Il settembre di Theresa May si riassume in due discorsi. Nel primo, a Firenze, si è rivolta all’opinione pubblica europea. Con il secondo, al congresso del suo partito a Manchester, ha parlato al paese. La sua posizione di leader non ne esce rafforzata.
Il discorso di Firenze
A Firenze, Theresa May ha chiesto alla UE un rinvio della Brexit di “circa” due anni. Pare anche aver accettato che il Regno Unito dovrà pagare parte del costo del divorzio (l’ammontare è pero soggetto a trattativa) e il principio di salvaguardia dei diritti dei cittadini europei.
Vedremo nel medio periodo quanto in concreto valgano queste dichiarazioni: per il momento notiamo la differenza tra le parole del primo ministro – “vogliamo che gli italiani che sono in UK continuino ad avere gli stessi diritti di cui godono adesso” – e la posizione di David Davis, il ministro per la Brexit: intervistato dalla Bbc, Davis contraddice May, dichiarando testualmente “la trattativa su questo punto è ancora in corso (pagina 5)”.
Al di là della scelta del palcoscenico del capoluogo toscano – caro a tutti gli inglesi, dai lettori di “Camera con vista” a chi fa la spola tra Islington, i Cotswolds e il Chiantishire – con questo intervento Downing Street ha voluto soprattutto dimostrare all’Europa la sua autorità sul partito tory. Ha infatti comandato esplicitamente la presenza del ministro degli esteri Boris Johnson, cha ha dovuto interrompere anzitempo la visita a New York, e quella del ministro del Tesoro Philip Hammond, che, si presume, potrebbe avere a Londra compiti più urgenti che fare la claque a una walking dead, una “morta che cammina”. Jonhson e Hammond infatti, sono i leader di fatto delle due fazioni del partito Tory: l’uno demagogico e sbruffone, nostalgico e volgare, un bambino viziato, sistematicamente intento a cercare i limiti della pazienza dei genitori, per esempio richiedendo, pochi giorni dopo la sua fedele presenza a fianco della leader, quattro punti fermi sulla Brexit diversi dalla linea ufficiale di Downing Street. L’altro, che probabilmente ritiene Brexit un errore madornale, ha l’appoggio praticamente unanime dell’industria, nonché di una corrente dei tory forte abbastanza da impedire a madam May di liquidarlo dopo le azzardate elezioni del giugno scorso.
In Europa il sollievo per l’abbassamento del volume della cacofonia brexitista e l’apparente abbandono del vacuo slogan del governo inglese “have the cake and eat it”, blanda e scolorita versione della nostrana “botte piena e moglie ubriaca”, ha lasciato presto spazio alla frustrazione per il continuo silenzio sulle questioni ancora irrisolte: oltre ai diritti dei cittadini europei post-separazione, c’è il ruolo della Corte di giustizia dell’UE e delle direttive europee, fino alla delicatissima questione del confine tra l’Irlanda del Nord e l’Eire (che non fa comunque parte dell’area Schengen).
Il discorso di Manchester
Il briciolo di autorità che May ha affermato a Firenze si è dissipato nei 65 minuti del suo discorso di Manchester.
Settembre vede i congressi annuali dei partiti, nell’intervallo tra le vacanze e la riapertura del parlamento. La sequenza tradizionale fa sì che l’ultimo atto del lungo rito sia il discorso del leader dei tory.
Tradizionali sono anche lo strettissimo controllo della coreografia e l’avversione al dibattito aperto, in stile vagamente sovietico. Così nel partito laburista è stato proibito un dibattito sulla Brexit, che il discorso di Jeremy Corbyn ha trattato solo di sfuggita, mentre la presenza del vice-leader sarà ricordata solamente per lo stonato tentativo di guidare il congresso in un coro adorante, reminiscente di culti della personalità che si sperava la sinistra si fosse lasciata alle spalle.
Ma senza dubbio la medaglia dell’imbarazzo va assegnata al discorso di madam May: fisicamente stremata, con un filo di voce, impreparata al punto da non avere con sé nemmeno le pastiglie per la gola, ancor più goffa e legnosa del solito, è stata per giunta tradita dalla straordinaria incompetenza organizzativa. Dal serio – un estraneo è arrivato al podio per consegnarle un P45, la notifica ufficiale del licenziamento – al faceto: uno slogan che si disfa da solo, con prevedibili conseguenze sui social. Perfino la sua scelta di indossare un braccialetto con ritratti di Frida Kahlo, pittrice messicana amica di Trotsky, ha suscitato commenti: vuole forse spostare l’attenzione dalla sua scelta di calzature?
Le poche politiche nuove annunciate dalla premier sono sbiadite fotocopie delle proposte ispirate dalla filosofia anti-mercato dei laburisti: un tetto ai prezzi di luce e gas, costruzione di case popolari e infrastrutture ferroviarie, oltre al già annunciato blocco degli aumenti delle tasse universitarie e l’inversione dello status quo per il trapianto di organi. Abbondano invece vacui slogan, magari presi a prestito dalla Cina comunista, e aspetti strappalacrime della vita personale, dalla nonna a servizio, alla tristezza di non poter aver figli, fino all’immancabile ringraziamento personale al servizio sanitario nazionale, che le ha diagnosticato il diabete.
Un discorso disastroso, insomma, che ha convinto molti giornali tory, fino a ieri rimasti fedeli, a buttarla in mare senza pietà. Paradossalmente, è proprio la sua debolezza a tenerla sulla poltrona: i suoi rivali temono non tanto la possibilità che madam May si rinforzi, quanto il rischio che un attacco esplicito possa finire come quello dell’ambizioso Michael Heseltine, il cui manovrare nel 1990 dette sì il colpo di grazia a Margaret Thatcher, ma si concluse con John Major al numero 10.
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Marcomassimo
Per quanto riguarda il congresso Labour le coreografie hanno semplicemente ripreso le loro naturali e scontate configurazioni socialiste; è ritornato in auge il classico colore rosso, che Blair (e peraltro pure Renzi) vedono come il fumo negli occhi o meglio come il toro vede il drappo del torero; del resto almeno in Europa il blu fatica non poco ad esprimere lo spirito della sinistra perché ha una intrinseca tonalità espressiva di sapore più aziendalista ed efficientista che popolare o rivedicazionista; si è poi rivisto in abbondanza il pugno chiuso, antico e nobile simbolo la cui presenza può solo incoraggiare e far bene; per quanto riguarda Corbyn tutto può suscitare tranne che un culto della personalità; è un uomo modesto, serio, dal linguaggio misurato ed asciutto; più che un leader carismatico è un “umile operaio della vigna del partito” per parafrasare una locuzione ecclesiastica; per quanto riguarda la cosiddetta “filosofia anti mercato” non credo che Corbyn ce la abbia; tutt’altro, come tutti gli inglesi al mercato ci tiene un bel po’; il fatto è che c’è mercato e mercato; se il mercato suscita una crescita economica equilibrata per tutte le classi sociali ed in tutti i territori, bene; se invece i frutti arrivano “ai pochi” e non “ai molti” vuol dire semplicemente che nel mercato qualcosa si è sfasato e va rimesso a punto, anche perché così è socialmente insostenibile e rischia prima o poi di schiantarsi spontaneamente.
Gianni De Fraja
Un paio di correzioni. Il colore rosse è sempre stato in auge al congresso dei laburisti. Qui: https://i.pinimg.com/originals/1c/02/89/1c02893bb5b634b273ed603df93dd9c9.jpg si vede una foto di Tony Blair che saluta anche con il pugno alla fine del suo discorso. Il congresso del Labour si chiude storicamente con tutta la sala che canta: quando invece di Bandiera Rossa, We shall overcome, o Things can only get better, il coro è l’ossessiva ripetizione del nome del leader, la definizione culto della personalità è corretta, e Corbyn la incoraggia. Corbyn non crede nel mercato: l’ha detto più volte, e le sue proposte, quali il blocco degli affitti, sono antimercato.
Luca Colombo
A volte le parole sono rivelatrici. Corbyn crede o non crede al dio mercato? Sintomatico di come sotto sotto stiamo parlando di questioni di fede:
Pietro
Penso che il commento riguardasse piu’ i contenuti, oltre che i colori.
Una foto presa cosi, in cinque secondi, su internet fa di Tony Blair un comunista ?
Pietro
Ma invece la proposta che fu fatta dai Tories di mettere un limite alle bollette dell’energia non è antimercato? Quindo non credono nel “mercato”!?
Più leggo i suoi articoli più non capisco come un uomo con la sua educazione possa essere così approssimativo.
Se ci si sforzasse di andare in giro, sentire la radio, parlare con le persone e documentare che, messi da parte tutti i GDP, employment/unemployment rate e compagni, la popolazione inglese vive in una condizione di miseria ed è una nazione piena zeppa di problemi.
Assieme ad un’altra abbondante fetta di Europa la quale è molto responsabile di questo stato di miseria.
Henri Schmit
L’UK è guidata da un PM debole, incerto e patetico che negozia (male) una Brexit che danneggia l’economia e rischia di marginalizzare ed impoverire il paese. Il PM britannico non osa dire pubblicamente come voterebbe nell’ipotesi di un nuovo referendum. L’errore non è stato di indire il referendum, ma 1. di perderlo e 2. di interpretarlo male: solo un partito diviso come i Tories poteva prima negoziare condizioni nuove con l’UE e sostenere poi la separazione. Purtroppo anche il Labour è diviso e poco chiaro sui punti cruciali dei rapporti con l’UE. L’UE è un equilibrio instabile: l’equivoco sulla sede del potere supremo crea incertezze alla lunga insopportabili: governance dell’€, coordinamento delle politiche fiscali, immigrazione, supremazia della normativa e della giurisprudenza, deficit democratico, sovranismo delle regioni etc. Manca una teoria coerente del potere supremo. Manca pure una risposta al dilemma fra mercto e potere pubblico. L’incertezza provoca immobilismo e favorisce conflitti; è forse anche la causa profonda della Brexit.
ihavenodream
Gli inglesi non si sono mai fidati dell’Europa e di Schengen: infatti non ci sono mai entrati. La Gran Bretagna per essere considerata “in Europa” come la Francia o la Germania, dovrebbe infatti adottare l’euro, o per lo meno un cambio rigorosamente fisso tra l’euro e la sterlina, come fa la Danimarca per intenderci. Così come erano le cose invece gli Inglesi erano in Europa per finta. Pero’ avevano (ed hanno ancora) tutta una serie di accordi commerciali con il resto dei paesi del Continente che sarebbe impossibile non avere al giorno d’oggi Europa o no. La Brexit quindi significa NON uscire da una Unione Europea nella quale gli Inglesi non sono mai entrati ma stracciare una serie di accordi economico/commerciali che francamente, non ha nessun senso ripudiare per poi rinegoziarli pari pari.
Theresa May è la vittima sacrificale di questa colossale cantonata presa dagli elettori inglesi, a molti dei quali, occorre dire, bisognerebbe togliere il suffragio, quantomeno nei referendum, vista la facilità che han dimostrato nel farsi manipolare dai farge e Johnson di turno