La quota di imprese italiane che dichiarano di essere iscritte a un’associazione di categoria è in progressivo calo. Il fenomeno ha ripercussioni sul numero di lavoratori non coperti da un contratto collettivo nazionale. Con due possibili soluzioni.
Associazionismo datoriale in Italia
L’Employment Outlook Ocse del 2017, nel capitolo dedicato alla contrattazione collettiva, sottolinea che l’associazionismo datoriale costituisce ancora, per così dire, un oggetto misterioso: rispetto alle organizzazioni dei lavoratori, poco si sa sui livelli di iscrizione alle associazioni e sulla rappresentatività di questo fondamentale attore del sistema di relazioni industriali. Peraltro, in Italia la questione della misurazione della rappresentanza – anche del sindacato – è aperta, sin dal 2015 nel commercio e, da ultimo, anche nell’industria.
L’indagine Inapp-Ril, condotta su un campione di circa 22 mila imprese e giunta alla sua quinta edizione, fornisce alcune informazioni, seppure non di tipo amministrativo.
L’indagine consente innanzi tutto di considerare l’evoluzione nel tempo della quota di imprese che dichiarano di essere iscritte a un’associazione di categoria. Si registra un progressivo e importante calo del tasso di adesione: se nel 2005 circa il 64 per cento delle imprese con almeno un dipendente dichiarava di essere associata, dieci anni dopo (nel 2015) la percentuale scende decisamente e solo il 44 per cento circa continua a essere iscritta.
Le motivazioni che possono aver indotto questo andamento sono molteplici: per citarne alcune, è uno specchio della erosione degli iscritti al sindacato; il decentramento della contrattazione collettiva e l’accresciuta competitività tra le imprese possono aver ridotto l’importanza relativa della membership; la frammentazione del tessuto imprenditoriale rende più difficile il proselitismo.
Comunque sia, i dati Ril consentono di approfondire le caratteristiche delle imprese che aderiscono alle associazioni di categoria (figura 1). Nel 2015, ultimo dato disponibile, si conferma il peso delle classiche “determinanti” dell’intero sistema di relazioni industriali nazionale: localizzazione, settore di attività e, soprattutto, la dimensione aziendale condizionano la scelta di aderire o meno a una associazione di categoria.
Figura 1 – Tasso di adesione ad associazioni di categoria per imprese con almeno un dipendente per alcune caratteristiche – Anno 2015 (%)
Fonte: nostra elaborazione su dati Inapp-Ril, 2015
Quanti sono i lavoratori delle imprese associate
Per avere una fotografia più rigorosa dell’associazionismo datoriale, e in particolare per misurarne la forza, nella figura 2 è calcolata la densità associativa come percentuale di lavoratori di imprese del settore privato con almeno un dipendente affiliate a una associazione.
Sul totale degli addetti, il 66,5 per cento lavora in aziende affiliate (la media dei paesi Ocse è pari a 51 per cento); si tratta di oltre 6 milioni e 600 mila persone (nel 2005 erano oltre 7.800.000, pari all’82,2 per cento del totale degli addetti). Anche in questo caso le variabili di demografia aziendale sembrano avere un ruolo nel determinare le variazioni della densità associativa. Infatti, solo il 46,2 per cento degli addetti in imprese localizzate nel Sud e nelle Isole è occupato in un’azienda associata; mentre la quota sale a oltre il 73 per cento sia nel Nord-Ovest, sia del Nord-Est. Se guardiamo al settore economico, la maggiore densità associativa si riscontra per gli addetti nell’industria (73 per cento), distanziando sia quelli delle costruzioni, sia quelli dei servizi. La dimensione dell’impresa è un fattore fortemente discriminante e al crescere del numero di addetti aumenta in modo evidente la quota di lavoratori in imprese aderenti: raggiunge quasi l’82 per cento in quelle dai 50 addetti e oltre. Rispetto al 2005, la densità associativa è diminuita in particolare nel Sud e le Isole (-24,6 per cento), nel settore industriale (-16,1 per cento) e nella classe dimensionale 5-15 addetti (-20,2 per cento).
Figura 2 – Incidenza degli addetti in imprese con almeno un dipendente aderenti ad associazioni di categoria per alcune caratteristiche, anno 2015 (%) e differenza in punti percentuali 2005-2015 (valore assoluto)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inapp-Ril, 2005 e 2015
L’applicazione dei Ccnl
Tendenzialmente, dall’adesione a una associazione di categoria discende l’applicazione di un contratto collettivo nazionale. Cosa accade invece agli addetti delle aziende non associate? Secondo i dati Ril, ben il 79 per cento di loro (oltre 2.644.000 persone) lavora in aziende che dichiarano di applicare comunque un Ccnl. È presumibile che lo stimolo principale all’adesione, anche spontanea, ai Ccnl continui a essere il meccanismo giurisprudenziale di estensione dei minimi tabellari fissati dai contratti collettivi, che risultano applicabili anche a imprese e lavoratori che non li hanno sottoscritti (nonostante la giurisprudenza cosiddetta ribassista). Tuttavia, dai dati in nostro possesso, non è possibile ottenere alcuna informazione sulla “qualità” degli accordi applicati e cioè (visto il fenomeno dei contratti pirata) sul livello di rappresentatività delle sigle che li hanno sottoscritti.
Figura 3 – Composizione degli addetti in imprese con almeno un dipendente non aderenti ad associazioni di categoria e che non applicano un Ccnl per alcune caratteristiche delle imprese – Anno 2015 (%)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Inapp-Ril, 2015
Rimane comunque “scoperto” oltre un 21 per cento di addetti (circa 716 mila persone) che lavora in imprese non associate e che dichiarano di non applicare alcun Ccnl. Una condizione che riguarda più che altro chi svolge la propria attività nel settore dei servizi, al Sud e nelle Isole e nelle imprese dai 5 ai 15 addetti (figura 3). A questa non piccola platea di lavoratori avrebbe potuto giovare l’introduzione del salario minimo legale, così come previsto dalla delega contenuta nel Jobs act, che però non è stata attuata. Ne avrebbero potuto beneficiare anche i lavoratori parasubordinati, che non sono salvaguardati neanche dall’equo-compenso dei professionisti.
Due le soluzioni possibili: introdurre, appunto, il salario minimo legale, oppure estendere a tutti i Ccnl rappresentativi, sebbene sia certamente un percorso tecnicamente più complesso.
* Le opinioni espresse dagli autori non impegnano l’Istituto di appartenenza.
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