La Fed aumenta i tassi, ma con cautela. E avverte che stime e previsioni sono oggi caratterizzate da incertezza. È la stessa prudenza usata dalla Bce. Perché ciò che accade alle monete non dipende soltanto dalle banche centrali, ma anche dai governi.
Quadro positivo per l’economia Usa
Alla sua prima uscita ufficiale di fine febbraio al Congresso, il presidente della Federal Reserve, Jay Powell, aveva parlato di un’economia col “vento in poppa”. Ma se qualcuno, a caldo, vi aveva scorto il segnale di una più rapida risalita dei tassi d’interesse, il mercato non sembra crederci poi troppo. Da febbraio, il rendimento dei titoli federali a medio-lungo termine (che rispecchia le aspettative sulla futura politica monetaria) non è salito. Anzi, all’indomani della decisione di alzare i tassi ufficiali di 25 punti base, i rendimenti sul mercato finanziario (oltre l’anno) sono diminuiti (figura 1).
Ragionevolmente, il motivo sta nel fatto che Powell ha sì ribadito il quadro roseo dell’economia americana, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro, ma con due previsioni.
La prima è il progressivo rallentamento della crescita, che la Fed colloca al 2,7 per cento nel 2018, al 2,4 per cento nel 2019 e al 2 per cento nel 2020, allontanandosi perciò dall’obiettivo del 3 per cento dell’amministrazione Usa.
La seconda previsione è un tasso d’inflazione stabile attorno all’obiettivo del 2 per cento, senza apparenti rischi di accelerazione, tenendo anche conto, come ha affermato Powell nel corso della conferenza stampa, che la Fed ha rivisto al ribasso la stima del tasso “naturale” di disoccupazione.
La Fed aumenta i tassi, dunque, ma con cautela, mentre Powell richiama l’attenzione sul fatto che stime e previsioni sono avvolti, soprattutto oggi, da un considerevole grado di incertezza.
A motivare il rialzo sembra esserci anche un bisogno di ritorno alla “normalità” dopo sette anni di tassi a zero. Ma dal quadro macroeconomico delineato dalla stessa Fed non traspare l’urgenza del ricorso alla politica monetaria per rallentare l’economia. Se è vero che il meccanismo di trasmissione di tassi più elevati passa attraverso un rallentamento del credito bancario, ebbene, questo si trova già in frenata da diciotto mesi, durante i quali ha viaggiato a ritmi modesti (figura 2).
Le ragioni della prudenza
Fatte le debite proporzioni, è la stessa cautela esercitata dalla Banca centrale europea, che dimostra di conoscere la fragilità e l’incompletezza dell’euro meglio dei politici europei, ed è consapevole del fatto che la domanda interna rimane fortemente dipendente dalle condizioni internazionali, in particolare dal cambio euro-dollaro e dalla minaccia di una guerra commerciale.
Si può ben dire che le banche centrali non contribuiscono in questo momento a fare chiarezza, ma ciò accade perché esse stesse riconoscono di non essere così potenti come spesso il mondo economico-finanziario le dipinge. A differenza di bitcoin, il dollaro e l’euro sono un credito verso il settore pubblico, e ciò che accade alle monete dipende non soltanto dalle banche centrali, ma anche dai governi. Sono loro la grande incognita: negli Stati Uniti, per la contraddizione tra annunci roboanti e realtà; in Europa, per l’incapacità di comprendere che la moneta unica ha bisogno di più (e lungimirante) politica.
Figura 1
Figura 2
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