Il Consiglio europeo non ha risolto nessuna delle grandi questioni legate ai flussi migratori: gestione delle frontiere esterne, campi profughi in Africa e revisione del regolamento di Dublino. Mentre continua il braccio di ferro tra due visioni opposte.
Le tre questioni irrisolte
Nonostante le grandi aspettative della vigilia, il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno non ha portato grosse novità nella gestione delle migrazioni, lasciando alla volontarietà degli stati membri gran parte delle azioni di solidarietà. Le questioni (per nulla risolte) sono principalmente tre: la gestione delle frontiere esterne, l’apertura di campi profughi in Africa e la revisione del regolamento di Dublino.
Il punto di maggiore consenso riguarda le strategie per rallentare i flussi di migranti lungo le rotte del Mediterraneo. Si sono già nettamente ridotti rispetto al 2015 e 2016, grazie agli accordi UE-Turchia (2016) e Italia-Libia (2017), ma l’opinione pubblica europea continua a percepire uno stato di “emergenza”. E l’instabilità dei paesi di transito (in particolare la Libia) mantiene la situazione assai precaria, come dimostrano i naufragi di questi ultimi giorni. Il potenziamento dell’agenzia Frontex e il sostegno alla guardia costiera libica sono sicuramente iniziative necessarie, ma non sufficienti.
Più difficile la questione degli hotspot in Africa. L’Italia avrebbe voluto delegare a paesi terzi (Tunisia, Libia, Niger, ma si è parlato anche di Albania) le fasi di identificazione e valutazione delle richieste d’asilo; altri avrebbero preferito lasciare l’onere ai paesi UE di frontiera, finanziando i centri di accoglienza. Il compromesso europeo parla di “piattaforme di sbarco regionali, in stretta cooperazione con paesi terzi” (senza specificare quali) e di “trasferimento in centri istituiti negli stati membri, unicamente su base volontaria”.
È una soluzione che lascia molti dubbi. Non è chiaro come si otterrà la collaborazione dei paesi terzi, né a che prezzo (l’accordo UE-Turchia, ad esempio, costerà 6 miliardi di euro in quattro anni, 2016-2019). Il concetto di “base volontaria” sembra poi un assist alla de-responsabilizzazione: ad esempio, in caso di valutazione positiva della domanda d’asilo, quale paese europeo sarebbe responsabile? E in caso di diniego, dove finirebbero le persone respinte? Chi può garantire che non tentino comunque la traversata in mare?
Inoltre, pur se è vero che, almeno nel breve termine, l’aumento dello sviluppo favorisce le migrazioni anziché limitarle, nei rapporti con i paesi africani è necessario considerare anche gli impegni europei in materia di cooperazione allo sviluppo. E in questi anni, a detta dello stesso Parlamento europeo, gli strumenti finanziari (in particolare quelli annunciati a La Valletta nel 2015 e ad Abidjan nel 2017) sono stati utilizzati più per pattugliare le coste che per promuovere progetti di sviluppo. Il Consiglio ha approvato il potenziamento di tali fondi, senza però entrare nel merito della gestione.
Sulla revisione del regolamento di Dublino, già l’incontro dei ministri dell’Interno dell’UE del 5 giugno aveva affossato l’ambiziosa proposta di riforma proposta dal Parlamento europeo, basata su quote di ricollocamento automatiche. L’Italia, dopo aver sostenuto in un primo momento i paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, contrari alla riforma), ha riproposto lo schema dell’Europarlamento, affermando il principio che “chi sbarca in Italia sbarca in Europa”.
I partner europei hanno però ribadito la volontà di limitare i movimenti secondari, elemento centrale del regolamento di Dublino, mantenendo di fatto inalterata la responsabilità della gestione delle richieste d’asilo (e dell’accoglienza) a carico dei paesi di primo ingresso. Pur affermando la necessità di “trovare un consenso sulla riforma del regolamento di Dublino”, il Consiglio non chiarisce quando e come la riforma avverrà.
Strategie e alleanze
Il documento sottolinea la distinzione tra migranti economici (chiamati “irregolari”) e rifugiati (“persone bisognose di protezione internazionale”), escludendo del tutto la prima categoria. In realtà, l’Europa vive da anni la contraddizione tra l’aumento delle richieste d’asilo e la chiusura dei flussi regolari: nonostante l’economia in ripresa, oggi l’unico modo per cercare lavoro in Europa è affidarsi agli scafisti. Temi come inserimento lavorativo, fabbisogni delle imprese, riconoscimento di qualifiche e competenze, valutazione delle politiche di integrazione rimangono invece del tutto fuori dal dibattito.
È chiaro a tutti che sul tema delle migrazioni si sta giocando una partita più ampia a livello europeo, ovvero un braccio di ferro tra due visioni opposte di Unione europea. I paesi di Visegrad e l’Austria (a cui spetta dal 1° luglio la presidenza di turno del Consiglio UE), in particolare, sono favorevoli a un maggiore controllo delle frontiere esterne, ma non alla condivisione delle responsabilità dell’accoglienza.
È altrettanto vero che l’immigrazione è un tema che facilmente può essere strumentalizzato o ingigantito, cavalcando paure e percezioni. Peraltro, la stessa intesa su base volontaria è esposta alle variabili politiche: se in futuro si rafforzeranno forze politiche xenofobe in paesi chiave come Francia e Germania, l’Italia rimarrà ancora più isolata, svantaggiata anche dalla posizione geografica.
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Savino
L’unica collaborazione che, concretamente, si può esigere dagli altri Paesi UE è quella finanziaria.
Il governo italiano è già in ritardo nel mettere in piedi un piano di “emergenza strutturale”, almeno per la durata di questa estate, che continuerà ad essere piena di sbarchi dopo la riduzione all’80% dovuta alle buone politiche di Minniti.
Con un piano approvato, si può ottenere sostegno economico e logistico sulla frontiera europea (italiana) per governare il problema.
A furia di revocare le politiche di Minniti, di promettere di espellere in modo snello 600.000 persone e di fare comizi quotidiani ho l’impressione che si stia sottovalutando il day by day che potrebbe protrarsi fino a ottobre-novembre.
Henri Schmit
Bell’articolo equilibrato, privo di giudizi politici. Li aggiungo io. A parte i meriti della marina militare, della guardia costiera e dell’ex ministro Minniti la politica dell’immigrazione italiana è erratica, incoerente e inefficiente; l’attuazione delle politiche è incerta, spesso deviata a scopi privati truffaldini; i commenti sui media sono parziali, chauvinisti, distorsivi della realtà. I risultati dell’ultimo vertice celebrati negli ambienti governativi come un grande successo della nuova strategia della voce alzata, riflettono invece il fallimento di una politica tutta teatrale e l’inettitudine sostanziale dei suoi protagonisti: invece di un vero impegno dei partner europei per un controllo comune delle frontiere esterne, un’assistenza finanziaria e logistica ai paesi di primo ingresso per il trattamento degli arrivi, un’apertura limitata e condizionale delle frontiere interne ai flussi (e non solo ai riflussi) secondari, l’accordo del 29 giugno sancisce l’opposto: l’isolamento dell’Italia fra governi di buona volontà e paesi Visegrad, la chiusura delle frontiere interne a qualsiasi flusso migratorio, l’assenza di ricollocamenti obbligatori, il mantenimento di Dublino, il peso della degli arrivi e delle richieste sui soli paesi più esposti, e tutto questo, per scelta gratuita dell’Italia, come mero preludio diversivo alle questioni fiscali e bancarie. Chi ha combinato questo disastro meriterebbe essere cacciato da tutte le istanze della rappresentanza politica!
Ominide
I paesi di Visegrad non vogliono gli immigrati e sperano di tenerli fuori dall’Europa, la Francia e la Germania non vogliono gli immigrati e sperano di tenerli in Italia
Henri Schmit
Mi permetto di precisare che a Bruxelles non si può decidere di aprire campi profughi nei paesi africani. Minniti ha fatto molto, in silenzio e senza particolari appoggi, in particolare per aprire centri gestiti dall’UNHRC e far accogliere da loro umanamente i ripescati nel mare dalla guardia costiera libica. Nonostante la brutta stampa che gli è riservata in Italia Macron ieri è stato in Mauritania, oggi in Nigeria, due paesi non proprio amici (colonizzati) della Francia, per costruirvi passo per passo quello che veramente manca: la sicurezza e lo sviluppo. Chi ha visto in televisione le sue visite per sottolineare l’assistenza logistica in Mali subito dopo il suo insediamento o l’accoglienza in primavera nell’università di Dakar capisce che a Parigi si fa mentre a Roma si chiacchera accusando la Francia di agire in Africa e in Libia quale rivale dell’Italia. La Francia e l’Europa vanno d’accordo con Minniti, mai con Salvini (a meno che vincano Le Pen, AfD e similari). Ma dipende solo da noi, siamo NOI gli attori che devono impedire che domani comandi questa gente. Chi non lo fa, sarà complice del disastro che si sta combinando, del tutto gratuitamente, per squallido interesse, inettitudine, ignoranza e disonestà.