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Più rischi che benefici dai piani individuali di risparmio

I piani individuali di risparmio puntano a convogliare risorse verso l’economia reale attraverso un sostanzioso beneficio fiscale. Ma i rischi per i risparmiatori sono molti e i vantaggi potrebbero essere solo per banche e intermediari. Meglio affidarsi a strumenti con costi di gestione inferiori.

Piani di risparmio con incentivo fiscale

Con il 2017 arriva una novità per i risparmiatori italiani: i Pir, o piani individuali di risparmio. L’idea è semplice: per favorire il confluire del risparmio nell’economia reale, i proventi di investimenti in azioni e obbligazioni di società non quotate e residenti in Italia (per esempio attraverso fondi comuni) verranno completamente detassati.
I vincoli principali sono che l’investimento deve essere mantenuto per almeno cinque anni e che non è possibile investire più di 30mila euro l’anno e 150mila euro nell’arco dei cinque anni. Il vantaggio fiscale è rilevante dal momento che in Italia i rendimenti sono tassati al 12,50 per cento nel caso di titoli di Stato e assimilati e al 26 per cento per le altre tipologie di investimento.
Cercare di convogliare risorse verso le tante imprese italiane troppo piccole per rivolgersi direttamente al mercato azionario o obbligazionario è sicuramente condivisibile. Tuttavia, c’è da chiedersi se vi sia un vantaggio reale anche per i risparmiatori italiani. I dubbi, a questo proposito, sono molteplici.
Innanzi tutto, l’incentivo fiscale spinge verso investimenti poco liquidi e rischiosi. I rischi sono solo in parte stemperati dalla diversificazione operata dal fondo e da alcuni vincoli sulla concentrazione del suo portafoglio di investimenti.
In secondo luogo, l’investimento nei Pir aumenta l’esposizione al rischio “Italia”, già rilevante dal momento che i risparmiatori sono ampiamente scoperti su questo fronte: per esempio, per i rischi legati al posto di lavoro e ai valori del mercato immobiliare e dei titoli di stato.
Terzo, il beneficio fiscale potrebbe finire nelle tasche di banche e intermediari, e non dei risparmiatori.

I conti con le commissioni

Consideriamo infatti un investimento in un Pir pari a 150mila euro per trenta anni e con un rendimento medio pari al 2 per cento. Se non ci fossero commissioni, il valore finale sarebbe di poco oltre 265mila euro. In questo caso, il risparmio fiscale sarebbe di circa 30mila euro (ovvero, il 26 per cento della differenza tra il valore finale e iniziale dell’investimento). È probabile che questa sarà la cifra reclamizzata dagli intermediari per invogliare il risparmiatore. Tuttavia, le banche vorranno essere retribuite e le commissioni di gestione possono cambiare, e di non poco, il risultato finale. Uno dei primi Pir a essere collocati in Italia è il fondo Anima Crescita Italia che, da prospetto, richiede una commissione di entrata pari al 4 per cento e una annua pari all’1,46 per cento (oltre a commissioni di performance che entrano in gioco se i rendimenti superano alcuni livelli). In questo caso, anche senza prendere in esame le commissioni di performance e considerando il medesimo rendimento annuo pari al 2 per cento, il valore finale dell’investimento sarebbe di poco meno di 170mila euro per un risparmio fiscale di soli 5mila euro.
In molti altri paesi, una quota sempre maggiore di investitori scegli fondi a cosiddetta “gestione passiva” con commissioni molto basse, nell’ordine dello 0,25-0,50 per cento per anno. In Italia, per la scarsa concorrenza del settore, questi fondi sono quasi inesistenti. Tuttavia, i risparmiatori hanno la possibilità di investire in Etf (Exchange Traded Funds) che, pur con alcune differenze, sono simili ai fondi passivi e hanno bassi costi di gestione. Per valutare l’impatto delle commissioni consideriamo il risultato di un investimento, su trenta anni e con un rendimento medio del 2 per cento, in un Etf con commissioni pari allo 0,5 per cento. Il valore finale dell’investimento sarebbe di circa 230mila euro. Dal momento che il rendimento viene tassato al 26 per cento, il valore finale, al netto delle tasse, sarebbe di circa 210mila euro, ben più dei 170mila del Pir, nonostante i minori rischi dell’investimento.
Questo semplice esempio serve, ancora una volta, a sottolineare i costi di un sistema finanziario poco concorrenziale. Il governo farebbe meglio a utilizzare la leva fiscale per premiare il risparmio di lungo termine, con una riduzione progressiva delle aliquote in funzione dell’orizzonte di mantenimento, a prescindere dalla tipologia di investimento, e a spingere i risparmiatori verso forme di investimento con minori commissioni di gestione (per esempio, rendendo opzione di default, nei piani pensionistici, investimenti a gestione passiva), come già avviene in tanti altri paesi. Il compito di finanziarie le piccole e medie imprese è meglio sia lasciato a fondi di private equity e investitori istituzionali.

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Il Punto

  1. Il PIR è una grande occasione ed un ottima idea, e c’è un grande potenziale per i risparmiatori, basta paragonare l’andamento dell’indice MIBSTAR con quello del FTSEMIB negli ultimi 5 anni. Certo sarebbe bello avere un ETF sullo STAR…

  2. Patrizio Basile

    Buongiorno, concordo con la sua analisi.
    Sottolineo però nello specifico che la commissioni di gestione del fondo Anima sono “relativamente” in linea con quelle applicate da fondi che non sono Pir compliant.
    Dalla normativa, se non sbaglio, quello che definisce un Pir è la sua composizione e individuazione come tale, permettendone la gestione anche attraverso un deposito amministrato e, in questo caso, con oneri ridotti rispetto ad un prodotto gestito.
    Altro poi è la scelta consapevole da parte del risparmiatore dell’allocazione di portafoglio che nel caso di un rapporto amministrato, potrebbe essere oggetto di consulenza da parte dell’intermediario in base a specifico contratto. E, in questo caso, le commissioni di gestione cambiano nome e si ritorna alla partenza.
    Personalmente mi sembra un tentativo, magari timido e sicuramente migliorabile, di incentivare una forma di risparmio.
    Cordialmente.

  3. Michele

    Mi domando perché debbano essere i piccoli risparmiatori (allettati con risparmi fiscali su eventuali capital gain) a finanziare quelle “imprese per le quali è maggiore il fabbisogno finanziario e che hanno maggiori difficoltà a reperire risorse tramite il canale bancario”, cioè gli investimenti più rischiosi e meno liquidi possibile, ormai scartati dalle banche.

  4. bellavita

    mi sembra un festival per intermediari e una quasi certa fregatura per risparmiatori:almeno metterci un’assicurazione per la restituzione del cap. investito. Ma perchè non si pensa di esentare da ogni imposta gli interessi sul prestito irredimibile, l’antica rendita della belle époque?

  5. Nicola Caporaso

    Più che un’analisi mi sembra una polemica pretestuosa ad un’iniziativa che in molti paesi europei sono anni che da ottimi risultati. Al di là dell’opinione dell’autore, starei attento a fare un pò di analisi qualitativa…

    • Se fai i conti utilizzando come orizzonte temporale solamente i 5 anni la commissione di entrata ti azzera quasi completamente il guadagno.

  6. Gusbrand

    Ma il vantaggio fiscale, non vale solo per i 5 anni?Quindi perchè considerate un tempo di 30 anni?

  7. Gusbrand

    ho letto l’articolo di Nicola Borri riguardo i Pir e nell’esempio considera il vantaggio fiscale per un investimento di 30 anni, ma il vantaggio fiscale non vale solo per 5 anni?

    • Tiziano coati

      La condizione è di detenere il PIR per almeno 5 anni. Non è stabilita la durata max. L’ esenzione fiscale è sui proventi del PIR per l’intera sua esistenza, purché mantenute le caratteristiche da normativa di riferimento.

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