Emmanuel Macron ha vinto le presidenziali in Francia. Per realizzare il suo programma ha ora il problema di trovare una maggioranza nell’Assemblea nazionale. Perché è difficile che il suo neonato partito ottenga la maggioranza alle elezioni di giugno.
Repubblica semi-presidenziale e doppio turno
Domenica 7 maggio, l’elettorato francese ha sancito la vittoria di Emmanuel Macron alle elezioni presidenziali. Aveva guadagnato il diritto al ballottaggio (insieme a Marine Le Pen, 21 per cento) ottenendo il 24 per cento dei voti al primo turno. Al secondo turno, il leader di En marche! ha vinto con il 66 per cento dei consensi. Ma che poteri ha il presidente della repubblica francese? E quali sono i suoi rapporti con il parlamento?
La Francia è una repubblica semipresidenziale: il presidente è sì eletto direttamente dalla popolazione (votazione a due turni), ma non svolge il ruolo di primo ministro. Al contrario, negli Stati Uniti, repubblica presidenziale, esiste solo il “President of the United States” (Potus), che si circonda di “segretari”, cioè i ministri. Mentre in Italia, repubblica parlamentare, il presidente della repubblica è eletto dal parlamento (allargato) e il presidente del consiglio è nominato dal presidente della repubblica, fatta salva la necessità di ottenere anche un voto di fiducia da parte del parlamento.
In Francia, dunque, convivono elementi tipici sia del regime presidenziale (come l’elezione diretta del presidente della repubblica e il suo potere di nomina del governo) sia del regime parlamentare (in particolare, il rapporto fiduciario tra assemblea nazionale e governo).
L’assemblea nazionale è eletta anch’essa con una legge elettorale a doppio turno, utilizzando collegi uninominali. Se al primo turno nessun candidato del collegio raggiunge la maggioranza assoluta, accedono al secondo tutti quelli che superano una soglia minima di voti, fissata al 12,5 per cento degli aventi diritto al voto. Al secondo turno, vince il candidato che ottiene più voti.
Non è scontato che il voto per l’assemblea e il voto per il presidente della repubblica siano coerenti tra di loro. E potenzialmente è proprio questo, oggi, il principale problema politico che l’ottavo presidente della V repubblica francese deve risolvere
I compagni di viaggio di Macron
Emmanuel Macron è stato membro del partito socialista e ministro nel secondo governo Valls; nel 2016 ha fondato il partito En marche!, col quale si è poi presentato alle elezioni presidenziali. Poiché si tratta di un partito nuovo, En marche! non ha mai partecipato alle elezioni per l’Assemblea nazionale, dove oggi è il partito socialista ad avere la maggioranza, in attesa del voto dell’11 giugno per il suo rinnovo. In maniera approssimativa, i rapporti di forza tra i partiti si possono dedurre dalle percentuali di consenso ottenute dai candidati alle presidenziali di aprile e maggio: Emmanuel Macron (24 per cento, En Marche!), Marine Le Pen (21 per cento, Front national), François Fillon (20 per cento, Républicains), Jean-Luc Mélenchon (20 per cento, France insoumise – sinistra), Benoît Hamon (6 per cento, Partito socialista), altri (9 per cento). Con questi numeri, una maggioranza parlamentare risulta davvero difficile da immaginare. Tuttavia, il sistema elettorale per l’assemblea nazionale, essendo di tipo maggioritario, modificherà in parte questi rapporti di forza. È comunque molto probabile che En Marche! non potrà sostenere da solo un governo e quindi saranno necessarie alleanze, prima o dopo le elezioni stesse. Non è neanche da escludere la peggiore delle ipotesi (per Macron): l’assemblea potrebbe alla fine esprimere una maggioranza nemica del presidente. Si tratterebbe di un nuovo caso di “cohabitation” (coabitazione), un’esperienza non frequente ma certamente non inedita nella V repubblica francese. In alcuni casi eclatanti il presidente della repubblica ha dovuto addirittura nominare un presidente del consiglio di un partito diverso dal suo: è accaduto a François Mitterrand (socialista) prima con Jacques Chirac (Rassemblement pour la République) tra il 1986 e il 1988 e poi con Édouard Balladur (Rassemblement pour la République) tra il 1993 e il 1995 e a Jacques Chirac con Lionel Jospin (socialista) tra il 1997 e il 2002. Durante i periodi di coabitazione, è ovvio che il ruolo del presidente sia indebolito. Tuttavia, mantiene i principali poteri sulla difesa, la politica estera, compresa quella europea, e la giustizia; dispone anche di una serie di istituti volti a bloccare o ridimensionare le proposte di legge avanzate in assemblea.
Il cammino nel neo presidente appare per ora tutt’altro che in discesa: la campagna elettorale più importante di Macron, forse, comincia proprio adesso.
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Henri Schmit
Le campagne per il rinnovo delle camere in F e in UK dovrebbero insegnare ai Soloni italici come funziona un sistema elettorale libero ed efficiente, che garantisce a tutti l’accesso alle candidature e che dichiara eletti i candidati che ottengono il maggior numero di voti. Anche con collegi plurinominali è possibile rispettare le libertà di accesso e di voto, come è facile dimostrare, in teoria che con esempi vivi. Nei collegi uninominali la battaglia, strategie e tatticismi, le iniziative degli individui e le decisioni dei partiti sono funzione delle presunte preferenze degli elettori. Alla fine vince chi è più convincente, o per ragioni personali o per ragioni di sigla di appartenenza o per un mix dei due. L’effetto leva del collegio uninominale favorirà gli schieramenti più convincenti. Con la sinistra tradizionale divisa i sondaggi (ieri France24) premiamo La République en marche (circa 220 a 300 seggi su 577) e Les Républicains (200 a 250 circa). La strategia di LREM guarda quindi verso LR. Finora nessun esponente LR ha accettato di presentarsi con LREM; se lo facessero, il loro partito farebbe la fine del PS. Perché non copiare il sistema F in Italia per la Camera e prevedere per il Senato un sistema con riparto in piccoli collegi da tre a cinque seggi, senza correzione nazionale? In un 2° tempo si potrebbe riproporre il 90% della riforma bocciata il 4/12 (bicameralismo, titolo V, potere esecutivo) aggiungendo la sfiducia costruttiva, inventata peraltro in Italia!
Henri Schmit
Ecco fatto (ore 14:53): il neo-présidente nomina Édouard Philippe primo ministro. Uomo di Alain Juppé (lui stesso chiamato da Chirac “le meilleur parmi nous”), l’evidente compito del nuovo capo di governo è di aprire la futura maggioranza verso il centro, verso i gaullisti progressisti. Nessun’illusione quindi per un maggiore lassismo nel campo dei conti pubblici, ma probabili proteste contro l’ulteriore liberalizzazione del contratto di lavoro promessa da Macron.
Henri Schmit
Bisogna seguire la logica dell’uninominale nella strategia politica di un presidente della repubblica senza partito. Prima indica 428 candidati progressisti, senza esperienza politica o ex-socialisti, poi (2. atto) nomina un primo ministro che rivendica l’appartenenza alla destra, ma fa parte del gruppo moderato juppéista di LR, poi indica altri 120 candidati di cui una quarantina MoDem di Bayrou, da sempre in sintonia con Juppé. In alcuni collegi si scambiano candidati per favorire i MoDem, in altri non si presenta nessuno contro candidati LR ritenuti Macron-compatibili. Oggi (3. atto) il presidente nomina gli altri 14 ministri, moderati LR, MoDem fra cui lo stesso Bayrou, socialisti fra cui Le Drian, e indipendenti, e alla fine (4. atto) i Francesi voteranno. Comunque vada i deputati LR formeranno due gruppi parlamentari, uno di appoggio al governo, uno di opposizione più intransigente. La maggioranza presidenziale dipenderà dai LREM e da questo gruppo dei LR. Sarà Juppé (le sue idee) che governa senza aver dovuto sostituire Fillon travolto dello scandalo, anzi con un movimento più riformista di quello che lui stesso sarebbe stato in grado di guidare. Risultato di grande speranza riformista. Il Generale applaudirebbe.