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Nuovo codice della crisi d’impresa, occasione per le Pmi

Il nuovo codice della crisi di impresa sarà pienamente operativo da agosto 2020. Se le imprese si adegueranno ai suoi obblighi organizzativi in modo non solo formale, sarà l’occasione per un salto di qualità, in particolare per le piccole aziende.

Il nuovo codice della crisi di impresa

Da agosto 2020 sarà pienamente operativo il nuovo codice della crisi di impresa che, dopo oltre settanta anni, ha riformato in modo organico la disciplina fallimentare e ha introdotto le procedure di allerta. Quest’ultime si basano su due pilastri: gli obblighi organizzativi, secondo i quali le aziende devono dotarsi di “assetti organizzativi adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi”, e gli strumenti di allerta, che devono far emergere precocemente i casi di crisi. Le norme prevedono anche l’istituzione degli Ocri (organismo di composizione della crisi e dell’insolvenza), organismi stragiudiziali costituiti presso le camere di commercio per raccogliere le segnalazioni e gestire le situazioni di crisi.

L’obiettivo della riforma è di favorire il risanamento di imprese che versano in una situazione di crisi temporanea e di rendere più rapida e meno costosa l’uscita dal mercato di aziende che invece sono in una situazione per cui la crisi è irreversibile. Alla riforma è dedicato un capitolo monografico del Rapporto Cerved Pmi, su cui questo articolo si basa.

Le norme hanno affidato al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (Cndcec) – che ha scelto Cerved come partner scientifico – l’elaborazione di indici puntuali, che fanno ragionevolmente presumere lo stato di crisi. Il Consiglio ha proposto un approccio sequenziale: in caso di patrimonio netto negativo o sotto gli obblighi di legge, si presume uno stato di crisi. Se il patrimonio è positivo, si guarda al Dscr (debt service coverage ratio), che si basa sul rapporto tra liquidità generata dall’azienda e obbligazioni finanziarie nei 6/12 mesi successivi: se l’indice è inferiore a 1, si presume lo stato di crisi, se è superiore a 1 non c’è presunzione di crisi. Nei casi in cui l’indice non è calcolabile o è inaffidabile, si considerano cinque indici di bilancio: se l’azienda mostra una situazione di difficoltà rispetto a tutti gli indici si presume lo stato di crisi.

Il Dscr è quindi un elemento cruciale per far emergere precocemente casi di crisi, ma richiede sistemi di tesoreria che oggi sono poco diffusi in Italia, specialmente tra le piccole e medie imprese.

Senza investimenti da parte delle imprese in sistemi di tesoreria, bisognerà affidarsi ai cinque indici di bilancio, che per loro natura “guardano al passato” (backward looking). Dietro alla loro scelta e alle relative soglie vi è un trade off: con soglie lasche, si genera un gran numero di segnali d’allarme, che riguardano anche aziende che non versano in un’effettiva situazione di crisi (“falsi positivi”); con soglie stringenti, si riduce il numero di segnali e quindi la capacità di far emergere precocemente un numero significativo di casi di crisi.

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Tra le due alternative, il Cndcec ha prestato una forte attenzione al contenimento dei falsi positivi, adottando soglie molto stringenti, soprattutto per non intasare gli Ocri in una fase di rodaggio e per evitare l’insorgere di una consistente flusso di “unlikely to pay” (Utp) nei bilanci delle banche: secondo nostre stime, calibrare gli indici per intercettare la metà delle insolvenze “costerebbe” circa 150 miliardi di Utp all’anno di “falsi positivi”.

Figura 1

Viceversa, simulazioni su dati storici indicano che il sistema dei cinque indici proposto dal Cndcec consente di minimizzare i falsi positivi e i relativi UtpTP (1,5 miliardi), ma di anticipare una quota molto ridotta di insolvenze (11 per cento).

Costi e benefici

Il rispetto delle norme del nuovo codice della crisi, in particolare l’adempimento degli obblighi organizzativi, richiederà al sistema di imprese italiane ingenti investimenti: per dotarsi di sistemi di monitoraggio del proprio rischio, per acquisire le competenze di gestione del rischio (risk management), per nominare e remunerare gli organi di controllo. Secondo le stime basate sulle previsioni di un panel di professionisti intervistati da Cerved, i costi ammontano a circa 3,8 miliardi di euro all’anno. In caso di un’ampia diffusione dei sistemi di tesoreria, cioè con la capacità di tutte le società di capitale di calcolare il Dscr, potrebbero salire a 6 miliardi di euro. Per una piccola impresa, i costi si attesterebbero a circa 15-20 mila euro all’anno; per una media i costi raddoppierebbero.

Attraverso un’analisi basata in parte sui dati delle imprese, in parte sui risultati dell’esercizio di back testing condotto da Cerved per l’individuazione dei cinque indici, in parte in base a ipotesi relative a tre scenari alternativi, questi costi sono stati correlati con i benefici derivanti dall’emersione precoce della crisi.

Le stime vanno prese con cautela, anche per l’incertezza sulla concreta applicazione delle nuove norme. È comunque possibile trarre alcune conclusioni.

Il successo della riforma dipenderà in modo cruciale da come sarà accolta e attuata dagli imprenditori e dai professionisti coinvolti. In particolare, sarà importante, da un lato, un’ampia diffusione di sistemi di tesoreria, che consentano di individuare tempestivamente situazioni di difficoltà e, dall’altro, una gestione efficace ed efficiente delle crisi da parte degli Ocri. Se il sistema affronterà la riforma in una logica di mero rispetto formale delle norme, affidandosi esclusivamente agli indici di bilancio senza adeguare i modelli organizzativi, i costi supereranno di gran lunga i benefici: la riforma si ridurrà a un aumento degli adempimenti contabili e organizzativi con vantaggi molto ridotti in termini di risanamento e gestione della crisi.

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Dall’altra parte, in uno scenario di puntuale applicazione degli obblighi organizzativi, con sistemi di tesoreria diffusi tra tutte le imprese e procedure di composizione della crisi efficaci da parte degli Ocri, i benefici sarebbero ampiamente superiori ai costi (10 miliardi contro 6 miliardi), grazie alla capacità del sistema di “salvare” molte imprese dal fallimento e di permettere tassi più alti di recupero degli attivi nelle società comunque destinate a uscire dal mercato.

I vantaggi di una diffusa adozione di sistemi di gestione del rischio non sarebbero limitati alla capacità di intercettare precocemente le crisi: consentono infatti di orientare le scelte relative agli investimenti e alle politiche di finanziamento, alla composizione delle fonti, al loro costo. Sono strumenti in grado di rendere più trasparenti le piccole imprese, a cui le banche applicano oggi tassi di interesse poco correlati con il loro rischio di fallimento. Si stima un effetto di oltre un miliardo di maggiori prestiti alle piccole e alle microaziende “solide”, che pagherebbero meno il denaro, e un effetto netto sul valore aggiunto quantificabile in altri 1,3 miliardi.

In altre parole, il codice della crisi offre un’occasione per formalizzare e digitalizzare le pratiche gestionali delle Pmi e per migliorare la loro cultura finanziaria: un salto di qualità che, a tutt’oggi, il sistema delle imprese non sembra in grado di fare da solo.

Figura 2

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  1. Condivido in larga parte l’articolo di Romano e Schivardi, tuttavia quale professionista del settore che è a contatto con molte micro-piccole-imprese, l’elemento più ostico è quello della cultura aziendale e, in particolare, di far comprendere all’imprenditore che strutturare l’azienda utilizzando la tecnologia reperibile anche a “buon mercato” è un passo decisivo.
    Al tempo stesso i commercialisti-colleghi hanno un ruolo fondamentale in questo periodo sia per divulgare la detta cultura d’impresa, sia per individuare funzioni “dormienti” che possono dare maggiori soddisfazioni professionali (anche economiche).
    Non vi è dubbio poi che la MPMI (o la cd. nano impresa – definizione del CNDCEC) ancora non riesce ad apprezzare questi cambiamenti, visti essenzialmente come oneri/spese aggiuntivi, ma l’introduzione di modelli di mappatura dei rischi e/o di KPI, gestiti con gradualità (come un vestito sartoriale e con oneri ampiamente ridotti rispetto a quelli stimati nel pezzo in commento), potranno contribuire a fare crescere l’impresa stessa e al contempo limitare i rischi (enormi) nella gestione di qualunque attività, fino a scongiurare il default. Del resto questo è lo scopo della riforma, con la salvezza dei posti di lavoro.

  2. Francesco Vitolo

    L’uso del termine «azienda» come sinonimo di «impresa» è scorretto sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista giuridico. Giornalisti e politici ignorano la differenza di significato fra «impresa», «azienda» e «società», dando un rilevante contributo al degrado del linguaggio.

  3. Antonio Rossi

    La riforma, come integrata dagli indicatori CNDCEC, avrà degli effetti paradossali. Le imprese in precario equilibrio non sosterranno i costi della tesoreria e quindi, dove è maggiore il rischio, gli indicatori saranno in grado di intercettare solo l’11% delle insolvenze. Sul restante 89% gli organi di controllo potranno coprirsi sostenendo che, non essendo stati superati gli indici di crisi, non erano tenuti agli obblighi di segnalazione ex art. 14 CCII. Gli incentivi all’adozione di adeguati assetti organizzativi non esistono, perché i benefici sono collettivi (minori e più tempestive insolvenze), i costi (degli assetti) individuali. Sarebeb stato meglio modificare l’art. 2214 c.c. imponendo, nell’assetto contabile minimo per legge, anche il sistema di tesoreria. Speriamo.

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