Si preannuncia battaglia al Senato americano sulla nomina di Merrick Garland a giudice della Corte suprema. La scelta non influenza solo le decisioni nella sfera dei diritti personali, ma anche quelle su altre materie, come il diritto dei mercati finanziari. Giudici pro-impresa o pro-investitori.
Una nomina dovuta
Con l’annuncio della nomina del giudice Merrick Garland alla Corte Suprema, in sostituzione del brillante e caustico campione del conservatorismo Antonin Scalia scelto da Ronald Reagan nel 1986, Barack Obama adempie a un suo preciso dovere costituzionale. La Costituzione americana richiede però che la nomina avvenga «with the advise and consent» (“con il consiglio e il consenso”) del Senato, ossia che sia confermata, dopo un’accurata audizione, dalla commissione affari giuridici della Camera alta. E in questo caso, i repubblicani hanno subito detto di voler ostacolare la nomina, sostenendo che un presidente nel suo ultimo anno di mandato dovrebbe lasciare la scelta al suo successore (che, naturalmente, sperano sia di destra), considerato il ruolo fondamentale della Corte suprema.
È un argomento privo di fondamento giuridico, ma è debole anche sul piano dell’opportunità politica. Con la nomina, Obama ha messo i repubblicani davanti a una scelta difficile: accettare il candidato oppure gettarsi in un ostruzionismo a oltranza nei confronti di un giudice moderato e apprezzato sia dalla sinistra che dalla destra (moderata). Ciò darebbe ai candidati democratici alla presidenza (leggi: Hillary Clinton) un buon argomento per denunciare l’irresponsabilità istituzionale degli avversari, tanto accecati dalla partigianeria da essere disposti a lasciare la Corte monca di uno dei suoi nove membri per circa un anno. I più cinici dicono anche che Garland è un agnello sacrificale proprio per questo obiettivo.
Decisioni e posizioni politiche
Il sistema americano, che prevede un procedimento “politico” di nomina dei giudici federali, può apparire discutibile nella prospettiva europea, dove alla magistratura si accede generalmente per concorso pubblico. Oltreoceano – e forse con qualche ragione – si ritiene tuttavia ipocrita l’idea che i magistrati siano una passiva “bouche de la loi” che applica il diritto senza alcuna inclinazione “ideologica”, e si pensa invece che la migliore garanzia di imparzialità stia in tribunali in cui sono rappresentate prospettive diverse.
Innumerevoli studi hanno esaminato la correlazione tra posizione politica dei giudici – in particolare della Corte suprema – e le loro decisioni, generalmente trovando una corrispondenza.
Se ciò è intuibile su questioni “calde” quali aborto, diritti Lgbt, pena di morte, protezione dell’imputato, azioni affermative, libertà religiosa e di espressione, possesso delle armi e così via, forse più interessante è chiedersi se le inclinazioni personali incidono anche in materie più tecniche, come ad esempio il diritto dei mercati finanziari. Solo apparentemente si tratta di settori più asettici in cui ideologie e posizioni personali non giocano un ruolo: con una forte semplificazione, i giudici conservatori tendono a credere maggiormente nella capacità del mercato di autoregolarsi e nella necessità di favorire la libera impresa, mentre i più progressisti (“liberal”, nell’accezione Usa) sono più preoccupati dai fallimenti del mercato, sostengono un più deciso intervento dello Stato nell’economia e ritengono necessarie rigorose protezioni per gli investitori in particolare non sofisticati.
Ciò che è difficile in queste ricerche è, innanzitutto, definire e misurare con precisione un concetto sfuggente come quello di ideologia. Vi sono diversi modi per farlo: uno dei più accreditati è il cosiddetto “Segal-Cover Score”, che misura da 0 (estrema destra) a 1 (estrema sinistra) l’orientamento politico dei giudici sulla base di articoli comparsi nella stampa che attribuiscono loro specifiche posizioni. Inoltre, nel settore della finanza non è sempre facile stabilire se una decisione sia, diciamo così, “pro business” o “pro investors”.
Con Johannes Fedderke, in un articolo recentemente pubblicato dalla Florida Law Review, abbiamo fatto questo esercizio per poco meno di quaranta giudici che si sono succeduti sulla Corte suprema dagli anni Trenta al 2011, verificando i singoli voti (non sono segreti e possono essere dissenzienti) in circa cinquanta decisioni di securities regulation (regolamentazione dei valori mobiliari). Il grafico sotto, ad esempio, riporta i risultati della correlazione tra indice Segal-Cover e percentuale di voti “pro business”.
Grafico – Indice Segal Cover e percentuale dei voti pro business
Una correlazione, ancorché parziale e da prendersi con cautela, emerge. In particolare, i giudici più conservatori votano coerentemente a favore di interessi imprenditoriali: si vedano ad esempio proprio il recentemente scomparso Scalia, ma anche Alito, Thomas, Roberts, e Rehnquist. Fanno il contrario, invece, i giudici liberal: Sotomayor, Kagan (entrambe scelte da Obama), Ginsburg o, ancora più indietro nel tempo, Douglas o Warren.
Anche su questi temi, dunque, le divisioni politiche contano. Sostituire Scalia con il pur moderato Garland significa indubbiamente spostare il baricentro di una delle Corti più importanti del mondo verso il centro, con ripercussioni per i prossimi decenni che vanno dal matrimonio gay a, appunto, insider trading e responsabilità delle società quotate per informazioni scorrette. Forse i giornali ne parleranno meno, ma anche di questo si terrà conto nelle discussioni tra il 1600 di Pennsylvania Avenue e Capitol Hill.
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Henri Schmit
Altro che mercati! L’interessante articolo tocca attraverso una questione apparentemente tecnica e secondaria uno dei punti cruciali di qualsiasi ordinamento democratico, anzi il nodo aporetico del costituzionalismo liberale: chi decide, la legge o gli uomini, il diritto o la maggioranza, i giudici o il parlamento, i rappresentanti o i cittadini? Il legislatore, per esempio, può riformare drasticamente e di un colpo il sistema pensionistico o deve rispettare presunti diritti acquisiti interpretati e definiti in ultima analisi dai giudici supremi? Quale tipo di giustizia suprema preferire, una diffusa ed ordinaria come negli USA o una specializzata e straordinaria come nella maggior parte dei paesi europei (con le eccezioni significative di UK e di CH)? Chi nomina i giudici in generale e quelli supremi in particolare? Se il verdetto dei giudici può bloccare il legislatore (incostituzionalità della legge) è ammissibile che possa opporsi anche alla preferenza netta e costante della maggioranza dei cittadini? Non sarebbe doveroso o logico avere in una democrazia (“la sovranità appartiene al popolo”) come ultimo arbitro il popolo che si esprime nel rispetto di certe procedure (in modo da evitare decisioni sconsiderate o casuali)? Gli Svizzeri, la loro costituzione del 1848 più volte modificata e perfezionata, le loro istituzioni (le due camere, i tribunali, i partiti) e i loro esponenti la pensano così. E io sono d’accordo con loro.
LUCIANO PONTIROLI
Ci sono anche dei valori riconosciuti dalle carte costituzionali e da accordi sovranazionali, come la Convenzione Europea sui Diritti Umani, che non possono essere lasciati alla mercé delle maggioranze politiche transitorie: almeno, questa è la scelta dei sistemi che riconoscono la Rule of Law. In un mondo nel quale il potere tende ad accentrarsi, è importante difenderla.