Il decreto legislativo che sancisce il diritto all’educazione nella prima infanzia stanzia anche le risorse che dovrebbero renderlo effettivo. Non sono molte. E la loro distribuzione dovrebbe tenere conto delle disparità regionali nella copertura dei servizi, soprattutto per gli asili nido.
Diritto all’educazione nella prima infanzia
Nella seduta del 14 gennaio 2017, il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto di decreti legislativi dando seguito ai programmi contenuti nella legge 107/2015 (la “Buona scuola”).
Unificando la gestione degli asili nido e delle scuole d’infanzia (bambini da 0 a 6 anni), sotto l’egida del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, si sancisce il diritto all’educazione, in particolare per gli asili nido (fascia 0-3 anni), come servizio pubblico fondamentale. Il diritto era stato già garantito a livello nazionale dalla legge 42/2009 (federalismo fiscale), le cui disposizioni però sono state solo parzialmente applicate. L’obiettivo è ora quello di eliminare le sperequazioni territoriali e di aumentare l’accesso al sistema di educazione e istruzione per la prima infanzia.
Il disposto legislativo tiene conto degli orientamenti europei, come quelli del Quality framework for Early Childhood Education and Care (ottobre 2014, Commissione europea), volti a eliminare la cesura tra i due periodi della prima infanzia: 0-3 e 3-6 anni.
Il testo dello schema di decreto legislativo, che attende il parere delle commissioni Cultura, Affari sociali e Bilancio, prevede la creazione presso il ministero del fondo nazionale per il sistema integrato di educazione e di istruzione (articolo 8, 12-13) con risorse pari a 209 milioni di euro per l’anno 2017, 224 milioni di euro per l’anno 2018 e 239 milioni di euro a decorrere dall’anno 2019.
Sono sicuramente stanziamenti non sufficienti a coprire il fabbisogno reale del servizio, data la situazione drammatica di partenza e la congiuntura economica che di certo non aiuta le famiglie con uno o più figli a sostenere parte delle spese.
La ripartizione delle risorse tra le regioni (articolo 12, comma 4 del Dlgs) avverrà con il “Piano di azione nazionale pluriennale” da adottare entro sei mesi e di intesa con la Conferenza unificata: è auspicabile che tenga conto della forte sperequazione territoriale, soprattutto sulla capacità di accoglienza degli asili nido, considerato che, come evidenziato dalla stessa Relazione illustrativa al decreto, la copertura per le scuole d’infanzia raggiunge già il 95 per cento dell’utenza.
Come calcolare il fabbisogno
Uno dei possibili criteri di ripartizione è un indice di fabbisogno regionale costruito come rapporto tra il numero di coloro che non hanno trovato posti disponibili negli asili nido della regione (c.d. esclusi) e il totale degli esclusi a livello nazionale. In genere la ripartizione regionale delle risorse viene fatta calcolando la platea dei potenziali beneficiari – quindi la sola popolazione target residente – ma la presenza di un indice di copertura del servizio ci permette di calcolare l’effettivo bisogno, integrando la capacità dell’offerta del servizio pubblico su base regionale al dato demografico. L’indice è semplice da calcolare e in una seconda fase potrebbe essere usato anche per la distribuzione delle risorse a livello comunale, seppure integrandolo con la capacità fiscale dei comuni (vedi ultimo rapporto Mef – 2015) e le peculiarità territoriali (per esempio, assenza totale di strutture).
Gli ultimi dati a disposizione per quanto riguarda gli asili nido e gli enti parificati sono quelli del Monitoraggio piano nidi dell’Istituto degli Innocenti, relativi al 2013. Calcolando i posti “scoperti” sul totale della popolazione 0-2 anni per regione (grafico 1), si possono attribuire le percentuali di fabbisogno regionali date dal numero esclusi per regione su numero esclusi totale.
Grafico 1 – Fabbisogno numerico asili nido (esclusi su popolazione residente 0-2 anni) e percentuali regionali su totale esclusi.
I dati relativi alla copertura dei posti disponibili rispetto alla platea dei potenziali beneficiari evidenziano una disparità regionale forte, di cui fanno le spese alcune regioni del Sud, ma anche regioni come la Lombardia, il Lazio e il Veneto, a causa soprattutto dell’alto numero di residenti.
La tabella 1 contiene la possibile ripartizione regionale della dotazione del nuovo fondo per il 2019, tenendo conto del nostro indice. In tutto, si tratta di 209 milioni che verranno distribuiti ai comuni in due passaggi: con intesa stato- regioni per le quote regionali e, successivamente, attraverso programmazione regionale, sulla base delle richieste degli enti locali (la questione delle competenze è stata anche oggetto della sentenza Corte costituzionale 22.11.2016 n. 284).
Tabella 1 – Simulazione di riparto risorse nuovo fondo nazionale per il sistema integrato educazione e istruzione per il 2017
Attraverso una corretta allocazione delle risorse si tende a garantire l’universalizzazione sul territorio dei servizi per la prima infanzia. Un passo successivo è quello di garantire l’universalismo anche a livello verticale, eliminando criteri d’accesso discriminanti e in parte responsabili del cosiddetto “effetto Matteo”: ad accedere sono le fasce più agiate mentre sembrano essere escluse quelle più deboli.
Per questo è auspicabile che la politica dei requisiti d’accesso, che spesso paradossalmente penalizzano famiglie di lavoratori precari o i disoccupati, diventi fra qualche anno un triste ricordo del passato.
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Valerio Tramutoli
Caro Marco
fa impressione come la banalizzazione dei numeri porti a conclusioni (e purtroppo azioni) a volte contrarie alle intenzioni
Naturalmente scoprire che la mia Regione (la Basilicata) abbia il terzo fabbisogno più basso e addirittura inferiore a quello delle P.A. di Trento e Bolzano, davvero mi inorgoglisce. Anzi mi inorgoglirebbe se l’ISTAT, nel suo rapporto (su ASILI NIDO E ALTRI SERVIZI SOCIO-EDUCATIVI PER LA PRIMA INFANZIA, 2013/14, l’ultimo), non mi dicesse che questo non dipende da una grande offerta di posti ma da una bassissima domanda. Il numero di utenti (bambini 0-2 anni presi in carico da parte dei Comuni italiani), è di 1,4 su 100 in Calabria, 2,2 in Campania, 6,5 in Basilicata, 15,8 in Trentino, 15,0 in Lombardia etc. (Tav. 1.1). E’ noto infatti che il servizio di asilo nido in Italia non è gratuito e che laddove l’occupazione femminile (e il reddito medio) sono più bassi, anche il pagare la retta dell’asilo può risultare un problema e comunque, per paradosso, un ulteriore incentivo (principalmente) per le donne a restare a casa ad accudire figli (se non parenti anziani) risparmiando così la retta dell’asilo (o della badante), rinunciando spesso in tal modo alla ricerca (per quanto difficile) di un possibile lavoro o a un percorso di studio. Naturalmente gli esoneri per reddito non bastano (i Comuni hanno a bilancio somme insufficienti ad alzare le soglie ISEE) sicché non credi che questo DL richiederebbe un ulteriore approfondimento? Un’abbraccio
Marco Marucci
Caro Valerio, come ben dici la banalizzazione dei numeri può nascondere tante insidie. Dietro il numero di bambini iscritti all’asilo ci sono tante dinamiche nascoste: gli iscritti per un solo anno o per frazioni di esso, gli iscritti ad asili convenzionati piuttosto che asili gestiti direttamente dal comune (in Basilicata la percentuale è alta), i contributi alle famiglie come voucher etc. (in Basilicata la percentuale è bassissima, seconda solo alla Calabria). Altre misure di conciliazione vita-lavoro non riuscite o insufficienti a livello nazionale hanno contribuito a questa situazione drammatica, nella sua come in altre Regioni. Non mi riferisco solo al tasso di copertura ma ad esempio al fatto che intere zone/comuni non abbiano servizi per la prima infanzia. il DL in questione andrebbe sicuramente implementato con un maggiore apporto di risorse ma io spero che questo sia per lo meno l’inizio di un percorso di lettura di fabbisogni e monitoraggio che verrà con buona probabilità condotto dal MIUR.
Per quanto riguarda le percentuali di fabbisogno sottolineo il fatto che non si tratta di percentuali di copertura all’interno della Regione (vedi Indicatore di presa in carico ISTAT) ma di percentuale di quella copertura rispetto al dato nazionale. In questo calcolo influisce ovviamente molto la popolazione della Regione rispetto al totale Italia. Altre Regioni anche con copertura interna maggiore (come ad esempio la Lombardia) hanno un numero di ‘esclusi’ comunque superiore.
Marco Esposito
E poi cosa è accaduto? Che ministero e Regioni se ne sono fregate di qualsiasi principio di riequilibrio territoriale e hanno assegnato le risorse in base agli iscritti agli asili nido. Vedi Conferenza unificata del 2 novembre 2017.
Maria Prodi
Con questo criterio le Regioni sarebbero incentivate a cancellare i posti nido per aumentare i finanziamenti. L’Istituto Innocenti sopra citato ci spiega che per ogni 106 richieste di posti ce ne sono 97 accettati. Di questi fra rinunce, abbandoni e morosità se ne perdono quasi il trenta per cento. E quasi tutti per motivi economici. Quindi abbassare le tariffe dei posti offerti, lì dove ci sono, è condizione necessaria per sostenere la richiesta del servizio. Senza la quale richiesta l’offerta non può crescere. Senza peraltro abbandonare l’obiettivo all’allargamento dell’ offerta, soprattutto dove è scarsa. I riparti dal 2007 in poi hanno riversato molte risorse su Regioni che hanno spostato di pochissimo la loro copertura. Quindi i criteri di riparto devono essere decisamente più articolati e ponderati di quanto indicato nell’articolo.