte non servono a nessuno.
Marcella Nunzi
Sono assolutamente d’accordo con quanto da lei scritto nel suo articolo. Essendo un dipendente della P. A. da ben 38 anni posso dire che la spending viene fatta su cose marginali (manca la carta, mancano i toner etc.). Ma siete certi che tutti gli acquisti avvengano tramite Centrale? NO. Siete certi che tutte le gare siano fatte nell’ottica di maggiore efficienza/minori costi? Mah! E tutte le proroghe contrattuali date per una cosiddetta urgenza dove le vogliamo mettere? Per non parlare poi della riforma della P.A.. In tempi non sospetti affermai che se Renzi ce l’avesse fatta a riformare questa casta di intoccabili lo avrei votato a vita. Credo che il mio voto non lo potrà avere perché …. non ce la farà. Sì è vero gli stipendi dei dirigenti generali sono stati abbassati a 240.000 € ma vi sembrano pochi (soprattutto in relazione a ciò che producono e alla mancanza assoluta di essere giudicati ed eventualmente puniti o retrocessi per non aver raggiunto obiettivi, visto che quelli che si danno sono sulla carta). Devono proprio rubare malamente per essere stoppati ma, da qualche altra parte poi li ricollocano sempre. Signori miei neanche Obama guadagna come un dirigente della pubblica amministrazione, senza poi considerare che se lo portano dietro anche sulla pensione in maniera spropositata. Fateli ruotare, spostateli da una amministrazione ad un’altra, da una regione ad un’altra, fate in modo che non possano vendere i cittadini con il potere a cui assurgono.
Mario Rossi
Cara Marcella, quando vai esci dal tuo lavoro domandati sempre come faccio io: ho prodotto abbastanza per coprire il costo del mio stipendio? Non è che voglio insinuare nulla perchè tu non hai nessuna colpa ma tutti dovrebbero prendere coscienza di quello che producono materialmente proprio e quello che prendono di stipendio. Ti farà bene capirai anche se i tuoi dirigenti e quelli che ce li hanno messi fanno gli interessi dello stato e dei cittadini che vi pagano oppure no. Non è secondario perchè il tuo stipendio lo pago anche io visto che verso 40000 euro di tasse all’anno e me ne rimandono in tasca meno.
marcello
Premetto che non ho condiviso l’abolizione di quanto previsto dall’art.18 dello SL. Cosi come non ho mai pensato che continui interventi sulll’offerta del mercato del lavoro potessero e possano accrescere l’occupazione.
Allo stesso modo condivido e per quanto mi è possibile sostengo l’azione del presidente del Consiglio in Europa. Non si ha UE senza crescita e la crescita non è possibile con qualche miliardo limato con la spending review. Anche il sostegno indiretto agli investimenti non funziona, come anche F. Fubini sul CdS sembra aver alla fine scoperto. Quanto poi ai prodigi del settore farmaceutico, faccio notare che come dicono i ns vecchi: una rondine nn fa primavera. Infatti se c’è un settore che versa in un’insoluta crisi di profittabilità è quello farmaceutico. Ricordo che i rcavi nel settore della R&D del farmaceutico sono passati dal 20% al 10% nel 2000-2010 e dal 10% al 4,2% nell’ultimo quinquennio. Inoltre che il tasso di successo nei trial cinici è del 19% (16% per self-originated durgs). Infine che il costo di una nuova molecola commercializzata è passato da 54 mln degli anni 70 ai 2,6 miliardi del 2015.
Non è ancora il momento di mobilizzare parte delle riserve di assicurazioni e casse previdenziali con un fondo di asset pubblici non strategici garantito da CdP? Cosa deve ancora accadere per convincersi che la politica monetaria in una trappola della liquidità non funziona, che se le aspettative sono deflattive gli imprenditori non investono?
riccardo gallottini
prof Daveri, sul costo dell’energia il governo ha gia’ ridotto alcuni oneri per le PMi. Forse non basta ma ricordiamo che a qualcuno dai e a qualcuno togli. Il gioco e’ a somma zero anche perche’ il prezzo dell’energia salvo gli oneri di sistema e’ determinato dal mercato. quello che si puo’ fare e’ rafforzare ulteriori strumenti indiretti che abbassino il costo dell’energia (vedasi efficienza energetica) anche se dovrebbe essere fatto senza gravare sui cittadini (se no diventa come la bolletta a3 delle rinnovabili).
Amegighi
Avanzo una timida domanda da non esperto economista, ma con esperienza nel mondo della ricerca scientifica.
Come non si fa ad andare in Serbia ? Forse puntando sempre più su un tipo di produzione ed impresa altamente tecnologica, altamente innovativa. Insomma puntando a fare quello che non fanno gli altri, e non a fare (meglio) quello che possono fare gli altri a costo minore. Il 30% della spesa in R&D del mondo è dato dagli USA, il restante più o meno 30% dai paesi asiatici ed il 30% dall’UE. La Germania dà l’8% della spesa mondiale in R&D. Non vorrei essere esagerato, ma certe spiegazioni stanno tutte in questi numeri (Fonte NSF USA)
Michele
Forse i costi dei fattori produttivi non sono l’unico elemento che determina la localizzazione degli impianti. Altrimenti non si spiega perché in Germania nel 2014 si siano prodotte 5,4 milioni di automobili e in Italia solo 0,4 milioni (dati Acea – 2014). Molto dipende anche da cosa si produce e in particolare da quale valore aggiunto si genera. Quindi da scelte imprenditoriali.
Maurizio Cocucci
Quello che manca in Italia (da decenni) è una strategia globale di lungo periodo. Purtroppo la politica si occupa del presente ed è orientata più a provvedimenti atti ad ottenere consensi elettorali. Il governo Renzi ha preso delle buone decisioni anche se poteva fare meglio nei contenuti e mi riferisco ai famosi 80 euro mensili che così presentati avevano più lo scopo di ottenere consenso che di realizzare un risparmio fiscale che si sarebbe ottenuto meglio rivedendo le aliquote fiscali Irpef e magari riducendo drasticamente la prima: come si può partire da un 23%?! Poi ci sono altre decisioni alquanto discutibili soprattutto se poi coinvolgono i vincoli di bilancio europei e mi riferisco all’abolizione della TASI la cui decisione è stata criticata (a ragione) dalla Commissione Europea. Renzi ha risposto che siamo uno Stato sovrano pienamente legittimato nello scegliere indipendentemente ed autonomamente le politiche fiscali. Vero, solo che poi se ti rechi a Bruxelles chiedendo più margini in fatto di deficit perchè con questi provvedimenti non copri le spese, non ti meravigliare se la risposta è negativa. E la cosa che occorre tenere ben presente non è tanto il NO da parte di Bruxelles, quanto il fatto che nessun investitore finanzierà la tua spesa corrente perchè hai deciso di fare uno sconto ai contribuenti del tuo Paese unito al fatto che non vuoi applicare una spending review e una seria lotta sia all’evasione fiscale.
Savino
Mancano: la rottamazione, la meritocrazia, lo svuotamento del privilegio, il decisionismo, il politicamente scorretto.
Assurdo scagliarsi contro l’austerity che è stato l’unico argine alla crisi. Si pensi piuttosto a fare una seria spending review.
Alessandro Pescari
Quello che manca al nostro Paese è una seria politica industriale, tenendo presente il tessuto produttivo. Ossia molte PMI, composte da famiglie. È qui che si dovrebbe agire, puntando sulla manifattura di qualità (4A) e mettendo in condizione le nostre imprese di essere realmente competitive. Oltre alla doverosa riduzione del cuneo fiscale/contrbutivo devono essere semplificati tutti procedimenti amministrativi/ giudiziali. Un esempio per finire: a Pistoia una causa di lavoro (primo grado) occorrono in media 4/5 anni!
Orarossa
. . . quando penso al “Ronzino” (si ronzino in quanto ha ampiamente dimostrato di non essere un cavallo di razza!), quando penso al “Ronzino” appunto mi viene in mente immediatamente un politico di vecchio stampo, un mestierante che innanzi tutto si occupa della gestione del suo Potere, della suo “cerchi magico” poi, se ne rimane, forse delle esigenze del paese.
Ho tanto sperato in un autentico Statista, di una persona capace e visionario che potesse veramente “rottamare” il paese dal vecchiume per unire tutte le forze buone e fare Sistema.
Nulla di tutto ciò, ha diviso gli italiani in servi e gufi ha isolato ulteriormente l’Italia sia in EU che nel mondo e lo stesso Ronzino riscuote credibilità zero nella diplomazia mondiale tanto che è perennemente assente dai tavoli che contano!
Consideriamo inoltre che, come tutti i politici incapaci di creare consenso attraverso geniali e condivisibili idee, cerca di gestire il Potere devastando la nostra Carta Costituzionale.
Spero vivamente che il popolo italiano, in un sussulto di lucidità, bocci l’iniziativa attraverso il referendum confermativo.
In breve: prima se ne va nella sua casa di Rignano, meno cocci raccoglieremo alla fine della sua sgangherata azione di governo.
Gabriele
Egr. professore, vorrei che mi spiegasse perché come mai la Bulgaria non risulta abbia attratto tutte le aziende d’Europa, visto che ha il (triste) primato del più basso costo del lavoro? Grazie
Henri Schmit
Mi stupisce nelle slides #ventiquattro il dato sull’investimento straniero : cinque volte quello del periodo precedente! Temo che qualcosa, qualche spiegazione, mi sfugga, perché da almeno dieci anni vedo soprattutto multinazionali che disinvestono nella penisola, trasferiscono interi rami di attività, a volte con parte delle risorse umane italiane, in altri paesi, non necessariamente meno sviluppati dell’Italia.
Andrea C
Bungiorno. Azzardo io una possibile risposta: aziende come Pirelli, Fiat e Ducati (ma solo per citarne alcune) non sono più “italiane”. Quindi i capitali investiti in queste aziende sono, di fatto, “stranieri”.
Michele
La definizione di FDI (foreign direct investment) è molto ampia e include anche casi come l’acquisizione di Pirelli da parte dei cinesi , Bulgari e Loropiana da parte dei francesi, Ducati da parte dei tedeschi etc etc Ovviamente questi casi non hanno nulla a che vedere con investimenti in Italia, ma sono acquisizioni di aziende con sede in Italia da parte di stranieri. Cosa che magari prelude a maggiori delocalizzazioni. Il prezzo dell’acquisizione viene pagato agli azionisti venditori (in parte anche non italiani) che li reinvestiranno presumibilmente in tutto il mondo secondo logiche di financial asset allocation. Cosa ben diversa sono gli investimenti nel paese (cosa che concordo con Lei manca): nuovi impianti, reti di vendita, laboratori di ricerca etc
Henri Schmit
Giustissimo! Forse c’entra pure la voluntary disclosure.