In un mondo in cui gli operatori di servizio utilizzano contemporaneamente molte infrastrutture di rete, si attenuano le ragioni per l’integrazione verticale nelle telecomunicazioni. Su questo scenario del prossimo futuro si innesta la vicenda Telecom.
Dove va Tim
Con l’approssimarsi della data del 24 aprile, quando si terrà l’assemblea di Tim Telecom Italia, le notizie e le mosse dei protagonisti si accavallano, rendendo ancora più difficile comprendere quanto stia accadendo nel principale gruppo di telecomunicazioni italiano. Una difficoltà che non è nuova, se ripercorriamo i frequenti cambiamenti negli assetti di governance del gruppo negli ultimi anni, con il passaggio dal controllo di Telefonica a quello del gruppo Vivendi, alla sortita di Iliad fino agli avvenimenti più recenti, con il pacchetto azionario raccolto dal fondo Elliott in aperta opposizione a Vivendi e l’entrata in scena di Cassa depositi e prestiti.
I frequenti cambiamenti negli assetti della governance si sono riflessi in una difficile lettura delle linee strategiche del gruppo. Telecom Italia ha, di volta in volta, prospettato la possibilità di una separazione tra le infrastrutture di rete e i servizi di telecomunicazione, con un piano che successivamente è andato in soffitta, varando poi una profonda e costosa ristrutturazione interna per garantire una equivalenza nei processi di accesso alla rete locale ai concorrenti (equivalence of input) e infine, nei mesi scorsi, riproponendo la separazione della rete di accesso.
Un nuovo scenario
Più trasparenti sono le politiche pubbliche sviluppate, in questi ultimi anni, per iniziativa dei governi Renzi e Gentiloni. Partendo dalla constatazione che i piani di investimento nelle reti di nuova generazione previsti dagli operatori privati, e in primo luogo da Telecom Italia, non erano in grado di colmare il forte ritardo dell’Italia rispetto agli ambiziosi obiettivi di sviluppo della rete di banda larghissima (ultrabroadband) fissati dall’Agenda digitale europea. Per accelerare il processo di investimento nelle nuove infrastrutture le politiche pubbliche si sono quindi articolate su due piani paralleli. Innanzitutto, un organico piano di incentivi agli operatori privati nella realizzazione delle reti di nuova generazione, con strumenti differenziati a seconda dei potenziali di sviluppo delle aree territoriali. Le misure si sono concretizzate nella realizzazione di gare che oggi vedono un vincitore e l’avvio dei lavori di realizzazione delle opere nelle aree a fallimento del mercato, dove il contributo pubblico è più importante. Agcom a sua volta ha definito il quadro delle tariffe di accesso in queste aree.
Un secondo piano di intervento, meno esplicito, riguarda invece l’entrata nel mercato delle infrastrutture ultrabroadband di un nuovo operatore, Openfiber, nel cui azionariato giocano un ruolo fondamentale Enel e Cassa depositi e prestiti, e dove quindi l’influenza pubblica è difficilmente negabile. Openfiber, oltre a risultare l’aggiudicatario delle gare delle aree a fallimento di mercato, ha avviato un ambizioso progetto pure in quelle più sviluppate, anche grazie al contributo di Metroweb, secondo una soluzione tecnologica (fibra fino alle case, Ftth) più avanzata di quella che Telecom Italia stava perseguendo (fibra fino alle cabine di strada e poi utilizzo della rete in rame per raggiungere le case, FttCab).
L’effetto dell’entrata di un nuovo protagonista nella realizzazione delle infrastrutture ultrabroadband, impostato su un modello di business di vendita all’ingrosso dei servizi di accesso agli operatori dei servizi di telecomunicazione (wholesale only) ha sicuramente stimolato Telecom Italia e Fastweb, in alcune realtà attive assieme attraverso la società Flashfiber, ad accelerare gli investimenti e a passare a soluzioni tecnologiche più avanzate (e costose) come Ftth.
Da molte parti, tuttavia, si ritiene che questa situazione difficilmente possa rappresentare lo scenario di lungo periodo, con due infrastrutture ultraboradband negli stessi territori in un paese che tuttora si caratterizza per un livello insufficiente di domanda di servizi avanzati in molte aree. La soluzione che appare, anche a chi scrive, più sensata vede una integrazione tra le due infrastrutture in un soggetto societario unico. Questo potrebbe essere lo sbocco facilitato dalla decisione di Tim Telecom Italia di separare in un soggetto societario la propria rete di accesso sia per la parte tradizionale in rame che per quella in fibra. E l’entrata di Cdp nell’azionariato di Tim potrebbe rappresentare una spinta in questa direzione. Se il processo arriverà a compimento, avremo una società di rete che opera come fornitore dei servizi di accesso agli operatori di servizi di telecomunicazione, separando infrastrutture e servizi.
Resta da capire se questo assetto industriale sia desiderabile o meno. Pochissime sono le esperienze nel panorama internazionale in cui le infrastrutture di telecomunicazione sono gestite da un soggetto diverso da quello che offre servizi: l’integrazione verticale è la norma e la separazione l’eccezione. Nel mondo tecnologico sino a oggi osservato esistevano ragioni per giustificare un assetto di integrazione verticale. Si diceva che la natura e i contenuti dei servizi nel caso delle telecomunicazioni dipendono strettamente dalle caratteristiche delle infrastrutture, e la separazione avrebbe privato queste ultime della direzione tecnologica che veniva richiesta dagli operatori dei servizi.
Il dato tuttora in parte permane, ma sembra attenuarsi nel mondo che in pochi anni avremo di fronte e che si associa allo sviluppo del 5G: un mondo che vedrà una pluralità di reti fisse, mobili, wireless, coordinate a un livello superiore da operatori che interagiranno con le diverse infrastrutture per offrire connettività agli operatori di servizi. Un mondo in cui, quindi, la disponibilità di servizi all’ingrosso di accesso alle diverse reti sarà funzionale al loro coordinamento e alla loro interoperabilità.
Quando non esiste più una, ma molte infrastrutture di rete utilizzate contemporaneamente dagli operatori di servizio, anche le ragioni per l’integrazione verticale nelle Tlc si attenuano. Potremmo scoprire che il nostro paese è un laboratorio innovativo per le soluzioni che, nei prossimi anni, diverranno lo standard a livello internazionale.
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Alfonso Fuggetta
Credo sia utile ricordare quello che scrivevo su Lavoce.info già nel 2010 (e anche prima):
http://www.lavoce.info/archives/26109/tutti-nella-rete/
Alfonso Fuggetta
Questo è di dieci anni fa:
http://www.lavoce.info/archives/24860/telecom-italia-in-un-mercato-che-cambia/
bravotipo
io vorrei capire una cosa? ma nelle aree a fallimento di mercato, ammesso che esistano, non va benissimo che ci arrivano linkem e servizi simili?
sinceramente, ma dobbiamo cablare la sila a spese pubbliche? l’ha ordinato il dottore?