Il fact-checking de lavoce.info passa al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca alle affermazioni di Pasquale Tridico, il ministro del lavoro proposto da Luigi Di Maio, sul costo del Jobs act. Vuoi inviarci una segnalazione? Clicca qui.
Il Movimento 5 stelle ha lavorato e sta lavorando al programma economico, nel caso in cui riuscisse a insediarsi a Palazzo Chigi. In questo senso vanno anche lette le critiche ai provvedimenti dei precedenti governi. Un esempio è l’affermazione di Pasquale Tridico, professore di politica economica e candidato in pectore M5s per il ministero del Lavoro, che ha detto:
“Il costo dell’operazione del Jobs Act è stato di 23 miliardi […] di euro”.
Tridico, contattato da lavoce.info, ha specificato che la sua stima si riferiva agli sgravi fiscali per i contratti a tutele crescenti. Una precisazione importante: il cosiddetto Jobs act è la legge delega n. 183 del 2014, attuata con diversi decreti legislativi. La decontribuzione per il tempo indeterminato è invece una misura complementare, introdotta a inizio 2015 con la legge di stabilità 2015. Si tratta di uno sgravio fiscale fino a 8.060 euro per ogni contratto a tempo indeterminato valido per un triennio, ridotto dal 2016 a un tetto massimo di 3.250 euro e a una durata di 24 mesi (entrambi dunque si estingueranno a fine 2018). Il beneficio ha interessato sia contratti instaurati ex novo, sia le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti a termine. La stima di Tridico è dunque corretta?
I dati e le stime
Il governo, nella legge di bilancio 2015, aveva quantificato – per la sola decontribuzione triennale piena – un costo lordo di poco più di 15 miliardi, 11,6 al netto degli effetti fiscali. Una previsione in parte criticata da Adapt, che prevedeva invece un costo di almeno 4 miliardi superiore (sempre solo per la decontribuzione piena). Oggi tra i ministeri circolano numeri differenti, che tuttavia il governo non ha voluto rilasciare neanche attraverso una richiesta di accesso civico (Foia): i dati definitivi li potrà fornire solo Inps, terminati tutti gli effetti a fine anno.
Per stimare il costo della decontribuzione prevista assieme al Jobs act, bisogna considerare diversi fattori: 1) il numero di contratti che hanno beneficiato della decontribuzione (sia “piena” che “ridotta”); 2) la loro durata (che potrebbe essere inferiore al periodo di concessione dello sgravio); 3) l’entità della retribuzione lorda. Grazie ai dati Inps abbiamo le informazioni relative al primo punto, mentre sono necessarie ipotesi per gli altri due.
Secondo i dati Inps, le assunzioni a tempo indeterminato che hanno beneficiato dell’esonero contributivo sono state 1.079.070 nel 2015 e 413.631 nel 2016; le trasformazioni sono state invece 363.656 nel 2015 e 202.811 nel 2016. I grafici 1 e 2 mostrano i dati mese per mese, nei due anni.
Figura 1
Nota: i dati aggiornati dell’Inps e quelli pubblicati da Fana, Patriarca e Raitano differenziano di qualche migliaia. Sono comunque differenze poco rilevanti ai fini dell’analisi.
Per quanto riguarda la durata dei contratti beneficiari e la retribuzione prevista, è necessario procedere per ipotesi. È quanto viene fatto, ad esempio, da Marta Fana, Fabrizio Patriarca e Michele Raitano che, nel Rapporto sullo stato sociale 2017 edito dall’università “La Sapienza” e curato da Felice Roberto Pizzuti, propongono un’analisi dei costi e dell’efficacia degli sgravi contributivi connessi al Jobs act (qui una sintesi gratuita, ma solo sul 2015). Gli autori fanno due assunzioni principali sulla base dei dati Inps per l’intero 2015 e fino a novembre 2016: la prima, che riguarda la retribuzione lorda, assume che la ripartizione che la distribuzione dei contratti beneficiari sia la stessa di tutti i contratti; la seconda riguarda la durata dei contratti beneficiari.
Con riferimento alla durata, gli autori presentano tre scenari che corrispondono a tre diverse ipotesi:
- Ipotesi limite – tutti i contratti rimangono attivi per l’intero periodo di decontribuzione corrispondente (36 mesi per i contratti 2015, 24 mesi per i contratti 2016);
- Ipotesi intermedia – per le nuove assunzioni si assume una durata di 36 mesi; per le trasformazioni, il 59 per cento dei contratti dura 36 mesi, il 13 per cento cessa entro i 12 mesi, il 17,7 fra il tredicesimo e il ventiquattresimo mese, il 10,3 fra il venticinquesimo e il trentaseiesimo mese (secondo l’osservazione della durata dei contratti a tempo indeterminato dal 2012 al 2014 del Ministero del Lavoro);
- Scenario prudenziale – l’80 per cento dei nuovi contratti dura 36 mesi, il 20 per cento 18 mesi mentre le trasformazioni seguono l’ipotesi dello scenario 2.
I tre scenari, aggiornati con gli ultimi dati Inps (che includono anche dicembre 2016) sono riassunti nella tabella 1. Accanto al costo così stimato (il costo lordo), nella tabella viene riportato anche il cosiddetto costo netto, ossia la somma che si ottiene detraendo dal calcolo i maggiori versamenti Ires che risultano dalla decontribuzione. Infatti, i contributi fiscalizzati non sono più deducibili dal costo del lavoro, il che risulta in una riduzione sensibile del costo che ricade sulla fiscalità generale.
Tabella 1
Fonte: rielaborazione dei dati forniti nel Rapporto sullo stato sociale, a cui abbiamo aggiunto il mese di dicembre 2016 (mancante).
I 23 miliardi menzionati da Tridico fanno riferimento all’ipotesi limite che gli stessi autori dell’articolo valutano come poco “realistica”. Inoltre, la cifra non tiene conto delle maggiori entrate Ires, che portano a un costo netto sensibilmente inferiore, pur mantenendo l’ipotesi irrealistica sulla durata dei contratti.
Vale tuttavia la pena sottolineare che questo minor costo del Jobs act negli scenari 2 e 3 deriva dal fatto che, verosimilmente, una parte non trascurabile dei rapporti di lavoro che hanno beneficiato della decontribuzione non sono sopravvissuti alla durata dello sgravio contributivo. Si tratta probabilmente di un esito opposto a quello che la misura voleva realizzare: questo minor costo del Jobs act potrebbe essere visto come conseguenza del mancato raggiungimento, almeno in parte, degli obiettivi che la misura si poneva.
Il verdetto
Pasquale Tridico, interrogato da lavoce.info, ha fatto sapere di aver scelto di citare lo scenario limite – per cui i nuovi contratti sarebbero dovuti durare per l’intero periodo della decontribuzione – perché si deve pensare “allo scenario massimo di spesa possibile”. Vero, fino al momento in cui si può ottenere una stima più accurata e realistica come fanno gli stessi Fana, Patriarca e Raitano con i successivi scenari. La stima citata pubblicamente, e senza ulteriori chiarimenti, dal ministro in pectore del Movimento è dichiaratamente la meno realistica, anche a detta degli stessi autori citati da Tridico. La sua affermazione è quindi PARZIALMENTE FALSA.
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Paolo Rossi
Da un altro autore leggo quanto:”troviamo conferma all’interno del Rendiconto Generale dello Stato e dalle sue rilevazioni a consuntivo. Pertanto scopriamo che, come già ebbi modo di evidenziare in precedenza, il conto delle politiche di incentivazione del lavoro durante i mille giorni di Renzi ha un peso decisamente rilevante: 28 miliardi. Il calcolo può essere riscontrato con facilità da chiunque: è sufficiente in tal senso esaminare il Rendiconto Generale dello Stato per gli anni 2015 e 2016 alla voce “Politiche passive del lavoro ed incentivi all’occupazione” che a sua volta può essere recuperato all’interno dell’Analisi dei Costi per Missione e Programma (del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). Per il 2017 mancando ancora tali dati a consuntivo possiamo utilizzare il dato della Legge di Bilancio. Emergono pertanto le seguenti poste contabili: 7.168 milioni per il 2015, 12.023 milioni per il 2016 e 9.204 milioni per il 2017.” Cosa non quadra? Grazie.
Lorenzo Borga
Gentile Paolo, non conoscendo lo studio citato immagino che comprenda – come pare – anche la voce politiche passive del lavoro, che con il Jobs Act sono aumentate di qualche miliardo. Inoltre il costo trattato nel fact-checking è pluriennale: i dati potrebbero essere coerenti (bisognerebbe scorporare i numeri da lei riportati per capirne di più).
Marco Spampinato
Non sono per nulla in grado di entrare nel dettaglio delle cifre menzionati. C’è tuttavia un problema teorico e valutativo sul quale non ho ancora letto alcuno studio di economisti: ha veramente senso incentivare le assunzioni con sgravi contributivi temporanei? Detta altrimenti: che tipo di occupazione aggiuntiva è quella che si dovesse avere per una riduzione, relativamente modesta e temporanea, del costo del lavoro, dovuta ad incentivi? Da molti anni ho il dubbio che assunzioni di lavoratori “non strettamente necessari” alla produzione non siano un “bene”, sia dal punto di vista dell’impresa, sia sopratutto da quello del lavoratore. Scoprire di essere utili solo “finché dura un incentivo” è come dire di essere sostanzialmente inutili. Non è allora meglio che il lavoratore non accetti nemmeno un lavoro che esiste solo per “condizioni contingenti”, determinate da un incentivo fiscale? Questo apre un problema sugli usi alternativi della spesa pubblica. Ad es.: dati gli stessi X miliardi di euro, è preferibile spenderli in incentivi fiscali oppure vale la pena usarli per un’altra politica a favore di lavoratori non occupati – o che non trovano occupazione stabile? In che modo può valutarsi l’efficacia complessiva di politiche del lavoro – tenuto conto sia del punto di vista del lavoratore sia dell’impatto che certe politiche hanno su produttività e innovazione dell’intero sistema produttivo?