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La carta d’identità delle competenze

La certificazione delle competenze maturate in ogni situazione formativa formale, non formale e informale è oggi un asse portante delle politiche del lavoro. Ma così come è stata istituita in Italia fa riferimento a un repertorio lontano dalla realtà produttiva e lavorativa. Il modello tedesco.
PERCHÉ CERTIFICARE LE COMPETENZE
L’attuale crisi economica ha accelerato due processi già noti fin dagli anni Novanta del secolo scorso. Il primo, quello di un sistema formativo sempre più afflitto dallo strutturale mismatch tra le competenze promosse e quelle invece richieste dalla vita e dal lavoro. Il secondo, quello della destrutturazione in senso post-fordista dei processi produttivi e del mercato che li regola. In questo contesto, la certificazione delle competenze maturate in ogni situazione formativa formale, non formale e informale diviene un asse portante per le politiche del lavoro. Essa permette di vedere riconosciuta la dote di esperienze che ogni persona porta con sé. Dote che in quanto certificata può essere particolarmente preziosa per i molti giovani italiani che ancora abbandonano precocemente gli studi o per gli adulti con una bassa scolarizzazione, ma non solo. Nella ricerca di lavoro o nella transizione da un’occupazione all’altra a costoro, infatti, è data la possibilità di esibire una sorta di “carta di identità” circa il bagaglio di competenze che hanno comunque maturato così da favorire il loro possibile (re)ingresso nel mercato del lavoro. La recente approvazione di un provvedimento sulla certificazione delle competenze è dunque una buona notizia. Bisogna però comprendere se il decreto legislativo n. 13/2013, entrato in vigore a marzo, sia o meno adeguato alle aspettative. La risposta, purtroppo, sembra negativa come dimostrano alcune analisi del provvedimento. (1) A un primo livello perché è scritto in un burocratese incomprensibile ai più. Tuttavia, se al centro della certificazione delle competenze vi è, come recita il decreto, la persona, allora la conditio sine qua non è che questa possa almeno capire in che cosa consista il processo e come vi possa partecipare. Secondariamente, perché la normativa non valorizza tutte le metodologie di apprendimento attivo. Nelle definizioni, infatti, per apprendimento formale si intende unicamente quello collegato al rilascio di un titolo di studio o di una qualifica/diploma professionale. All’interno di questa categoria si ricomprende l’apprendistato di primo e terzo livello, ma viene escluso l’apprendistato professionalizzante operando così un passo indietro rispetto alla legge Biagi del 2003, ma, soprattutto, riproponendo la tradizionale separazione tra scuola e lavoro che va sanata. In terzo luogo, perché, per essere una norma che riconosce la centralità della persona anche a livello sociale (sussidiarietà), viola non poco questo principio. Infatti, se il decreto riconosce tra i soggetti che possono procedere alla individuazione, validazione ed eventuale certificazione delle competenze gli “enti pubblici titolari” (ministeri e Regioni) e gli “enti titolati” (i soggetti pubblici o privati autorizzati o accreditati dai precedenti per operare al posto loro), esclude da questi ultimi – o per lo meno non cita espressamente – i fondi interprofessionali, gli enti bilaterali e le agenzie del lavoro, cioè proprio chi quotidianamente si interfaccia con coloro che sono alle prese con una transizione occupazionale.
IL NODO DELLA SPENDIBILITÀ
La debolezza più forte del decreto legislativo n. 13/2013, tuttavia, si ritrova in un punto centrale per l’intero processo di certificazione delle competenze. Il sistema funziona, infatti, se queste sono realmente spendibili nel mercato del lavoro permettendo, così, di passare con agilità da una situazione occupazionale a un’altra. Perché ciò si realizzi occorre che le competenze certificabili siano ricavate direttamente dal mondo reale e dalle dinamiche produttive quotidiane, come indicavano Le linee guida sulla formazione del 2010. Ma è proprio questo l’elemento che manca nel decreto legislativo n. 13/2013. Al suo posto si (ri)propone l’ennesimo repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali costruito a tavolino all’interno delle stanze ministeriali o riprendendo materiale già disponibile. Così facendo, dunque, il nodo della spendibilità delle competenze certificabili non è sciolto. Come potranno, infatti, aiutare un giovane o un disoccupato a rientrare nel mercato del lavoro delle competenze sì certificate, ma avendo come riferimento un repertorio lontano dalla realtà produttiva e lavorativa oggi particolarmente in movimento? Perché il legislatore non ha seguito la metodologia, condivisa anche con le parti sociali, del testo unico dell’apprendistato che all’articolo 6 prevedeva la costituzione di un repertorio frutto del dialogo reticolare tra istituzioni formative e mondo del lavoro? Oltre a tali interrogativi, di certo rimane solo che con un simile centralismo regolatorio non si va da nessuna parte. Il rischio è che la certificazione delle competenze rimanga per lungo tempo sulla carta. A danno dei giovani e di chi è in cerca di occupazione. Anche in questo caso il metodo tedesco pare lontano. La Germania, impegnata in un progetto analogo a quello italiano, ha deciso di lasciare ampio spazio al mondo del lavoro e ai suoi rappresentanti. Per risolvere infatti il problema della mancanza di un sistema nazionale delle qualifiche il governo tedesco si è affidato proprio a costoro. Quattro sono i gruppi formati da datori di lavoro, sindacati e membri dell’istruzione superiore che operano per procedere a elaborare una cornice di riferimento nazionale. (2)
 
(1) Si veda U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo (a cura di), Certificazione delle competenze. Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n.13, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series n. 6.
(2) Sul caso tedesco si veda quanto riportato in: Isfol (a cura di E. Perulli), Validazione delle competenze da esperienza: approcci e pratiche in Italia e in Europa, 2012, www.isfol.it.

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  1. NICOLA CATARUOZZOLO

    Caro Michele Tiraboschi, con la tua professionalità perchè non ti applichi anche sul sistema “padronale” che vige in Italia? Mi riferisco all’ILVA che chiude gli stabilimenti che abbiamo finanziato, a Marchione che chiude con gli stabilimenti che abbiamo finanziato noi cittadini, al cainano delinquente che ha legiferato per sè e le sue aziende e ai tanti imprenditori che hanno copiato questo modo di fare truffaldino e legalizzato.
    Fai conoscere a noi mortali il tuo pensiero su queste cose.

  2. Antonio

    Complimenti per questo articolo di giusta critica e riflessione sul decreto legislativo n. 13/2013.
    I giovani da voi accennati e i tanti cittadini, non vanno ai centri dell’impiego, perchè sfiduciati e se non raccomandati! Tanto per farne uno di commento che cadrà nel vuoto e nell’inutile.
    Alcune aziende non in crisi hanno sfruttato la legge Fornero per trasformare i contratti determinati di un anno e oltre in contratti cocopro, togliendo a quei lavoratori i pochi vantaggi che avevano.
    Tanti di questi lavoratori non hanno neppure la possibilità di vedere riconosciuta la loro professionalità in quanto la legge di modifica dell’articolo 182 del Codice dei Beni Culturali che riguardava la qualifica dei restauratori che curano e conservano una delle ultime risorse rimaste qual’e quella dei Beni Culturali, approvata all’unanimità dal Senato è finita nel mucchio di leggi inapplicate, ed un loro eventuale albo o riconoscimento professionale attestato da Scuole di alta formazione, riconosciuto da parte delle aziende non in crisi nei nuovi contratti cocopro Fornero, non avranno nessuna speranza. E’ solo una delle tantissime cose volute da parte della classe politica al servizio del dieci per cento dei ricchi principi, baroni e baronetti di questa società? Sicuramente finirà che questi e tanti altri lavoratori, in teoria vedranno certificata e riconosciuta la loro competenza sulla carta!

  3. Alessandra Gallo

    Sono un’Orientatrice Professionale di un Centro Impiego della Provincia di Milano. Al Centro Impiego né giovani né adulti devono essere raccomandati, semplicemente perchè il sistema non funziona così ( e per fortuna!). Sono le aziende che si rivolgono al Centro Impiego per cercare personale, non è il Centro Impiego che tira fuori dal suo “cappello magico” il lavoro!. Evidentemente ci sono poche aziende che utilizzano i canali dei servizi per l’impiego pubblici (e gratis)!. Che ci sia un panorama poco idilliaco è evidente. Ma per favore non tiriamo fuori il servizio pubblico se non se ne conosce il funzionamento.
    Invece, il tema della certificazione delle competenze è interessante ma complesso.Da tanti punti di vista:sarebbe molto utile certificare le competenze ma non vi sono risorse (come al solito) e un linguaggio condiviso solo per definire una cos’è una competenza e come rilevarla. E il problema riguarda tanto i giovani quanto gli adulti, soggetti, questi ultimi, che a mio avviso rappresentano il problema più impellente. I giovani hanno ancora un pò di tempo (purtroppo). Poi c’è un mercato del lavoro poco incline ad acquisire cambiamenti : l’adulto, c’è poco da negare, rappresenta un ostacolo alle prerogative aziendali. Perché anche l’offerta di lavoro (ossia la persona) deve adeguarsi al cambiamento organizzativo (e contrattuale, dico io). Bisognerebbe lavorare su più fronti: formazione nell’accenzione di riqualificazione degli adulti, formazione giovani, controlli ispettivi veri (non la fuffa), interventi sanzionatori veri, maggiore attenzione al personale che lavora nel servizio pubblico (precario, quello giovane, e molto ma molto qualificato. Ve lo assicuro)….un sogno sarebbe!

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