Le politiche familiari introdotte in Italia sono spesso “sperimentali”. Lo era anche il bonus infanzia appena cancellato dal governo. Servono invece misure stabili all’interno di una strategia complessiva di sostegno a fecondità e occupazione femminile.

La cancellazione del bonus infanzia

Nelle ultime settimane ha suscitato perplessità la decisione del governo di non rinnovare il finanziamento del cosiddetto bonus infanzia. La misura prevedeva la possibilità per le neo-mamme lavoratrici di richiedere la corresponsione di un voucher dal valore di 600 euro al mese per pagare servizi di baby sitting o una quota della rata dell’asilo nido per un periodo massimo di sei mesi, in alternativa al congedo parentale facoltativo retribuito al 30 per cento dello stipendio.

Il bonus era stato introdotto in via sperimentale nel 2012 per il triennio 2013-2015 e poi rinnovato negli anni successivi. L’obiettivo era facilitare il rientro al lavoro delle neo-madri che lo desiderassero o ne avessero necessità, al termine del congedo obbligatorio di maternità o comunque prima della fine del congedo facoltativo, tramite un sostegno monetario per le spese per i servizi per l’infanzia.

Come si vede dalla figura 1, il ricorso al bonus è costantemente aumentato fra il 2013 e il 2017. La crescita osservata nei primi anni riflette la diffusione dell’informazione e dell’interesse per la misura, grazie anche all’aumento dell’importo del sussidio (da 300 a 600 euro dopo il 2013) e all’allungamento dei termini per presentare la domanda; ciò ha portato all’esaurimento del budget previsto sia nel 2015 che nel 2016. Per il biennio 2017-2018, dunque, lo stanziamento è aumentato: 40 milioni per le lavoratrici dipendenti e 10 milioni per le lavoratrici autonome. Si tratta di una cifra comunque bassa, che ha permesso di raggiungere circa 16 mila lavoratrici nel 2017.

Le analisi condotte su dati Inps mostrano come il bonus sia stato efficace nell’incentivare il rientro al lavoro: in media, le donne che ne hanno usufruito rimangono due mesi in meno in congedo rispetto alle altre (figura 2). Tuttavia, il rientro anticipato non sembra apportare benefici di lungo periodo sulle retribuzioni: a due anni dalla nascita del figlio, le differenze fra i due gruppi di donne spariscono (figura 3) e la penalità salariale rispetto al periodo precedente la nascita è la stessa.

Leggi anche:  Quanta pazienza con i soldi: l’esempio dei genitori per i figli

Il bonus infanzia non era perciò una panacea alle diverse problematiche legate all’impatto della maternità sulla vita lavorativa delle donne in termini di salari inferiori, minori possibilità di carriera e, soprattutto, minore partecipazione al mercato del lavoro.

D’altro canto, la sua stessa formulazione aveva limiti intrinsechi. Un bonus di soli sei mesi non può risolvere il problema di conciliazione lavoro-famiglia, specialmente in un paese in cui il 20 per cento delle donne lavoratrici rinuncia all’occupazione dopo la nascita del primo figlio. Inoltre, come testimoniato dalla preferenza del voucher per baby sitting rispetto ai sussidi per l’asilo nido – tanto più marcata al Sud Italia – la misura si inseriva in un contesto di scarsa offerta di servizi per l’infanzia, come spesso sottolineato qui e altrove, deprimendone le potenzialità.

Come sostenere le famiglie

Quando fu introdotto nel 2012, il bonus faceva parte di un pacchetto di misure che avevano l’intento di “sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione della cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e lavoro”. Tuttavia, da allora, l’intento è rimasto lettera morta. La mancata proroga della misura e la scarsa discussione intorno a essa fanno temere che il governo, nonostante gli annunci, non abbia in mente alcuna strategia per stimolare la fecondità, né per aiutare le famiglie e tanto meno le donne. D’altra parte, le politiche familiari che di volta in volta vengono introdotte in Italia hanno spesso carattere “sperimentale” e devono sottostare al necessario rinnovo ogni pochi anni. Rinnovo che spesso non avviene, cosicché le famiglie non possono fare affidamento sul sostegno dello stato.

Nel lungo termine, l’Italia ha bisogno di una strategia complessiva che sostenga stabilmente fecondità e occupazione femminile, aumentando i servizi per l’infanzia, la remunerazione del congedo parentale, introducendo misure che rendano più agevole la combinazione di maternità e lavoro e che favoriscano condivisione e riequilibrio dei compiti di cura. Ben venga, dunque, l’obbligo di allinearci alla nuova direttiva UE che prevede 10 giorni di congedo obbligatorio per i neopapà, il doppio degli attuali. Un suggerimento per cominciare? I 50 milioni appena risparmiati con il mancato rinnovo del bonus siano destinati a questo: il costo stimato di (altri) 5 giorni di congedo papà è proprio quello.

Leggi anche:  C'è chi i nidi proprio non li vuole

Figura 1 – Domande per bonus infanzia per regione e per tipo di contributo. 2013-2017

Fonte: E. M. Martino (2017)

Figura 2 – Mesi cumulati in congedo parentale dopo il congedo obbligatorio, per uso del bonus infanzia

Fonte: E. M. Martino (2017). Nota: lavoratrici dipendenti del settore privato

Figura 3 – Retribuzioni prima e dopo il congedo di maternità, per utilizzo del bonus infanzia

Fonte: E. M. Martino (2017)

L’articolo è pubblicato anche su inGenere.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  C'è chi i nidi proprio non li vuole