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Si allarga il solco tra lavoro pubblico e privato

Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale. Così però si allarga la distanza con il lavoro privato. E si contraddice la stretta contro i “furbetti del cartellino”.

Gli effetti della riforma Madia

La previsione della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato.

Pochi hanno sottolineato uno degli aspetti più significativi della riforma Madia (decreto legislativo 75/2015): la soluzione al problema dell’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego (Dlgs 165/2001).

Sull’estensione o meno al lavoro pubblico degli effetti delle riforme al regime della tutela contro i licenziamenti determinate, prima, dalla legge Fornero e poi dal Jobs act, la giurisprudenza della Cassazione si è divisa, giungendo a conclusioni opposte.

Con la riforma Madia il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La tutela contro i licenziamenti illegittimi disposti dal datore pubblico, quindi, non risiede più nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di fatto disapplicato per il pubblico impiego, ma deriva da una norma speciale: l’articolo 63, comma 2, del Dlgs 165/2001, appunto.

Prescrizioni contraddittorie

La scelta normativa accentua la distanza effettivamente esistente tra il lavoro privato e il lavoro pubblico che è “privatizzato” sì, ma con tantissime regole speciali e particolari, esclusivamente dedicate ai dipendenti pubblici, come appunto le tutele nel caso del licenziamento. Tra le questioni che si aprono, al di là della soluzione normativa al problema interpretativo e giurisprudenziale della sorte dell’articolo 18 per il lavoro pubblico, il più evidente è sicuramente quello della piena compatibilità del doppio binario di tutele, alla luce dei principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione. Non sarà comunque facile sollevare in giudizio la questione di costituzionalità che ne deriva.

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In ogni caso, non si può non sottolineare come, da un lato, il legislatore sempre mediante le riforme a firma del ministro Madia abbia giustamente cercato di rendere più rigorosa e dura la normativa sul licenziamento disciplinare a sanzione dalla falsa attestazione della presenza in servizio. Dall’altro lato, però, la reintroduzione della riammissione nel posto di lavoro fa sì che la pubblica amministrazione rischi di vedersi comunque reintegrati dipendenti infedeli.

Un vizio di forma o procedurale nell’iter del procedimento per giungere al licenziamento disciplinare è sufficiente perché il giudice del lavoro annulli la risoluzione del rapporto di lavoro, anche a beneficio dei “furbetti del cartellino”. Cosa che nel privato non potrebbe accadere.

La riforma Fornero aveva previsto un processo di “armonizzazione” della disciplina del lavoro pubblico con quello privato che non pare essersi completato né andare verso normative coerenti tra loro.

Certo, per quanto concerne in particolare il rischio di reintegre di dipendenti che attestano falsamente la presenza in servizio dovute a problemi procedurali, come ad esempio lo sforamento dei termini, la riforma Madia contempla un rimedio generale: stabilisce che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata. Ma ciò a condizione che “non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”.

Facile immaginare quanto possa alimentare il contenzioso un concetto molto importante ma dai confini labili come la lesione del diritto di difesa (sempre dietro l’angolo se si vìolano termini o passaggi procedurali) e il principio di tempestività, in processi molto delicati come sono quelli avviati per ottenere la reintegra.

Di fatto, c’è il rischio concreto che alla giusta durezza imposta dalla riforma contro comportamenti inaccettabili dei dipendenti pubblici possa contrapporsi una tutela non coerente, che può finire per vanificare licenziamenti doverosi.

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  1. Henri Schmit

    Articolo interessante su un tema di cui m’interessano più i principi che i problemi concreti creati da distorsioni nella loro applicazione. Per i dipendenti pubblici due sono le soluzioni possibilio sono equiparati ai dipendenti privati e allora la soppressione delle province implicherebbe il licenziamento in tronco di tutti i dipendenti provinciali; se la conclusione sembra inaccettabile – come in quasi tutti i paesi UE – allora bisogna ammettere che lo statuto del dipendente pubblico implica alcune garanzie contro il licenziamento inesistenti nei contratti di lavoro privati che per ragioni di efficienza e di competitività permettono il licenziamento – non discriminatorio – per ragioni puramente economiche. Con questa soluzione dovrebbero però valere due corollari: la protezione dell’impiego pubblico non deve coprire casi di infedeltà che costituiscono giusta causa; inoltre il rovescio della medaglia, della protezione, dovrebbe essere un diritto dello Stato di modificare unilateralmente, secondo criteri universali, le condizioni economiche dell’impiego pubblico, una conseguenza nettamente negata dalla C. Costituzionale, ma prevista in numerosi altri paesi europei non meno protettivi dell’Italia, e meno indebitati.

    • arthemis

      il problema non sono i licenziamenti per giusta causa ma il reintegro per i licenziamenti (“corretti” dal punto di vista sostanziale) che dal punto di vista formale non hanno seguito tutti i passaggi – qui sta la differenza tra pubblico e privato.

      • Henri Schmit

        La differenza non è giustificabile se non in una logica bizantina’ formalistica. Il mio punto era più ampio, al limite fuori tema: se difendo l’inapplicabilità di tutte le conseguenze del rapporto di lavoro privato all’impiego pubblico nel senso di una protezione contro il licenziamento per ragioni economiche, allora dovrei anche accettare il diritto del datore di lavoro pubblico di rivedere unilateralmente le condizioni economiche, purché lo faccia in modo equo, cioè uguale per tutti i dipendenti pubblici dell’ stessa categoria. La Corte costituzionale difende invece il diritto acquisito salariale dei dipendenti pubblici.

  2. dean

    Una piccola riflessione. Nel privato il datore di lavoro è un imprenditore che ci mette i suoi soldi e, al limite, può anche infischiarsene delle sentenze e decidere di perdere risorse. Pensiamo ai tanti casi di operai reintegrati di giudici del lavoro, che le aziende preferiscono tenere a casa (accettano cioè di retribuirli senza farli lavorare). Nel pubblico ciò è impossibile, perché il soggetto che firma il licenziamento è anch’egli un pubblico dipendente, sottoposto come tale al rischio di un’azione di responsabilità da parte della Corte dei Conti e, spesso, anche della Procura : se il licenziamento si basa su presupposti erronei in fatto (o erroneamente interpretati) scatta “automaticamente” l’abuso di atti d’ufficio.
    Nel privato ti buttano fuori anche se dai dell’incompetente al manager di turno perché è cosa ritenuta inaccettabile. Nel pubblico, invece, se un dipendente dice una cosa del genere, quasi sempre sta semplicemente “anticipando” il giudizio del ministro e/o del direttore generale prossimo venturo.

  3. Giuliano P

    Non stupisce la disparità di trattamento se si pensa che i dipendenti della P.A. sono un serbatoio di voti quasi certi. La cosa andrebbe pensata semplificando il problema: i dipendenti della P.A. o sono lavoratori come tutti gli altri e, di conseguenza, soggetti alle stesse regole, o sono dei “baroni” privilegiati. Si pensi che non temono riduzioni di personale non cassa intregrazione. Poi si lamentano che il loro contratto non viene rinnovato da otto anni!! ma il lavoratore privato in quegli stessi 8 anni se ne è beccati 3 o 4 di cassa integrazione!! Poi ci si lamenta che l’industria non trova mano d’opera (sottopagata e soggetta alle forche caudine di contratti quasi privi di tutele) ed è costretta a ricorrere a mano d’opera straniera,mentre i nostri giovani restano disoccupati.

    • Giangi

      Strano modo di ragionare, i lavoratori privati se ne stanno a casa senza lavorare e percepiscono al cassa integrazione, se vengono licenziati percepiscono al indennità di mobilità finora 4 Anni, 5 se ultracinquantenni, poi la mobilità in deroga fino a anche Viola la Regione, la naspi per 24 mesi… e i privilegianti sono i dip pubblici? Mah,,,,

  4. Savino

    Vi pare da Paese civile che i maestri diplomati scioperino anzichè prendersi la laurea per insegnare?

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