In Italia i sindaci “figli d’arte” sono tra l’8 e il 15 per cento del totale. Quando vengono eletti sono più giovani e hanno meno esperienza politica dei loro colleghi. Sono poi destinati a una carriera più lunga. Ma non sono amministratori migliori.
Dinastie in politica
Anche in politica esistono i “figli di”, politici dinastici che ereditano la reputazione e le conoscenze delle generazioni precedenti. Qual è il ruolo dei politici “figli d’arte” nell’arena politica? Per rispondere alla domanda, abbiamo raccolto i dati su tutti i politici comunali eletti in Italia dal 1985 a oggi e abbiamo studiato come i sindaci dinastici governano.
Per capire se un sindaco è un “figlio d’arte” o no, consideriamo come dinastici tutti quelli che hanno lo stesso cognome di un politico eletto, in passato, nel medesimo comune. Per limitare i casi di omonimie tra i politici che hanno lo stesso cognome, ma non sono imparentati, selezioniamo solo coloro che condividono un cognome “raro”. In altre parole, non prendiamo in considerazione i politici con cognomi molto diffusi in una certa provincia: per esempio, Brambilla a Milano o Esposito a Napoli. Questo riduce considerevolmente il campione di politici considerati (omettendone dallo studio fino al 50 per cento). L’analisi include anche la frequenza di ogni cognome in ogni provincia italiana: ciò permette di rafforzare la credibilità della nostra misura, che prende in esame solo cognomi “rari” che sono molto più presenti tra i politici rispetto al resto della popolazione residente nella stessa area.
Il processo consente di identificare come dinastici tra l’8 e il 15 per cento dei sindaci italiani, a seconda del numero di cognomi “rari” inclusi nell’analisi. In valore assoluto si tratta di un numero tra i 3.700 e i 7 mila sindaci (su 47 mila inclusi nell’analisi), a seconda della definizione di cognome “raro”. I sindaci dinastici sono presenti in tutte le aree del paese, le uniche zone con una bassa presenza sono le regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana e Marche) e alcune zone del Lombardo-Veneto.
I “figli d’arte” nelle urne
Il primo risultato della nostra analisi è che i “figli d’arte” sono candidati particolarmente competitivi. Confrontando due candidati simili tra loro per livello d’istruzione, età, sesso e partito, il fatto di provenire da una dinastia politica garantisce un vantaggio elettorale del 4 per cento alle elezioni comunali. Il vantaggio è rilevante soprattutto quando il candidato “figlio d’arte” non ha accumulato nessuna esperienza politica, probabilmente perché col passare del tempo gli elettori lo valutano solo sulla base del suo operato.
I politici dinastici hanno anche carriere politiche più lunghe e più promettenti in termini di ascesa nei consigli provinciali o regionali. Il fatto che ereditino un vantaggio elettorale è evidente poi dall’esperienza politica accumulata e dall’età anagrafica al momento dell’elezione: i sindaci dinastici sono molto più giovani (4 anni in meno) e con un percorso politico più breve (4 anni in meno di permanenza nel consiglio comunale).
Governano meglio o peggio?
La domanda più importante, forse, è: come governano i politici “figli d’arte”? Incrociando i dati sui politici con quelli dei bilanci comunali pubblicati dal ministero dell’Interno è possibile confrontare i sindaci dinastici con quelli non-dinastici all’interno di una stessa città. Ne emerge un risultato molto chiaro. I sindaci “figli di” spendono molto di più prima delle elezioni (tra gli 80 e i 150 euro per abitante), soprattutto quando possono ricandidarsi per un secondo mandato e quando affrontano un candidato (non dinastico) particolarmente competitivo. Si tratta di aumento nella spesa totale dovuto soprattutto a una forte crescita di quella in conto capitale. Viene finanziata soprattutto con maggiori trasferimenti regionali o nazionali e sembra indicare, quindi, una maggiore capacità di manipolare la spesa pubblica quando è più conveniente: prima delle elezioni, quando gli elettori sono più attenti e recettivi.
Al di là del trend di spesa, se consideriamo altri indicatori, come la crescita economica (misurata dalla base imponibile del settore privato) o l’efficienza del comune (misurata dalla capacità di ripagare i debiti per tempo e dalla capacità di riscuotere le tasse e le imposte locali), i sindaci dinastici non sembrano governare né meglio né peggio degli altri.
In conclusione, essere “figli di” è utile per fare carriera in politica, ma non cambia il benessere collettivo.
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Savino
I Comuni non sono proprietà privata di poche famiglie o pochi gruppi di potere.
Uniamo questo discorso con le dinastie burocratiche e con i record negativi in materia di scioglimenti per mafia e per dissesti di bilancio.
Ne viene fuori la messa in discussione dell’istituzione Comune, soprattutto quando esso è piccolo o piccolissimo e non più in grado di garantire adeguati e dignitosi servizi ai cittadini.
Michele
“I figli di” è un fenomeno da eliminare per legge, come ci sono limiti al numero dei mandati, che anzi dovrebbero essere resi molto più severi.