Sono passati quasi quindici anni dall’introduzione dell’apprendistato professionalizzante con la legge Biagi. E un confronto con il vecchio apprendistato mostra che ha avuto effetti positivi per i giovani. Ma è un contratto poco utilizzato dalle imprese.

Confronto tra apprendistati

Gli elevati tassi di disoccupazione giovanile riportano alla ribalta il tema della transizione scuola lavoro. Per favorire un più rapido ingresso nel mondo del lavoro al termine degli studi, la legge 30/2003 (“legge Biagi”) ha introdotto l’apprendistato professionalizzante.

Prima della riforma, la formazione avveniva presso istituti regionali certificati, quella legge ha invece aggiunto la possibilità di formazione presso le imprese. In più, ha introdotto un minimo salariale per gli apprendisti e allungato l’età massima da 25 a 29 anni.
A quasi quindici anni dalla sua approvazione, si possono valutarne gli effetti a medio termine.

In un lavoro recente ci avvaliamo di un campione di storie lavorative desunte dagli archivi Inps (Inps-Losai) e del fatto che a partire dal 2007 vi è registrata la tipologia del contratto di apprendistato, se professionalizzante o di vecchio tipo. Il confronto è tra i due diversi contratti di apprendistato (vecchio e nuovo) e non con altre forme di impiego giovanile (contratti a termine, collaborazioni), per limitare i problemi di comparabilità. Utilizziamo tecniche di matching per confrontare individui il più possibile simili dal punto di vista delle caratteristiche osservabili nei dati. Ciò consente di operare una valutazione controfattuale del nuovo contratto stimando la differenza di esiti tra il gruppo di trattamento (apprendisti nel nuovo contratto) e gruppo di controllo (apprendisti nel vecchio contratto). I risultati mostrano che il nuovo contratto ha avuto effetti positivi sulle carriere dei giovani.

 Figura 1 – Effetti sui tassi di abbandono e sui tassi di trasformazione a tempo indeterminato

La figura 1A mostra la differenza dei tassi di sopravvivenza nel contratto di apprendistato tra apprendisti nel nuovo e nel vecchio regime nei sette anni successivi dall’inizio dell’apprendistato. La differenza è significativa: nei primi quattro anni dal momento dell’assunzione la probabilità di rimanere in apprendistato è di 5 punti percentuali più elevata per i nuovi apprendisti. Considerando che l’attività formativa richiede tempo e che spesso per imparare un mestiere occorre qualche anno, il maggior attaccamento all’impresa indotto dal nuovo contratto è positivo.

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Nella figura 1B mostriamo invece che al termine del contratto i nuovi apprendisti hanno una maggior probabilità di vederlo trasformato in un contratto a tempo indeterminato. Nella figura 1C si osserva che il grosso delle trasformazioni avviene nella stessa impresa in cui è stato effettuato l’apprendistato. Ciò suggerisce che le aziende hanno tutto l’interesse a trattenere il lavoratore una volta che lo hanno formato adeguatamente e che hanno potuto valutarne meglio le abilità.

Figura 2 – Effetti sui salari giornalieri

Nella figura 2 riportiamo gli effetti percentuali sui salari giornalieri (espressi in misura tempo pieno equivalente per rendere più confrontabili uomini e donne). Esiste un consistente premio salariale a favore dei nuovi apprendisti a inizio contratto, 20 per cento per gli uomini e circa la metà per le donne. Ciò non è sorprendente se si considera che il nuovo contratto di apprendistato prevede un salario minimo. Il differenziale si riduce durante la durata dell’apprendistato, ma non si annulla e nel medio termine i nuovi apprendisti guadagnano il 5 per cento in più, anche a sette anni di distanza dall’inizio del contratto. Esiste dunque un effetto salariale nel medio termine, compatibile con l’ipotesi che il nuovo apprendistato abbia facilitato l’acquisizione di competenze e capitale umano, con conseguenti rendimenti in termini di retribuzione.

Pochi apprendisti

Nonostante gli effetti positivi, l’apprendistato non è mai decollato. Nella figura 3 ne mostriamo l’evoluzione negli ultimi venti anni nella fascia 16-32 anni, utilizzando i dati della popolazione dei rapporti di lavoro disponibili nel programma di ricerca VisitInps. Gli apprendisti erano circa 700mila nel 2000, poco più del 13 per cento degli occupati nella fascia d’età 16-32. Si nota un aumento successivo all’introduzione dell’apprendistato professionalizzante, che però non dura nel tempo. Nel 2007 infatti i contratti di apprendistato sono diventati 850mila (17 per cento), ma nel 2015 erano tornati a circa 500mila (12 per cento). Quindi, se a livello micro la legge Biagi ha avuto effetti positivi, a livello aggregato sembra non avere influenzato la struttura occupazionale.

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La concorrenza dei contratti più semplici (co.co.co, partita Iva o contratto a termine) – che hanno minore burocrazia e non richiedono obbligo formativo – ha frenato l’uso dell’apprendistato come contratto di inserimento lavorativo. Il Jobs act e la decontribuzione per due anni l’hanno ulteriormente spiazzato. Nei primi tre mesi del 2017, secondo i dati dell’Osservatorio sul precariato Inps, la tendenza si è invertita e il numero di nuove assunzioni in apprendistato è tornato ai livelli dello stesso trimestre del 2013, circa 64mila. Il flusso di nuovi apprendisti è dunque tornato quello di prima del Jobs act, con gli stessi problemi di prima.

Figura 3 – Evoluzione dell’apprendistato, 1995 – 2015

 

*Marco Leonardi è Consigliere economico della Presidenza del Consiglio

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