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Euro irreversibile, politica permettendo

Di per sé la fine annunciata del Quantitative easing non avrà un effetto diretto sugli spread. Perché la moneta unica è irreversibile. A patto però che i paesi non mettano in discussione il disegno politico dell’Unione europea e, anzi, sappiano riformarlo.

L’irreversibilità dell’euro

“Non è utile a nessuno mettere in discussione l’esistenza di qualcosa che è irreversibile”. Con queste parole il presidente della Banca centrale europea ha risposto, nella conferenza stampa del 14 giugno, a due domande a proposito delle fibrillazioni partite dall’Italia, nonché della proposta dell’economista tedesco Clemens Fuest di introdurre una clausola di uscita dalla moneta unica pur rimanendo all’interno dell’Unione Europea. Mario Draghi sa che l’unione monetaria non è un accordo di cambio (dunque reversibile), ma è un atto politico.

In altre circostanze, Draghi aveva richiamato le questioni irrisolte di una moneta comune ancora incompleta e aveva esortato la politica europea a procedere più speditamente nella realizzazione delle riforme dell’architettura istituzionale. Anche dopo la riunione di Riga del Consiglio direttivo, ha auspicato il completamento dell’unione bancaria e del mercato dei capitali, nonché un’attuazione trasparente del Patto di stabilità e della procedura per gli squilibri macroeconomici (leggi: Germania), ma ha preferito dire qualche parola in più per alleggerire le tensioni delle ultime settimane (leggi: Italia), ridimensionando gli episodi di volatilità sul mercato dei titoli italiani a una “crisi locale” che non può e non deve essere drammatizzata, ha detto Draghi, in un’area di 19 paesi con 19 cicli elettorali differenti.

Lo scopo del Quantitative easing

Era inevitabile per il presidente della Bce fare i conti con le tensioni politiche di questi giorni, e puntuale è arrivata la domanda a proposito dell’accusa rivolta alla Bce di aver ridotto gli acquisti dei titoli italiani innescando così l’aumento dello spread Btp-Bund, un tema già affrontato su lavoce.info. Qui Draghi si è limitato a fornire i dati che confutano l’ipotesi del “complotto”. Su questo punto, tuttavia, è utile ricordare la meccanica e gli scopi del programma di acquisti della Bce (in realtà per la maggior parte effettuati dalle banche centrali nazionali).

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A differenza di quanto è stato sostenuto nel corso della polemica, la Bce e le Bcn non “fanno il prezzo” quando acquistano sul mercato secondario: ogni acquisto viene eseguito presso l’intermediario che offre di vendere al prezzo più basso. La conseguenza del Quantitative easing sui prezzi è indiretta: riducendo lo stock di titoli sul mercato, i prezzi delle attività finanziarie oggetto del programma tendono a salire e così calano i rendimenti su diverse scadenze e per diverse categorie di rischio. È questo l’obiettivo della componente quantitativa dell’allentamento creditizio iniziato quattro anni fa, finalizzato principalmente a ridurre il costo e far crescere il volume del credito a famiglie e imprese. Il meccanismo di acquisto non impedisce, tuttavia, che un titolo che sia oggetto di una crescente percezione di rischio sia venduto dagli intermediari alle banche centrali a prezzi più bassi, come è accaduto appunto ai Btp, e ciò a prescindere dalla dimensione degli acquisti effettuati dalla banca centrale. Che il Qe non fornisca un sostegno automatico ai prezzi dei titoli pubblici dell’area euro è peraltro evidente dal fatto che gli spread tra i titoli dei paesi membri non si siano affatto ridotti con l’inizio del programma di acquisti.

La riduzione degli spread ha avuto luogo interamente a seguito dell’impegno assunto dalla Bce nel 2012 (il celebre “whatever it takes”) di mettere in atto un programma (condizionato) di sostegno dei prezzi in caso di necessità. Quell’arma continua a essere un potenziale deterrente all’allargamento degli spread, ancorché inefficace nel caso in cui un paese decidesse di non volere collaborare con le istituzioni europee. Proprio su questo punto, Draghi ha esortato i paesi a discutere i problemi irrisolti dell’euro, compresa la necessità di riformare i trattati, con un linguaggio che resti all’interno del perimetro istituzionale esistente.

Una riforma necessaria

Il futuro del Qe era ovviamente il punto centrale della riunione del Consiglio direttivo del 14 giugno. La cautela con la quale Draghi ne ha annunciato la fine per dicembre, la dichiarazione che i tassi ufficiali resteranno immutati per almeno un altro anno, nonché l’affermazione che il programma di acquisti di titoli privati e pubblici intrapreso nel 2015 non è da considerarsi eccezionale ma è ormai parte integrante della cassetta degli attrezzi della politica monetaria, hanno ammorbidito l’annuncio, confermando che la politica monetaria rimarrà accomodante, e poiché lo stock dei titoli acquistati fin qui non sarà diminuito (e i titoli in scadenza reinvestiti) resterà la pressione al ribasso sulla curva dei rendimenti. Ciò ha dato spazio anche a un considerevole calo dell’euro che, se permarrà, non potrà che dare un po’ di respiro alla domanda estera.

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Nella logica richiamata sopra, la fine annunciata del Qe di per sé non avrà un effetto diretto sui differenziali, sempre che i paesi non mettano in discussione il disegno politico dell’Unione europea, ma lavorino per tre fondamentali riforme di sistema: una credibile assicurazione europea dei depositi, un asset risk-free (che potrebbe essere un certificato della BCE), e uno strumento fiscale comune. La moneta unica è irreversibile, ma a condizione che l’Europa politica sappia riformare quel disegno politico prima della prossima crisi.

Figura 1

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  1. Henri Schmit

    Analisi chiarissima. Gli acquisti della BCE non fanno i prezzi, ma li influenzano, spingendoli (intenzionalmente) al rialzo e riducendo quindi lo spread. Ma li influenzano solo, perché la percezione dei rischi (debitore x durata) da parte degli investitori rimane il fattore determinante (anche per volume), influenzato dai fatti (dati macro), dagli atti (leggi fiscali) e dalle parole (programmi, annunci, interviste ….) degli attori politici e dagli atti (acquisti QE) e dalle dichiarazioni delle autorità monetarie (conferenza Draghi). Il punto cruciale sono le politiche fiscali, di competenza nazionale ma concertate a livello europeo, sostanzialmente un “soft power”, senza mezzi di costrizione, a parte la minaccia di soluzioni radicali (“la troica”), una dialettica che insieme alle dichiarazioni dei protagonisti e alla discussione degli scenari possibili incide fortemente sugli spread. Come far convergere le politiche fiscali nazionali verso un obiettivo comune? Sono gli attori nazionali che scelgono fra copertura e deficit, assumendosi le conseguenze. Chi rivendica una teorica libertà (il piano B) senza essere in grado di renderla concreta, crea solo danni. Chi sostiene che gli spread “ingiusti” dovrebbero essere eliminati attraverso la solidarietà fra debiti nazionali commette lo stesso errore di sconnessione dalla realtà. Per ridurre lo spread rimane solo la convergenza volontaria. La politica deve concordare questo obiettivo con le sovranità politico-elettorali nazionali.

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