Il decreto crescita allevia solo marginalmente l’aggravio complessivo del prelievo sulle imprese previsto dalla legge di bilancio 2019. Pur rivista, la mini-Ires continua a essere meno conveniente del regime Ace-Iri.

La revisione della mini-Ires

Il governo continua a dichiarare che per stimolare la crescita occorre detassare il lavoro e le imprese. Ma alle parole, purtroppo, non seguono i fatti. Nel decreto crescita, infatti, non vi è traccia di riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, mentre per quanto riguarda la tassazione di impresa continuano a esservi consistenti aggravi di imposta nel triennio 2019-2021 e piccoli sgravi promessi solo nel triennio successivo.

La mini-Ires, introdotta dalla legge di bilancio 2019, era stata presentata come l’innovazione principale per la tassazione delle imprese. Come si ricorderà, la nuova imposta sostituiva sia l’Ace (aiuto alla crescita economica) che l’Iri (imposta sul reddito d’impresa), per introdurre un nuovo sistema il cui scopo dichiarato era quello di incentivare, attraverso una tassazione ridotta di nove punti percentuali, i nuovi investimenti (in base ai piani di ammortamento) e la nuova occupazione, purché finanziati con utili non distribuiti.

La tassazione agevolata di questi utili poteva riguardare sia le società di capitali, sia quelle di persone e le imprese individuali: nel primo caso l’aliquota Ires sarebbe scesa, sempre limitatamente alla quota di utili agevolati, dal 24 al 15 per cento, mentre nel secondo caso le aliquote Irpef sarebbero andate dal 14 al 34 per cento, invece delle normali aliquote vigenti 23-43 per cento.

A pochi mesi di distanza, il governo ha cambiato idea: resosi conto dell’eccessivo dirigismo, della ingestibile complessità e della fredda accoglienza da parte delle associazioni di categoria, con il decreto crescita ha modificato radicalmente la mini-Ires, sostituendola con un sistema che continua a essere meno efficiente e conveniente del binomio Ace-Iri e in molti casi persino meno conveniente della mini-Ires prevista con legge di bilancio.

Il decreto crescita, infatti, elimina la detassazione al 15 per cento degli utili destinati a finanziare nuovi investimenti e forza lavoro e introduce un beneficio commisurato agli incrementi di patrimonio netto derivanti da utili non distribuiti, indipendentemente dal loro utilizzo. Ma i benefici sono molto ridotti: gli utili destinati a incrementare il patrimonio netto godranno di uno sconto di 1,5 punti di aliquota nel 2019, 2,5 punti nel 2020, 3,5 nel 2021 fino ad arrivare a uno sconto massimo di 4 punti percentuali dal 2022, almeno stando a quanto previsto dalla bozza di decreto al momento disponibile.

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Con la nuova formulazione, la mini-Ires sembra assomigliare di più all’Ace in vigore dal 2011 e abolita dal governo con la legge di bilancio 2019. Tuttavia, vi sono importanti differenze.

In primo luogo, l’Ace detassava completamente il cosiddetto “rendimento nozionale del capitale”, calcolato applicando una percentuale, fissata di anno in anno dal governo, agli incrementi patrimoniali cumulativi a partire dal 2010, con una riduzione implicita delle aliquote Ires e Irpef crescente nel tempo, in funzione del grado di patrimonializzazione delle imprese. La nuova mini-Ires, invece, applica il piccolo sconto di aliquota sugli incrementi patrimoniali effettuati in ogni singolo esercizio (escludendo benefici cumulativi). Inoltre, con l’Ace gli incrementi patrimoniali considerati ai fini del calcolo comprendevano anche quelli derivanti da nuovi apporti di capitale, mentre per la mini-Ires valgono solo gli utili non distribuiti. Si ha così una discriminazione illogica e incomprensibile, dato che lo stesso decreto crescita auspica un rafforzamento della struttura patrimoniale delle nostre imprese.

Un sistema meno efficiente e meno conveniente

Ciò premesso, non sorprende che il nuovo sistema sia meno conveniente, oltre che meno razionale ed efficiente del sistema Ace-Iri, ed è pure in contrasto con quanto previsto in ambito europeo dalla proposta di Common consolidated corporate tax base (Ccctb), che prevede un regime analogo all’Ace. Secondo stime dell’Istat (Rapporto annuale 2014), dopo 5 anni dall’introduzione del sistema Ace, la riduzione media di aliquota prevista era già superiore a 4 punti percentuali per imprese con fatturato fino a 2 milioni; lo sconto era maggiore per le imprese più piccole e più contenuto per quelle più grandi.

Per le imprese assoggettate all’Irpef (società di persone e imprese individuali), la situazione è peggiore: con l’Iri tutti gli utili trattenuti sarebbero stati tassati al 24 per cento e a questo beneficio si sarebbe aggiunto quello dell’Ace. Con la nuova mini-Ires queste società avranno solo un piccolo sconto (da 1,5 punti a un massimo di 4, dal 2022) sulle normali aliquote Irpef, che vanno dal 23 al 43 per cento.

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Il decreto crescita introduce dunque un sistema peggiore di quello costituito dal binomio Ace-Iri e persino meno conveniente (nel triennio 2019-2021) del regime licenziato dalla legge di bilancio appena lo scorso dicembre, con buona pace per lo stimolo alla crescita che dovrebbe urgentemente promuovere.

Come si vede dalla tabella 1, a poco valgono le altre misure fiscali previste dal decreto crescita. Anche considerando la reintroduzione del superammortamento e del credito di imposta in ricerca e sviluppo e l’aumento previsto per la deducibilità dell’Imu dal reddito di impresa, le stime di gettito riportate nelle Relazioni tecniche del governo evidenziano un aggravio complessivo del prelievo di più di 5 miliardi per il prossimo triennio (2019-2021) e uno sgravio promesso per quello successivo che non arriva a 2 miliardi.Tempi grami per le imprese.

Tabella 1 – Effetti sul gettito (dati in termini cassa, milioni di euro)

 

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